Diocesi di Trieste
STORIA
Come per tutta l’Istria non sono noti gli evangelizzatori di queste terre e le classi che aderirono per prime al verbo cristiano.La storiografia locale nell’Ottocento era divisa tra chi respingeva o accettava la tradizione dell’apostolato di sant’Ermacora discepolo di san Marco.
Nessuna documentazione è disponibile che indichi una comunità in epoca precostantiniana.
La Passione di san Giusto (vir Dei) (nel calendario liturgico, la festa è attualmente il 3 novembre) e di san Servolo sembrano rimandare a un nucleo storico attendibile e a una redazione anteriore all’epoca carolingia (Saxer).
La primitiva area cimiteriale paleocristiana (basilica martiriale a pianta di croce), non lontano dalla spiaggia ai piedi del colle di San Giusto, di cui è ignota la primitiva dedicazione, potrebbe essere stata il luogo di culto del patrono di Trieste.
I due pavimenti musivi successivi rimasti risalgono al V e VI . (G.
Cuscito).
Questi riportano due nomi di rilievo della comunità come Defensores sanctae ecclesiae tergestinae (avvocati laici della «sancta ecclesia» di Tergeste) sia di Trieste che di Aquileia, mostrando così l’alto livello di organizzazione della diocesi anche rispetto ad Aquileia, da cui aveva ricevuto il cristianesimo.
Il primo nome di vescovo noto è Frugifero («Frugiferus episcopus», Lanzoni) (metà VI sec.) che intervenne su una basilica episcopale del colle capitolino, di cui il propileo romano (oggi conglobato al campanile romanico della cattedrale) avrebbe costituito l’ingresso monumentale (P.
Kandler, P.
L.
Zovatto, M.
Mirabella Roberti, G.
Cuscito).
Con san Leone Magno (lettera sulla questione pelagiana del 442 circa) si testimonia che Trieste diventa diocesi suffraganea di Aquileia, la documentazione è inerente lo scisma dei Tre Capitoli.
Il vescovo Severo, infatti, sottoscrisse gli atti del concilio scismatico di Grado convocato dal metropolita Elia (579) e nel 587, essendo a Grado con i vescovi Giovanni di Parenzo e Vindemio di Cissa, venne dall’esarca Smaragdo portato a Ravenna e lì costretto ad abbandonare lo scisma (Paolo Diacono, Hist.
Long., III, 26).
Nel 602 il nuovo vescovo, Firmino, si riconciliò con papa Gregorio Magno che lo incoraggiava a fare opera di persuasione presso i suoi confratelli e nello stesso tempo lo raccomandava all’esarca Smaragdo per proteggerlo dalla reazione del metropolita.
In seguito all’occupazione longobarda e alla querelle dei Tre Capitoli nel 607 la metropolia aquileiese si smembrò in due metropoli ecclesiastiche.
Grado ortodossa ebbe per sé gli episcopati istriani e la fascia lagunare del dominio bizantino; Aquileia, fino al 699 scismatica, i vescovati della Venezia continentale.
La lunga contesa tra le due metropoli sugli episcopati istriani si risolse solo nel 1180, quando Grado rinunciò alle sedi istriane: Trieste, Capodistria, Parenzo, Pola, Pedena ed Emona (Cittanova) a favore di Aquileia.
Siffatto assetto canonico durò fino alla soppressione del patriarcato aquileiese (Benedetto XIV con la bolla Iniuncta nobis, 6 luglio 1751) in due arcivescovati: quello di Gorizia e quello di Udine.
Trieste può dare a Grado due figure di patriarchi eminenti: Giovanni (766 ca-803) e Fortunato (803-826), suo nipote, che furono sostenitori dei carolingi e del regno italico.
Questi difende i diritti della provincia istriana (placito del Risano, 804) vessata dal regime feudale; intercede presso Ludovico il Pio affinché gli istriani continuino a eleggere i propri vescovi e i propri magistrati, quando il potere centrale andava via via rivelandosi incapace di fronteggiare le minacce di ungari, slavi e saraceni.
