Diocesi di Pitigliano - Sovana - Orbetello
STORIA
I - Le origini e l’età medievale
Importante centro etrusco noto per la sua munitissima posizione strategica, Sovana, l’antica Suana – oggi frazione del comune di Sorano – divenne municipio romano mantenendo una sua importanza territoriale anche grazie alla vicinanza di un diverticolo della via Clodia.Essa conobbe probabilmente attorno al IV . le prime correnti missionarie cristiane visibili in alcuni dei culti più antichi e oscuri dell’area, come quello per san Bruzio.
Non si hanno notizie certe dell’esistenza di una chiesa matrice a Sovana prima del VII sec.; durante il pontificato di Gregorio Magno la diocesi, se era esistita in precedenza, non doveva essere sopravvissuta ai mutamenti del V e VI sec., dal momento che il pontefice non la menziona pur nel ricorrere di eventi che riguardarono l’area e di cui egli era sicuramente a conoscenza.
Il crescere di un suo ruolo territoriale è visibile solo durante il regno longobardo, e in particolare nell’età di Rotari, a partire dalla quale si hanno notizie sicure dell’esistenza di vescovi sovanensi, come quel Maurizio che apponeva la sua firma agli atti del concilio Costantinopolitano del 680.
Non è dato di sapere in quale misura il territorio diocesano abbia coinciso con quello municipale o con la successiva distrettualizzazione imposta dai longobardi che esercitarono un controllo su quell’area grazie a gastaldi regi residenti in Sovana.
Durante il periodo carolingio la città restò al centro di un comitatus di cui possiamo solo ipotizzare la coincidenza con un distretto diocesano; sulla scorta di dati successivi sappiamo che nel X . la diocesi si estendeva su una vasta porzione territoriale delimitata dai confini di quella di Toscanella, nel Lazio, di Castro (poi Acquapendente), di Chiusi, di Roselle (poi Grosseto) e, sul versante occidentale, dal Tirreno, ove la giurisdizione dei vescovi di Sovana si spingeva a comprendere, oltre il promontorio dell’Argentario e Orbetello, anche le isole del Giglio e di Giannutri.
Nel XIII . la pieve di Orbetello, con la cappellania di Porto Santo Stefano, unitamente alla cura dell’isola del Giglio, fu separata dal territorio diocesano sovanense per confluire nella giurisdizione nullius dell’abbazia romana di san Vincenzo e Anastasio «ad Aquas Salvias», più nota col nome delle Tre Fontane, passata in proprietà ai cisterciensi nel 1140.
Questa attribuzione mirava a rafforzare il controllo pontificio sul confine del Patrimonium: questa strategia difensiva fu perseguita con coerenza dal pontefice Gregorio IX che, preoccupato dall’evolversi del potere ghibellino nella Tuscia e in particolare nel senese, a partire dal terzo decennio del XIII . vi favorì lo stanziamento dei cisterciensi: così a esempio nell’antica abbazia regia di San Salvatore al Monte Amiata che controllava il tratto della Francigena dal quale si accedeva ai domini pontifici.
Il tentativo di consolidare il controllo papale su questa zona cuscinetto era la risposta alla progressiva frammentazione territoriale determinatasi – già nei primi del Duecento e in maniera più evidente nella seconda metà del secolo – in seguito alle ripartizioni patrimoniali della famiglia comitale degli Aldobrandeschi tra i due grossi ceppi dinastici dei signori di Sovana e di quelli di Santa Fiora.
Di questa debolezza si sarebbe avvantaggiata Siena che, condizionata dall’espansione territoriale delle città rivali della Toscana settentrionale, ebbe come naturale area di sviluppo il Meridione della regione, nel quale ritagliò proprie giurisdizioni a spese delle periferie comitatine – e diocesane – di Chiusi e di Volterra.
Sovana, che era rimasta sede degli omonimi conti fino al XIII sec., veniva da essi abbandonata nel 1293, anno in cui l’ultima erede di quel ramo comitale, Anastasia, andò in moglie a Romano Orsini, legando le vicende dei suoi antichi domini a quelle del nuovo casato i cui interessi gravitavano sulla rocca di Pitigliano.
