Diocesi storica di Colle di Val d’Elsa
STORIA
II - L’età contemporanea
L’epoca contemporanea non segnò una netta soluzione di continuità nella storia della piccola ma viva e attiva diocesi di Colle di Val d’Elsa.In una società già segnata dalle evidenti ricadute dei processi di modernizzazione economica e industriale in una zona ad alto potenziale produttivo (per via delle significative risorse naturali ed energetiche), la chiesa inseguì per tutto l’Ottocento un modello di presenza e partecipazione che potesse in qualche modo colmare la crisi (e il mutamento) della propria credibilità: la lunga tradizione di innovazione economica, l’essere a cavallo, dal punto di vista geopolitico e direi mentale, tra Siena e Firenze, l’aver vissuto l’autoreferenzialità come fattore di resilienza collettiva, il naturale estendersi tra collina e pianura (il Chianti e la val d’Elsa) con la conseguente ricchezza demografica, avevano fatto del territorio uno dei punti di forza dell’economia e del dibattito culturale nel granducato con le note e pericolose ricadute anche in campo giurisdizionale.
La chiesa locale aveva dunque bisogno di ritagliarsi uno spazio significativo al di là della tradizionale gestione della religiosità pubblica, mai messa in discussione.
Se sulle prime la civiltà contadina, apparentemente stabile e ordinata, riuscì a interpretare il ruolo stabilizzante e rassicurante del modello, di fronte al successivo proliferare di associazionismo operaio, variamente organizzato, di fronte alla scristianizzazione pratica registrata anche emblematicamente nelle donne «libere excogitantes », la Chiesa colligiana reagì con un’altrettanto significativa mobilitazione che si concretizzò in un’azione cattolica particolarmente attenta e sensibile alle tematiche sociali.
I brevi episcopati di inizio secolo, dopo la vacanza del periodo francese, non appaiono particolarmente significativi per le vicende della Chiesa locale.
Si tratta di personale proveniente dalle file della nobiltà toscana e promossa alla carica episcopale, in clima concordatario di fatto se non de iure, nel delicato clima di esaltazione di quel ritorno al passato che per molti e per molto tempo rimase l’aspirazione teorica e pratica dell’episcopato toscano.
È con l’aretino Giuseppe Chiaromanni (1847-1869) che, in concomitanza con i noti eventi nazionali, comincia a delinearsi la linea di governo e di presenza della Chiesa nella società.
Superata la prima fase d’entusiasmo «liberale» sulla scia dell’equivoca rappresentazione patriottica di Pio IX, il presule scelse la via della più intransigente fedeltà papalina e della più strenua difesa dei «diritti della Chiesa» soprattutto di fronte al suo clero variamente e diffusamente impregnato dell’eresia giansenista.
Fu coinvolto tra l’altro in una delicata e lunga controversia con il governatore della Toscana per aver egli processato e sospeso a divinis un canonico colligiano reo di aver preso parte alla festa nazionale del giugno 1861 violando lo specifico divieto emanato dal vescovo.
Il canonico farà ammissione di colpa due anni più tardi e sarà reintegrato.
Dopo due anni di vacanza e il breve episcopato di Giovanni Pierallini (1872- 1876) che segnò un allentamento della tensione con i nuovi poteri e indicò la strada della devozione e della sacramentalizzazione come possibile via del protagonismo (introdusse, sulla scorta delle indicazioni piane, il culto della consacrazione al Sacro Cuore), con Marcello Mazzanti (1876- 1885) e Luigi Traversi (1885-1891) vennero alla ribalta tutti i temi che, letti in controluce, al di là della retorica apologetica e controversistica, delineano lo scenario complessivo della trasformazione in senso «industriale » della società colligiana: la santificazione della festa, la lotta alla bestemmia, l’indifferentismo religioso, il digiuno, l’insegnamento catechistico, la concezione della Chiesa.