In quei tempi incerti e tribolati deve provvedere da sé alla propria difesa e il vescovo locale diventa il punto di riferimento di difesa, di organizzazione, di assistenza e operatore di ricostruzione.
Questo ruolo della Chiesa sotto il profilo sociale e civile preparò il terreno al potere temporale del vescovo.
Nel periodo delle terribili invasioni ungare Berengario del Friuli, re d’Italia, nel 911 (se il documento è attendibile) dona al vescovo di Trieste, Taurino, i castelli di Vermo (presso Pisino) e la giurisdizione su di essi e il re Ugo (nel 929) al vescovo Radaldo l’isola Paciana (Panzano presso Monfalcone) e i possedimenti circostanti la chiesa di Sipar con la pieve di Umago.
Oltre a privilegi e immunità alla Chiesa tergestina che la sottrae a ogni giurisdizione pubblica e la pone sotto la protezione del sovrano.
Il re Lotario (948) a seguito d’una nuova invasione ungara per i meriti acquisiti concede al vescovo Giovanni e successori nuove immunità per l’esercizio delle pubbliche funzioni in sostituzione del re ed esclude la città da ogni giurisdizione superiore al vescovo, il quale diventa così signore delle mura e delle porte a difesa dei cittadini.
Attorno al vescovo, che veniva eletto dal clero e dal popolo, si venne così a costituire un primo nucleo di vita comunale.
Si sa che Arlongo dei Visgoni (1255-1281) fu il primo a fregiarsi del titolo di conte e nel corso del XIII . i vescovi batterono perfino moneta propria.
Nel 1230 il vescovo Corrado, ghibellino, ostile alle libertà comunali ottiene da Federico II un diploma di riconferma di tutti gli antichi privilegi e immunità, rivendicando ciò che il comune gli aveva sottratto già da tempo.
Dai pochi documenti pervenuti non è possibile andare oltre questa situazione istituzionale per conoscere in maniera più precisa la vita religiosa della diocesi nell’alto Medioevo.
La presenza di insediamenti monastici benedettini certamente ravviva la vita religiosa.
Il vescovo Artuico (1115) dona la chiesetta dei Santi Martiri con annesso terreno al monastero di San Giorgio Maggiore di Venezia.
Già erano presenti i benedettini nel 1072 quando il vescovo Adalgero donava al monastero di San Nicolò al Lido di Venezia la chiesa di Sant’Apollinare, detta poi San Nicolò d’Oltra, di fronte a Capodistria.
Le benedettine, Santa Maria della Cella (atto costitutivo 10 luglio 1278), istituzione tuttora vivente sul colle di San Giusto, sopravvissero alla soppressione di Giuseppe II iniziando un’attività educativo-scolastica (protratta dalla fine del XVIII . fino al 1969).
Quando l’autorità imperiale era in piena decadenza e le condizioni economiche dei vescovi triestini erano critiche (per sostenere l’imperatore e il patriarca contro i comuni guelfi, per difendersi dal duca di Carinzia e per far fronte alle contribuzioni della curia pontificia), il vescovo Giovanni rinunciò alle giurisdizioni e immunità a favore del comune che si sobbarcò l’onere di pagare tutti i debiti.
Da personalità pubblica e istituzionale emergente il vescovo diventa quindi solo pastore di anime.
Con il trionfo del guelfismo era aperta la strada anche ai minori francescani che vennero ad animare la vita religiosa con lo spirito del nuovo carisma dell’ordine pauperistico.
Nel corso del XIV . merita ricordare Rodolfo Pedrazzani (1302-1320), cremonese, che riunì la cattedrale romanica dell’Assunta e il sacello di San Giusto in un’unica chiesa.
La nuova cattedrale fu consacrata dal vescovo Enrico di Wildenstein (1383-1396), tedesco, imposto al capitolo dal duca Leopoldo d’Asburgo, dopo la dedizione di Trieste all’Austria (1382).
