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Scheda N°: 496
Identificazione
Tribunale dell'Inquisizione di Pisa <Pisa, 1574 - 1782>
1574
-
1782
Presente nella documentazione come:
  1. Inquisizione: formaParallela;
  2. Tribunale dell'Inquisizione: formaPrincipale.
Denominazioni
  1. Tribunale dell'Inquisizione
    ,
    da 1574
    fino a 1732
    (denominazione correntemente utilizzata)
Localizzazione: Pisa
 
Descrizione
Note storico-descrittive: La Congregazione del Sant'Uffizio venne fondata nel 1542 da papa Paolo III con la bolla "Licet ab initio". La Congregazione era formata da un gruppo di sei cardinali che beneficiavano di poteri eccezionali per estirpare l'"eretica pravità" dal corpo cristiano; a loro spettava procedere contro i sospetti di eresia, gli eretici e i loro fautori e seguaci. Per assolvere a questo compito essi nominavano degli inquisitori delegati che li rappresentassero nelle varie province: tale scelta ricadde nella quasi totalità sugli ordini mendicanti. L'Inquisizione assunse quindi nel corso di pochi decenni la forma di un'organizzazione stabile e complessa, con sedi sparse su tutto il territorio della penisola. Ad ogni sede era preposto un inquisitore che comunicava con il Sant'Uffizio direttamente o attraverso nunzi apostolici; in questo modo la Congregazione romana poteva stabilire modalità d'azione e soluzione di casi, e definire così una comune linea d'azione.
Gli inquisitori assunsero nel tempo compiti sempre più ampi procedendo non solo contro gli apostati della fede cattolica e i sospetti di eresia, ma occupandosi anche di altri reati che non erano necessariamente connessi con l'eresia "luterana" in senso stretto e che, fino ad allora, erano stati trattati dai tribunali ecclesiastici ordinari. Fra questi reati si possono individuare: la bigamia, le superstizioni magiche e la stregoneria, la bestemmia, il giudaismo, il possesso di libri proibiti.
In Toscana l'Inquisizione venne in un primo momento posta sotto il controllo di un unico inquisitore, quello fiorentino; nel 1575 o, come attestano i documenti, nel 1574, si crearono tre diverse sedi inquisitoriali nelle città di Firenze, Siena e Pisa. In particolare nella città di Pisa fu istituito un inquisitore generale da papa Gregorio XIII per far fronte alla presenza in città di un gran numero di famiglie ebraiche e per rispondere alla politica medicea di espansione economica dell'asse Pisa-Livorno cui corrispose una crescita delle attività mercantili e marinare e, di conseguenza, una maggiore affluenza di eterodossi. Fra gli inquisitori pisani e le istituzioni giudiziarie del ducato mediceo si instaurarono nel tempo rapporti di reciproca collaborazione, tanto che nel XVII secolo l'Inquisizione in Toscana estese notevolmente i propri poteri e, oltre ai reati in materia di fede, ebbe il compito di occuparsi anche della censura dei costumi.