Questo matrimonio segnò l’inizio della decadenza dell’antica città e l’avvio di una complessiva modificazione degli assetti amministrativi che portò anche al trasferimento dei vescovi in quel castello; fino dall’XI . il plebato di Pitigliano era il primo ricordato in ordine di importanza nella documentazione pontificia relativa alla diocesi di Sovana, a segno di una sua importanza territoriale riscontrabile anche nell’ampiezza del suo antico abitato.
Con l’immissione degli Orsini nel titolo della contea di Sovana e Pitigliano aveva inizio una tormentata vicenda signorile segnata dalle forti pressioni esercitate dai contermini potentati senese e fiorentino che produssero tensioni intestine nella famiglia, incrementando una tendenza alla violenza che i signori romani condivisero con altre nobili prosapie del primo e del maturo Rinascimento.
Il destino del casato aldobrandesco aveva segnato anche la vicenda del feudo abbaziale delle Tre Fontane, nel cui territorio si erano assai precocemente inseriti gli interessi dei conti palatini della Marittima.
Terra, anche questa, antichissima, non aveva visto assicurata dalla giurisdizione degli abati delle Acque Salvie romane una conduzione tale da metterla al riparo sia dalle ingerenze dei conti sia da quelle del comune di Orvieto, che tendeva a sua volta a espandersi in quell’area.
Già dal XII sec., quando ai benedettini erano subentrati i cisterciensi, la signoria del monastero era ridotta ai termini spesso puramente formali di un dominio eminente incapace di contrastare la tendenza, peraltro comune nelle grandi concentrazioni patrimoniali ecclesiastiche, alla perdita del controllo sugli utilisti delle terre concesse a vario titolo dagli abati.
Già nel 1269 si era addivenuti, da parte degli ecclesiastici, alla decisione di infeudare a Ildebrando il Rosso e a Gentile, conti di Sovana e di Pitigliano, il castello di Orbetello e il suo territorio in cambio della corresponsione di un esiguo censo annuo.
Anche questo distretto passò, all’indomani del matrimonio di Anastasia con Guido di Gentile Orsini, a quel casato romano, vivendo la tardiva storia degli alterni e conflittuali rapporti della contea di Sovana con la Repubblica di Siena che infine, nel 1452, riusciva ad aggiungere formalmente anche l’area dell’Argentario ai suoi domini.
Questa situazione, ratificata a livello giuridico da successivi interventi del senese Pio II Piccolomini, era comunque un dato di fatto già agli inizi del secolo, quando gli abitanti di Orbetello e le popolazioni limitrofe si erano sottomesse a Siena.
Sola eccezione fu l’isola del Giglio che, dopo la soggezione pisana, era passata nel 1364 sotto la signoria fiorentina, giungendo per questo tramite a far parte poi del Granducato di Toscana.
Con gli inizi del XV . si avviava però, per quest’area, un’età di rapide mutazioni accompagnate dalle devastanti incursioni di bande mercenarie che avrebbero definitivamente sconvolto l’assetto territoriale della costa, adesso coinvolta, più dell’entroterra, negli sviluppi della politica mediterranea e dal crescente pericolo turco.
Nel 1410 Orbetello era stata infatti occupata dalle truppe di Ladislao di Napoli, nel quadro di quella escalation nell’Italia centrale che lo avrebbe portato a occupare parte del Lazio e dell’Umbria (1408) prima che l’esercito di Braccio da Montone, assoldato da Luigi II d’Angiò, ne fermasse l’avanzata nel 1411.
Ricomprata grazie al tradimento dei governatori della rocca, la terra conosceva a più riprese pesanti saccheggi ed effimere dominazioni militari.
Anche se si trattò di episodi di breve durata cominciava a emergere con sempre maggiore chiarezza il ruolo strategico del promontorio dell’Argentario nello scacchiere occidentale del Mediterraneo.
Di questa crescente importanza fu perfettamente consapevole la Santa Sede che intorno alla metà del XVI sec., affidando al cardinale Alessandro Farnese la commenda dell’abbazia delle Tre Fontane, gli consentiva di rivendicare contro Siena gli antichi diritti territoriali di quell’istituto.