Da quel momento i vescovi vennero designati secondo il diritto germanico-feudale dalla corona asburgica, mentre ricevevano l’investitura canonica dall’autorità ecclesiastica.
Enea Silvio Piccolomini (1447- 1450), grande personalità di umanista, confermerà tale privilegio alla casa d’Austria, una volta diventato papa con il nome di Pio II.
Tale situazione si protrae fino alla prima guerra mondiale (è confermata ancora nel concordato del 1855 tra Pio IX e Francesco Giuseppe I).
Il XVI . mostra la grave situazione in cui versava il clero a Trieste e in Istria: concubinaggio, alcolismo, pratica religiosa superstiziosa e soprattutto ignoranza dei parroci poco dediti alla cura animarum.
Le nuove idee luterane fecero facilmente breccia favorite dalle vie commerciali di comunicazione (Pier Paolo Vergerio il Giovane, vescovo di Capodistria, divenuto in seguito apostata), poiché nella città adriatica si avvertiva la pressione da parte della Carniola e della Stiria.
Personalità di umanista e filoluterano fu Pietro Bonomo (1502-1546) che favorì Primo Trubar, chiamato il Lutero della Carniola, tradusse il Nuovo Testamento in cragnolino, diventando così il Lutero della Slovenia (S.
Di Brazzano).
Al vescovo umanista Rapicio (morto avvelenato nel tentativo di conciliare le fazioni cittadine) l’arciduca d’Austria, Carlo, ingiungeva di procedere con fermezza contro i novatores (P.
Paschini, A.
Pitassio, A.
Jacobson Schutte, L.
Tavano).
La controriforma trovò nella presenza del collegio dei gesuiti (1619) e poco prima dei cappuccini la sua espressione più significativa.
I vescovi del Seicento vedono già una situazione guadagnata all’ortodossia cattolica (intensificata la catechesi – con il catechismo del Canisio – la predicazione, i Quaresimali, le varie devozioni annesse alle confraternite), ma la diocesi era ancora priva di un proprio seminario.
Il clero si risollevò dalla crisi anche se si dibatteva in una persistente povertà.
Nel Settecento Trieste sotto l’imperatrice Maria Teresa (1740-1780) si ritrovò di fronte a notevoli cambiamenti, porto franco, emporio, l’arrivo di greci, serbi, soprattutto austriaci che cambiarono il volto venetizzante della cittadina articolando il panorama di confessioni religiose, con ortodossi greci, serbi, luterani oltre alla comunità ebraica già presente.
L’editto di tolleranza di Giuseppe II (1781) diede piena legittimazione giuridica al pluralismo religioso ed etnico cittadino.
L’effimera soppressione della diocesi di Trieste (1788) unita alla neocostituita Gradisca non ebbe alcun effetto pratico, anche se le riforme giuseppine si fecero sentire a Trieste in particolare con i canti in lingua volgare durante la celebrazione della messa.
La soppressione delle confraternite e dei conventi, la precedente soppressione dei gesuiti (1773) e quindi la riforma giuseppina provocarono la vana reazione del vescovo F.
F.
Inzaghi che nel 1790 lamentò presso la corte di Vienna la seminagione in diocesi dei primi germi della secolarizzazione nella classe dirigente, mentre il popolo restava sostanzialmente religioso anche se con meno chiese, conventi e confraternite.
Le successive occupazioni napoleoniche con il vescovo Gaetano de Buset (dal 1803 al 1821 la diocesi fu vacante e governata da vicari capitolari) aggravarono ancor più la situazione pastorale diocesana.
Nell’Ottocento dopo il primo vescovo italiano Antonio Leonardis (1821-1830), successo a un lungo periodo di sede vacante (1803-1821), tutti gli altri vescovi furono alternativamente o sloveni o croati fino alla prima guerra mondiale (escluso Francesco Saverio Nagl all’inizio del Novecento), creando una disaffezione alla Chiesa cattolica nella borghesia, che dopo il 1860 si mostrava sempre più filoitaliana (irredentista).
