Trapani conserva memoria del legame con la Chiesa di Cartagine, grazie soprattutto al culto di Giuliano martire nel 259, portato dai marinai che lo invocarono patrono fino al XVIII sec., nella prima chiesa della città, da cui un’altra nella vicina tonnara e una nelle saline. A Giuliano si volsero gli abitanti dell’antica Erice (=Monte), come dal medievale toponimo Mons Sancti Juliani, quando scemò il culto alla dea della fertilità, la Erycina Venus protettrice dei romani per l’espansione nel Mediterraneo. Agli inizi del VI . il Kalendarium Carthaginense indicava al 5 ottobre Placido e compagni, martiri in Sicilia: un luogo, tra il porto di Trapani e il Monte, rimase a loro dedicato anche in epoca araba, per essere poi ripristinato nel 1167 da eremiti e da Guglielmo II. Nel litorale, dove nel III . era la villa romana dei Nicomachi, si additarono i Luoghi Santi, dal greco Bonagia, con il ricordo collettivo dei martiri. Tra i quali Vito, venerato a breve distanza da Bonagia: il suo nome in epoca araba sostituiva il toponimo Egitarso e indicava promontorio e luogo devozionale. Frattanto Trapani, oltre al culto di Liberale vescovo di Cartagine del V sec., accoglieva negli isolotti le colonie di Alessandria e di Bisanzio e il culto di Antonio, Margherita, Sofia e Caterina. Si imponeva il rito greco, dopo la venuta in Sicilia di Belisario nel 535, nella chiesa dell’Ascensione, dove si attesta un episcopus drepanensis nel IX e X sec., per la rilevanza strategica nel «tema» o provincia bizantina. Tracce perdurate in piena arabocrazia. Una Madonna della Grazia fu portata dall’Oriente dai carmelitani, nel 1250 chiamati a ripristinare un monastero greco, poi santuario dell’Annunziata, dove dalla metà del XIV . giunse la statua ora attribuita a Nino Pisano. Vi si rivolsero pure i montesi, finché scoprirono nel 1422 una Madonna del latte dipinta da un eremita nella cappella che aveva preso nome Bonagia. Ne furono tratte copie, si affermò il culto e fu edificata nel 1577 una fortezzachiesa poi santuario di Custunaci. Era in auge il santuario di San Vito, dove accorrevano gli ammalati. A Trapani con le crociate giunsero ordini cavallereschi, religiosi e consolati di repubbliche marinare. Mutamenti nella politica degli svevi verso arabi ed ebrei, turbolenze susseguite e ordini mendicanti ruppero la convivenza interreligiosa, consumatasi con l’eccidio del 1392 nelle case e nel 1393 nella sinagoga di Monte San Giuliano. A Trapani, proiettata dal 1315 verso Barcellona e divenuta chiave del regno con Carlo V, nel 1535 frate Giacomo da Gubbio fondava l’ordine degli zoccolanti. Ma la nuova spiritualità penetrava con i gesuiti nel 1556: trasformarono le rappresentazioni della Passione in gruppi di cartapesta, costruiti dalle maestranze o mestieri. Così la Processione dei Misteri il venerdì santo superava la festa di mezz’agosto, dal 1302 con fiera e luminarie, dedicata alla Madonna di Trapani, acclamata patrona, da quando il carmelitano Alberto degli Abbati (†1307), legato alla potente famiglia, contribuiva a esaltarla. Su questi dati fu richiesto dal 1496 il ripristino della diocesi, concretato nel 1844. Divenne cattedrale la chiesa di San Lorenzo. Primo vescovo fu Vincenzo Marolda, che fondò il seminario e insediò curati nelle isole, profuse energie e averi nella carestia del 1847; nella rivoluzione del 1848 si inimicò i rivoltosi. Dopo la rinunzia, giunse nel 1853 Vincenzo Ciccolo-Rinaldi che provvide al seminario e alla visita pastorale. Nel 1858 lasciò temporaneamente, perché nominato giudice del Tribunale della Monarchia. Nei moti del 1860, accusato di regalismo, andò in esilio. Resistette al liberalismo di Vito Pappalardo, prete sostenitore della petizione Passaglia e fautore del conciliarismo in ecclesiologia. Attorno a lui un nucleo, tra cui il letterato Alberto Buscaino Campo alla ricerca di una nuova apologetica. Scomunicati, parecchi lasciarono il ministero e vi furono disordini. Nel 1866 il vescovo tornò e subì angherie. Nuovo vescovo fu Giovan Battista Bongiorno, che rimase dal 1875 al 1879. Dalla cattedra di dogmatica di Palermo, nel 1880, venne Francesco Ragusa. Episcopato segnato da sviluppo urbanistico, esemplare carità, repressione dei Fasci dei lavoratori. Permaneva un cattolicesimo municipale delle alleanze e dei compromessi. Nel 1896 il vescovo Stefano Gerbino favorì i comitati cattolici e i «preti sociali». Nel 1902 apparvero avvisaglie di modernismo: il capitolo cattedrale accusò il vescovo di imperizia e nel 1906 venne come amministratore apostolico e poi come vescovo Francesco Maria Raiti. Notevole il suo impulso al movimento cattolico e all’antimodernismo, anche mediante il periodico «La Fiaccola». Tante defezioni nel clero: emblematica quella di Antonino De Stefano legato al gruppo romano modernista. Erede del lungo episcopato fu Ferdinando Ricca, giunto nel 1933, sostenitore del fascismo e succube della guerra. Ordinò la curia e visitò le parrocchie. Curò due congressi diocesani e il XXVI trasporto dell’immagine della Madonna di Trapani dal santuario in città. All’assistenza materiale dopo i bombardamenti si dedicò un giovane prete. La ripresa coincise con la riapertura del seminario distrutto e con il nuovo vescovo Filippo Jacolino nel 1948. Ottenne la revisione della circoscrizione territoriale della diocesi, che accorpò dal 1950 le città e i territori di Alcamo, Castellammare del Golfo e Calatafimi, con tre santuari mariani e numeroso clero. Fu colpito da male nel 1950. L’armonizzazione delle tradizioni fu tentata dal vescovo Corrado Mingo, in tempo di collateralismo politico e di rivendicazioni amministrative. Curò la parrocchialità e costruì il nuovo seminario dove aprì perfino il corso di teologia. L’opera di assistenza si era sviluppata con finanziamenti degli enti locali. L’appoggio dato ai comitati civici passò all’«operazione Milazzo», ma si crearono fratture. Nel 1961 Mingo consegnò al vescovo Francesco Ricceri un patrimonio di realizzazioni. Alcuni giovani preti seguivano il concilio Vaticano II, con esperienze e contatti d’avanguardia in molti campi. Le mancate aperture consacrarono la loro fuoruscita, accusati di neomodernismo. A ricucire la frattura non valsero i convegni e neppure il sinodo diocesano del 1977, quando il vescovo Emanuele Romano insisteva su nuove forme di evangelizzazione. Gli anni del vescovo Domenico Amoroso, 1988-1997, registrano una qualificata vita ecclesiale in ambito liturgico, ecumenico e caritativo.
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