Se la costa conosceva le turbolente vicende che tra Medioevo ed età moderna avrebbero cambiato i suoi tratti, le isole, da sempre frontiere nella dinamica storica del Mediterraneo, accentuarono questi caratteri nell’epoca in cui il mare tornò a essere uno dei fulcri nella politica internazionale.
Dell’intero arcipelago atteneva alla giurisdizione dell’abbazia delle Tre Fontane solo il Giglio, terra antichissima di scalo marittimo, ancorché forse saltuariamente abitata, che conobbe una certa importanza solo a partire dall’età romana, quando, accanto all’incremento delle sue strutture portuali, l’isola ospitò una delle ville che i Domizi Enobarbi – oltre che all’Argentario e a Giannutri – costruirono nella parte insulare dei loro vasti possessi nella Marittima.
Con l’eclisse documentaria del periodo «germanico» l’isola resta illuminata solo dalla nebulosa tradizione del culto per san Mamiliano, in ossequio alla tradizione che la voleva sede delle sue sante spoglie fino al IX sec., quando l’incalzare delle scorrerie musulmane ne avrebbe consigliato la traslazione in terraferma.
Compresa nel territorio di Ansedonia, fu con essa acclusa al patrimonio fiscale dell’abbazia delle Tre Fontane e come parte di quel feudo nel 1269 venne concessa in enfiteusi al conte Ildebrandino degli Aldobrandeschi.
Fu in virtù di questo accorpamento nella contea aldobrandesca che il territorio diocesano di Sovana poté giungere fino sulla costa dell’antica Cosa e acquisire quella parte di territorio dell’Argentario che atteneva alla circoscrizione battesimale di Ansedonia.
Al decrescere della potenza aldobrandesca, erosa dallo sviluppo territoriale senese e orvietano, oltre che dalle pretese pontificie sull’area confinaria della Tuscia col Patrimonio, doveva aggiungersi – a partire dall’XI sec., ma con decisa vocazione egemonica nel XII – anche il fronte dell’espansione marittima di Pisa.
Alla penetrazione economica, che puntò allo sfruttamento delle risorse minerarie (ferro) dell’isola, avrebbe ben presto fatto seguito anche l’inizio di una dominazione politica.
Con la conquista di Pisa nel 1406 anche il fronte marittimo delle isole rientrò nel dominio di Firenze; questo non significò pace per il Giglio che anzi nel 1447 era occupata dalle truppe napoletane di Alfonso il Magnanimo.
L’area rimase conflittuale e contesa fino all’intervento di Pio II, il quale, nel suo progetto di salvaguardia filosenese della Toscana meridionale, si accordò con l’abate commendatario delle Tre Fontane per dare vita a una piccola ma importante signoria familiare (composta dall’isola del Giglio, dal castello delle Rocchette e da quello di Castiglione della Pescaia) che venne concessa al nipote del papa, Antonio Piccolomini d’Aragona.
Questi lo cedette di lì a breve al proprio fratello, e attraverso questa linea ereditaria la signoria del Giglio finì a Silvia Piccolomini che la vendette alla duchessa Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo de’ Medici.
Attraverso questi passaggi i territori dell’antico plebato di Ansedonia entravano a far parte della corona granducale di Toscana e a partire dall’epoca di Ferdinando I essi divennero appannaggio tradizionale dell’erede al titolo.
II - L’età moderna
La diocesi di Sovana attraversò una grave crisi nell’età moderna: una crisi demografica ed economica, in un’area di periferia del Granducato di Toscana, anzi in una terra di confine con lo Stato della Chiesa e con i presidi del Regno di Napoli.Con l’avvio del dominio politico di Siena era iniziata anche una sostanziale subordinazione ecclesiastica destinata a essere formalizzata durante il pontificato di Pio II Piccolomini: con la bolla Triumphans Pastor Aeternus del 19 aprile 1459 egli elevò infatti a sede arcivescovile la Chiesa senese e le subordinò le diocesi di Chiusi, Massa-Populonia, Grosseto e Sovana.
Come in queste altre Chiese suffraganee, anche sulla cattedra di Sovana per tutta l’età moderna sedettero prelati senesi, con qualche rara eccezione: un Cervini di Montepulciano alla metà del Seicento, qualche maremmano nel Settecento.