La diocesi di Capodistria con la bolla Locum beati Petri (30 giugno 1828) veniva unita a Trieste aeque principaliter, mentre la diocesi di Cittanova d’Istria veniva semplicemente incorporata.
Si segnala il vescovo Bartolomeo Legat (1846- 1875), che fonda il Folium dioecesanum tergestinum (che pubblica impegnati articoli di carattere storico).
Al concilio Vaticano I fu contro l’opportunità della dichiarazione dogmatica dell’infallibilità.
Nella delicata situazione politica di Trieste cercava di mediare con la caritas teologico-morale i rapporti nazionali tra gli italiani, che rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione della città, con gli sloveni e i croati.
Opera non continuata da Giorgio Dobrila (1875-1882), croato, che favorì vistosamente il clero della sua etnia dell’interno dell’Istria ove si estendeva la diocesi di Trieste e Capodistria, disattendendo soprattutto quello italiano.
Francesco Saverio Nagl (1902-1910), austriaco, riequilibrò la situazione nei rapporti tra i due cleri, italiano e slavo, mentre, favorita dalla municipalità, la città si arricchiva di nuove chiese nella periferia in continua espansione per ricchezza di traffici quale unico porto dell’impero austro-ungarico.
Nel corso del Novecento, dopo la grande guerra, Trieste è unita all’Italia (1921), il nuovo vescovo Luigi Fogar (1923-1936, prese possesso nel 1924) favorì l’Azione cattolica, l’erezione di nuove parrocchie e cercò di difendere, come il suo predecessore, Angelo Bartolomasi, il clero slavo dall’aggressività nazionale fascista, fino al punto di esser costretto alle dimissioni (1936).
Antonio Santin (1938-1975), già vescovo di Fiume, nelle varie occupazioni dovute alla seconda guerra mondiale (nazisti, titini, angloamericani fino al 1954) salvò centinaia di ebrei e non solo triestini, ma anche slavi e della Mitteleuropa; incrementò l’Azione cattolica, eresse numerose parrocchie, e il seminario a Trieste (quello di Capodistria, appartenente alla zona B con amministrazione iugoslava, fu confiscato dal regime titino), eresse il santuario di Monte Grisa e una casa di Esercizi («Le Beatitudini»); s’impegnò con una missione in Kenya, attivamente partecipò al concilio Vaticano II (S.
Galimberti).
La diocesi con il trattato di pace tra Italia e Iugoslavia (1947) perdeva tutto il retroterra dell’Istria limitandosi alla sola città (con sessanta attuali parrocchie), territorio che fu assegnato dalla Santa Sede a due amministratori locali, uno per la parte slovena e uno per la parte croata della diocesi rimasta al di là dei confini.
Dopo il trattato di Osimo (1975) con cui si riconosceva de jure dall’Italia la sovranità iugoslava della Zona B, Paolo VI con la costituzione apostolica Prioribus saeculi (17 ottobre 1977) ricostituiva la diocesi di Capodistria totalmente situata in territorio della Repubblica slovena.
Il vescovo Lorenzo Bellomi (1978-1996) promosse un convegno ecclesiale (1978): Cristiani a confronto per superare le lacerazioni tra le comunità cattoliche di lingua italiana e slovena, per lanciare lo spirito sociale, per superare le lentezze della Chiesa locale e dare slancio all’applicazione del concilio.
Eugenio Ravignani, polesano e già rettore del seminario di Trieste e già vescovo di Vittorio Veneto, subentrò a Bellomi (1997), segnò la via tracciata dai predecessori nel promuovere l’unità e il dialogo ecumenico nella composita situazione diocesana quale circoscrizione ecclesiastica di frontiera e punto d’incontro di tre culture: l’italiana, la tedesca e la slava.
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Diocesi di Trieste
Chiesa di San Giusto Martire
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La facciata delle cattedrale -
Veduta dell’aula dall’ingresso -
Veduta dell’aula dal presbiterio -
Il tabernacolo di M. mascherini -
Porta laterale bronzea di S. Melchiorre (1990)
Diocesi
FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.