Particolare interessante è che entrambi i vescovi effettuano le visite pastorali ed entrambi inviano a Roma resoconti rassicuranti che tinteggiano un popolo difficile ma nella sostanza «buono».
Nessun accenno all’incipiente secolarizzazione e alla presenza del già attivo nucleo operaio organizzato che appena qualche anno dopo, nel 1897, porterà Colle di Val d’Elsa a diventare il primo comune italiano ad amministrazione socialista.
Spettò al senese Alessandro Toti (1891- 1903) il compito di aprire gli occhi sulla situazione reale della società.
Sarà egli che, anche sulla scia del rinnovamento leonino nell’approccio alla modernità, cambierà prospettiva e metterà in moto l’associazionismo cattolico facendolo uscire dall’esclusiva e autorefenziale logica e pratica devozionale.
Di fronte a una «insorgente civiltà» che di fatto, nelle sue relazioni romane egli descriveva a tinte fortemente negative, egli si attivava perché innanzitutto il clero avesse gli strumenti adatti per la comprensione: istituiva in seminario la cattedra di sociologia cristiana e promuoveva una collana di pubblicazioni sull’argomento in collaborazione con l’editrice San Bernardino.
Promuoveva il movimento cattolico, contribuendo personalmente a costruire la rete regionale.
Sosteneva attivamente la edificazione di opere assistenziali non solo in funzione antagonistica.
Conclusa la delicata parabola segnata dal clima democratico cristiano, il fiorentino Massimiliano Novelli (1903-1921) si affidò alla parola chiave «restaurazione», in linea con il nuovo pontefice Pio X, nel tentativo di coniugare in maniera equilibrata il vecchio e il nuovo, i bisogni emergenti che aspettavano nuove risposte, e la vecchia tradizione che esigeva fedeltà e continuità: restaurazione nell’individuo, nella famiglia, nella società e, dopo la guerra, della pace sociale.
Nel nuovo clima di collaborazione tra le istituzioni ecclesiastica e civile e di ralliement tra cattolici organizzati e Stato giolittiano Novelli individuava la via d’uscita dall’impasse dello scontro con il mondo nuovo che a Colle era soprattutto socialista: la religione diventava la chiave di volta della stabilità sociale.
Di qui l’appoggio alla guerra nazionale (da quella contro i turchi a quella mondiale), di qui la efficace collaborazione al clima interno in quei difficili anni, di qui il controllo diretto e discreto sulla definizione dell’ortodossia, di qui il prosieguo del sostegno all’azione cattolica anche se vissuta e voluta in un’ottica per così dire più civile.
C’è una sorta di forza centripeta nella visione ecclesiale di Novelli: l’effettiva differenza tra la situazione socio- economica del centro diocesi, a forte concentrazione industriale e operaia, e quella del resto del territorio diocesano, a forte caratterizzazione rurale, sembra nell’ottica del vescovo non contare se non per la differente rilevanza sociale che la gerarchia ecclesiastica sembra e vuole assumere.
Il suo insistere, anche nelle relazioni a Roma, sulla concezione di Chiesa fa il paio con il suo tentativo di disegnare per essa e dunque per la religione un ruolo sempre più pubblico in forza del quale consacrare più agilmente quella concordia sociale ormai in discussione e in pericolo reale nelle dinamiche sociali.
I brevi episcopati di Giovanni Masera (1921-1926) e Ludovico Ferretti (1928- 1930) accompagnarono quel diffuso processo di chiusura complessiva della Chiesa in se stessa, seguita alle paure interne ed esterne di quegli anni difficili, che si manifesterà sempre più in un modello di militanza parrocchiale fortemente devozionale, il cui nucleo centrale diventava l’istruzione catechistica (finalizzata alla interiorizzazione) e il cui perno sempre più erano il parroco e la chiesa, anche in senso fisico.