Fra questi presuli solo Domenico Maria Della Ciaia (1688- 1713), domenicano e maestro di teologia, dimostrò un notevole attivismo pastorale, visitando le sue chiese, riunendo il sinodo, dando vita al seminario per i chierici e operando in piena sintonia con gli indirizzi dell’«età innocenziana».
Certo, questa sede non aveva grandi attrattive per un chierico di nobile famiglia: la sua mensa vescovile rendeva appena sette-ottocento scudi, provenienti per più di un terzo dall’affitto del comunello di Catabbio.
Quanto alla sua popolazione complessiva, questa corrispondeva a quella di una città media della Toscana del tempo, oscillando intorno ai tredicimila abitanti ed essendo caratterizzata da un’altissima mortalità infantile.
L’unico segnale di un certo dinamismo era la presenza delle tre comunità ebraiche, insediate a Pitigliano, a Sorano e a Pian Castagnaio.
Nel 1557 Sovana aveva seguito il destino della sua capitale dopo la guerra contro Cosimo I, entrando a far parte del nuovo Stato mediceo, dal 1737 sotto la dinastia straniera dei Lorena.
Sovana non trasse alcun beneficio dalle operazioni di ripopolamento tentate sia dai Medici che dai Lorena: ridotta senza abitanti, perse la residenza del vescovo già nel 1674 e nel 1777 anche la sede vescovile a favore della più popolata Pitigliano (sede anche del vicario regio), dove il governo concesse al vescovo il palazzo comitale della famiglia Orsini.
L’estensione territoriale diocesana – attualmente di duemilacinquecento chilometri quadrati – non comprendeva tutta la Maremma inferiore senese, perché era limitata dalla vasta area del nullius dell’abbazia delle Tre Fontane sotto la cui giurisdizione spirituale, quasi diocesana, era pressoché tutto l’Argentario, Ansedonia con il porto di Feniglia, Porto Santo Stefano, la comunità di Orbetello con le sue saline, la Marsiliana e le isole del Giglio e di Giannutri.
Né il territorio diocesano coincideva con il dominio di un unico sovrano: Porto Ercole e Talamone facevano parte dei presidi di Napoli, Montorio della piccola signoria Ottieri, mentre quattro parrocchie si trovavano nello Stato papale: due a Proceno e due a Onano.
Soltanto nel 1786 Pietro Leopoldo riuscì a scambiare queste ultime con l’arcipretura di Manciano e la pieve di Capalbio, ambedue subordinate spiritualmente alla diocesi di Castro-Acquapendente.
Nella chiesa cattedrale di Sovana, dedicata a san Pietro, vi era un capitolo canonicale composto da una sola dignità – la prepositura – e da nove canonici, tre dei quali erano anche parroci delle chiese cittadine.
La soppressione dei conventini, voluta da Innocenzo X alla metà del Seicento, aveva permesso di accrescere un po’ le loro scarne rendite grazie all’annessione dell’abbazia vallombrosiana del Calvello.
Agli inizi del Settecento, mentre i luoghi pii laicali avevano una certa consistenza, almeno in relazione alle dimensioni della cittadina e della sua popolazione (quattro compagnie laicali e un ospedale), dopo la chiusura dell’abbazia a Sovana non vi era più una presenza di regolari.
Nella diocesi vi erano altre quattro chiese collegiate: a Pitigliano, a Sorano, a Scansano e a Porto Ercole.
Anche sotto il profilo del personale ecclesiastico Pitigliano presentava una maggior dovizia di risorse.
Nella sua collegiata (l’antica pieve elevata a tale grado già dal 1500) vi era la dignità dell’arciprete – parroco della chiesa – e dieci canonicati, con altre dieci cappellanie: alle soglie del XVIII . risiedevano nella cittadina ben trentatré sacerdoti e venti chierici.
Non mancavano neppure due conventi di frati minori conventuali e osservanti (piccole case di francescani di diversa osservanza si trovavano anche a Scansano, a Capanne, alla Selva e a Proceno: in totale erano presenti una sessantina di frati), ben otto compagnie laicali, un ospedale e una scuola per chierici, che ospitava una dozzina di alunni.