A Pisa il tribunale dell'Inquisizione aveva la sua sede nel convento di San Francesco ed era amministrato dai frati minori. Il tribunale pisano era organizzato e seguiva le direttive procedurali disposte dal Sant'Uffizio di Roma: se venivano fatte denunce, o per pubblica fama si veniva a sospettare che qualche persona avesse mancato in materia di fede, si istituiva il processo. Venivano interrogati sotto giuramento i testimoni spontaneamente comparsi o citati, alla presenza dell'inquisitore e del notaio che rogava gli atti. Nella maggior parte dei casi i processi erano istituiti dopo la presentazione al tribunale di denunce spontanee; accadeva spesso, infatti, che le persone esponessero in confessione un reato di cui erano a conoscenza e non ottenessero l'assoluzione dal sacerdote perché quel tipo di reato era di pertinenza del Sant'Uffizio e bisognava dunque denunciarlo. Una volta che il testimone aveva riferito l'accaduto al tribunale inquisitoriale, doveva affermare di non essere mosso da odio o da inimicizia alcuna verso l'accusato. Si procedeva quindi all'esame di altri testimoni; se l'inquisitore non poteva presenziare agli interrogatori, delegava in sua vece un vicario, che operava quasi sempre quando gli interrogatori non potevano essere fatti in sede, vale a dire nel convento di San Francesco. Malgrado la Congregazione centrale di Roma avesse raccomandato ai tribunali periferici di evitare sovrapposizioni fra clero locale e strutture inquisitoriali, i vicari erano frequentemente scelti proprio fra i residenti, con l'intento di estendere il controllo su territori altrimenti difficilmente raggiungibili. Va inoltre sottolineato come esistesse un vicario fisso per il territorio di Livorno: poiché questa città, divenuta sotto il granduca Ferdinando porto franco, era meta di perseguitati di tutte le religioni e nazionalità, si rese necessaria l'installazione permanente di una sede del tribunale dell'Inquisizione. Tale sede a Livorno si trovava nel palazzo della Confraternita della Misericordia, che era anche l'abitazione del vicario. Spesso i processi si svolgevano nel Bagno della città, cioè nel carcere dove erano detenuti gli schiavi addetti alle galee, nei casi in cui deponeva presso il tribunale un detenuto dello stesso bagno.Se l'inquisito stesso o i testimoni da esaminare risiedevano nel contado pisano, la parte informativa del processo si svolgeva "in loco", sotto la guida di un vicario delegato volta per volta dall'inquisitore.
I processi proseguivano quindi con l'interrogatorio dei testimoni, durante il corso dei quali l'inquisito, se c'era pericolo di fuga o se pendevano a suo carico accuse particolarmente gravi, era tenuto prigioniero e scarcerato poi per essere interrogato. La carcerazione del sospettato era delegata alle autorità civili, ai "birri" del comune; il luogo in cui egli era detenuto poteva essere la prigione secolare o la prigione segreta del Sant'Uffizio. Poiché la detenzione del reo si prolungava fino al termine del processo, si potevano verificare situazioni in cui questi si trovava a soffrire fisicamente per la condizione di recluso; in molti casi il tribunale pisano dette prova di clemenza liberando l'imputato dietro garanzia di fideiussione.
Nel corso dell'interrogatorio dell'accusato, questi poteva ammettere la propria colpevolezza o rimanere sulla negativa. Nel primo caso bisognava risalire ad esaminare le intenzioni, nel secondo si passava ad esaminare nuovamente i testimoni a sfavore. Per arrivare alla confessione del reo, l'inquisitore seguiva spesso una particolare tecnica di interrogatorio che consisteva nel porre sempre le stesse domande, anche quelle che avevano già ottenuto una risposta, inserendone alcune nuove, in modo da far introdurre all'imputato delle variazioni nelle risposte. Negli atti talvolta erano riportati i vari atteggiamenti assunti dall'inquisito durante l'interrogatorio, soprattutto se questi erano particolarmente sfrontati o, all'opposto, tendenti ad impietosire. Se il reo non era confesso gli si potevano offrire le difese da organizzarsi nello spazio di alcuni giorni, assegnandogli anche un avvocato che si occupasse della difesa. L'avvocato nella maggior parte dei casi era designato dall'inquisitore stesso, aveva l'obbligo della segretezza e il compito di redigere un atto difensivo da presentare al tribunale entro un determinato periodo di tempo. L'inquisito, inoltre, d'accordo con il proprio difensore, poteva chiedere che si ascoltassero testimoni a suo favore o presentare prove che dimostrassero l'inconsistenza delle testimonianze contrarie. Nel caso in cui il reo rifiutasse le difese, si rimetteva per sua volontà alla misericordia del Sant'Uffizio. Se invece il reo rimaneva sulla negativa ma non costruiva una difesa probante, l'inquisitore era autorizzato a procedere contro di lui con la tortura. La tortura consisteva solitamente nell'elevazione della fune o, dove questa non si fosse potuta attuare per qualche impedimento fisico dell'imputato (verificato da un medico convocato appositamente dall'inquisitore), si ricorreva ad altri tipi di tormento. Ognuno di questi non poteva essere inflitto per più di mezz'ora e ripetuto non più di tre volte; al momento della sua esecuzione doveva essere presente, oltre all'inquisitore e al notaio che stendeva il verbale dell'interrogatorio, anche un sacerdote ordinario. Se l'imputato confessava sotto tortura, doveva poi ratificare la sua confessione trascorse ventiquattro ore e fuori dal luogo della tortura. La forma in cui a Pisa si praticò la tortura fu, nella maggior parte dei casi, la sospensione della fune. Se all'imputato veniva praticata la tortura, questa era sempre inferta seguendo le regole, non eccedendo con i tempi e alla presenza, oltre che dell'inquisitore, dell'Ordinario o di un suo delegato.
Se alfine l'imputato non risultava né per propria confessione, né per evidenza del fatto, né per legittima produzione dei testimoni, sospetto di eresia o di altro delitto spettante al Sant'Uffizio, era dichiarato innocente con sentenza assolutoria. La sentenza era pronunciata dall'inquisitore con la partecipazione dell'Ordinario della diocesi in cui si trovava il tribunale, o di un suo rappresentante. Prima dell'emissione della sentenza l'inquisitore poteva richiedere il parere consultivo dei cosiddetti #boni viri#, ovvero giureconsulti laici, religiosi, chierici, cui veniva fornito un sommario del dibattimento in corso per ricevere un parere in merito.
La sentenza era resa nota all'inquisito in forma ufficiale e in presenza di testimoni; a Pisa questo avveniva nel palazzo dell'arcivescovado, più raramente se ne dava pubblica lettura in piazza.
La maggiore o minore gravità della sentenza dipendeva ovviamente dal tipo di crimine che si accertava o si presupponeva fosse stato commesso: i casi trattati dal tribunale inquisitoriale pisano investono una tipologia di reati molto ampia. Mentre all'inizio l'attenzione del tribunale era volta alla ricerca dell'eresia dotta o teologicamente avvertita, in seguito - soprattutto con l'avvento del XVII secolo - l'orizzonte dell'inquisizione fu occupato in misura crescente dalle materie di magia e stregoneria, dal reato di blasfemia, dai giudaizzanti e dalla serie di reati connessi con i sacramenti: "sollecitatio ad turpia", celebrazione della messa senza l'ordine sacro, bigamia. Moltissime furono a Pisa le conversioni di eretici e i casi di confessa apostasia, denunciati soprattutto presso la sede del tribunale di Livorno.
Se si verificava uno di questi casi, l'imputato era dichiarato sospetto di eresia o di apostasia in forma lieve o veemente. In entrambi i casi il reo, per essere assolto, doveva abiurare davanti al tribunale secondo una formula stabilita. Le sentenze emesse dal tribunale pisano presupponevano dunque molto spesso l'abiura dell'inquisito, cui erano comminate anche delle penitenze salutari, consistenti raramente in pellegrinaggi, più spesso in digiuni, recita di preghiere, avvicinamento ai sacramenti della confessione e della comunione più volte l'anno.
Talvolta gli inquisiti, se il reato loro ascritto era grave e provato, venivano condannati a pene più pesanti, consistenti solitamente in un periodo di servizio come rematori in una galea. Non si conoscono allo stato attuale degli studi del tribunale inquisitoriale pisano casi estremi di consegna al braccio secolare per l'esecuzione di una condanna a morte.
L'attività dei tribunali inquisitoriali toscani proseguì fino al 1782, quando il granduca Pietro Leopoldo stabilì con un editto che le contingenze storiche per cui si erano formati tali tribunali non esistevano più, quindi di questioni inerenti la fede sarebbero tornati ad occuparsi i vescovi e gli ecclesiastici ordinari.
Sedi di attività
 
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