Fiore all’occhiello era poi la Scuola delle Maestre pie di Lucia Filippini: uno straordinario e innovativo istituto religioso femminile dedito all’insegnamento per le ragazze, che troviamo anche a Montemerano e a Sorano, collegiata dal 1509.
Invece, le chiese collegiate di Scansano e di Porto Ercole ottennero questo grado nel corso del Seicento (rispettivamente nel 1628 e nel 1650): le loro strutture capitolari, sufficientemente numerose e in genere surrogate da un congruo numero di benefici semplici, sono il segnale non solo di una certa concentrazione di ricchezza, ma anche di una volontà locale di razionalizzare l’uso e la distribuzione delle risorse e di organizzare convenientemente la «religione locale».
Anche nelle altre chiese parrocchiali – una trentina – risiedeva usualmente un altro sacerdote oltre al pievano o al curato (anche se in costante diminuzione, nel corso del Settecento il numero degli ecclesiastici secolari si attestò sulle due centinaia), mentre ovunque sorgevano confraternite laicali e non erano rari gli ospedali: in tutta la diocesi si contavano almeno centosettanta oratori, in larghissima parte di patronato di privati e di enti pubblici.
Questo sistema a maglie abbastanza larghe quanto a estensione territoriale (diverso il discorso per il rapporto abitantiparrocchia, ma ciò dipendeva dalla lunga depressione demografica) era il frutto della particolare struttura degli insediamenti umani della Maremma: in larga misura borghi raccolti sulle sommità di colline o di rilievi montuosi, per ragioni climatiche e difensive.
All’assetto idrogeologico del territorio, alle sue asperità e alle sue vie di comunicazione difficilmente percorribili per tutto il corso dell’anno si deve anche il gran numero di romitori (una quindicina) che sorgevano nella diocesi.
III - L’età contemporanea
Le vicende del territorio diocesano in età contemporanea confermano da una parte la sua subalternità rispetto alla sede metropolitana in materia di governo e regolamentazione interna e dall’altra la sua emarginazione rispetto ai circuiti regionali e alle relazioni romane.La definitiva sistematizzazione del rapporto tra i due centri maggiori, avvenne lungo vie di tipo demografico e socioeconomico piuttosto che secondo logiche di accorpamento interno: ciò significò di fatto la graduale scomparsa della competizione fra luoghi e centri religiosi a favore dell’emergere progressivo di altri fattori e soprattutto di altri centri nel territorio: è il caso di Sorano.
Le formalizzazioni del trasferimento dei vescovi di Sovana in Pitigliano furono comunque tutte assai tardive: l’elevazione della matrice pitiglianese a concattedrale rimonta infatti al 1832, mentre la definitiva sanzione di una nuova dicitura diocesana sotto il comune nome di Sovana e Pitigliano avveniva nel 1844.
Nel 1981 prima e definitivamente e canonicamente nel 1986 avveniva l’accorpamento con Orbetello, venendo così a costituire un territorio diocesano fortemente variegato dal punto di vista sociale, economico e dunque religioso.
Terre ricche di attività marinare quelle costiere, terre ricche di attività agricola e pastorizia quelle collinari: zone di forte emigrazioni e dunque di calo demografico quelle collinari, zone di altalenanti fortune quelle costiere (legate anche alla moderna crescente industria turistica).
Zona caratterizzata socialmente da spirito artigianale e «imprenditoriale» e dunque portate alla conservazione quelle costiere; zone tradizionalmente legate allo spirito della sopravvivenza e dunque maggiormente sensibili alle lusinghe dei movimenti di opposizione quelle interne.
Provare a fare la sintesi di queste divergenti caratteristiche è stato il tentativo fatto dai vescovi che specie nel secolo scorso hanno governato senza lasciare particolare segno di una presenza ecclesiale efficace nel territorio.
Bibliografia
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G. Celata, La contea di Pitigliano. Feudatari, borghesi, contadini ed ebrei nella Toscana meridionale, Pitigliano 1982;
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A. Covitto, La Diocesi di Sovana, in Istituto Storico Diocesano di Siena, Annuario 2002-2003, Siena 2004, 288-399.
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Diocesi di Pitigliano - Sovana - Orbetello
Chiesa dei Santi Pietro e Paolo
Diocesi
FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.