Eppure, nel primo dopo guerra i cattolici colligiani, proprio perché pungolati e motivati da un antagonismo concreto del «paese reale», avevano dato vita a esperienze associative, compresa la breve ma intensa parabola del Partito Popolare, particolarmente attive sul piano organizzativo e produttive su quello della riflessione socio- politica.
Si trattò comunque di meteore, anche perché, pur godendo dell’appoggio del vescovo, l’Azione cattolica diocesana risulta essere minoranza sociale e, quel che più conta, minoranza anche ecclesiale.
Di qui, quasi come rimedio, l’insistere sull’Opera di San Pietro, l’Unione missionaria, la Compagnia del Santissimo Sacramento e della Dottrina cristiana, il Terz’ordine, l’Apostolato della preghiera, la Compagnia delle Figlie di Maria e delle Madri cristiane.
Sullo sfondo, l’Azione cattolica che sempre più diventava, anche nella parole del vescovo, «azione religiosa».
Il lungo episcopato di Francesco Niccoli (1932-1965) rappresentò in qualche modo una svolta, soprattutto sul piano pastorale e del nuovo impulso organizzativo.
Egli seppe sfruttare il clima di concordia cittadina perseguita e garantita dal regime fascista e benevolmente accettato dalle istituzioni, compresa quella ecclesiastica.
Visite pastorali, congresso eucaristico, missioni, devozioni locali, celebrazione del sinodo: tutto rientrava in una visione attiva e mobilitante dell’appartenenza ecclesiale nient’affatto in contrasto con quella analoga del regime.
La convergenza di interessi e temi, specie in materia morale e sociale, di fatto rendeva la coesistenza possibile e per certi versi auspicabile.
Ma il punto era un altro.
Niccoli sin dal suo esordio aveva parlato esplicitamente, a proposito della religiosità del popolo, di «scristianizzazione»: scarsa frequenza alla messa domenicale e alle comunioni, assenze significative al catechismo, ballomania imperante, soprattutto di giovani e uomini, ignoranza formale e sostanziale del catechismo.
E, cosa ancor più grave, senza alcuna distinzione fra città e campagna.
Niccoli elaborò la sua strategia di contenimento dei processi di modernizzazione attivando al massimo le energie devozionali e cultuali, pur rimanendo ancorato ad un’analisi fortemente socio-politica che vedeva nella «propaganda bolscevica» d’anteguerra la causa maggiore della deprimente situazione della sua diocesi; strategia che non abbandonerà neanche successivamente.
Il passaggio del fronte e la nuova situazione postbellica, videro la Chiesa colligiana prendere le distanze decisamente dalle equivoche consonanze precedenti e posizionarsi intorno a un anticomunismo moderato ma sostanziale.
Niccoli insisterà soprattutto sulla formazione del clero dedicandosi personalmente a esso e cercherà sempre più di intessere rapporti più sinergici con le altre diocesi senesi.
La nuova territorializzazione statuale imponeva di fatto una concordia di intenti e di azione perlomeno a livello provinciale, sul quale la nuova democrazia imponeva politica, azione sindacale, patronaggio e, soprattutto, scelte elettorali.
Fu questa probabilmente la strada che condusse la diocesi di Colle ad allentare il suo legame con Firenze e avvicinarsi a Siena.
L’arcivescovo di Siena Ismaele Castellano era nominato amministratore apostolico della diocesi colligiana dal 1966 al 1974.
Dal 1974 al 1975 lo sostituiva Fausto Vallainc, sempre in qualità di amministratore apostolico.
Nel 1975, ancora Castellano diveniva anche vescovo di Colle.
A causa dei molteplici impegni dell’arcivescovo senese, nel 1984, Ferdinando Charrier era nominato vescovo ausiliare di Castellano espressamente per Colle.
Nel settembre del 1986 la diocesi di Colle di Val d’Elsa veniva unita a quella di Siena e Montalcino.
Bibliografia
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Sant’Alberto di Colle. Studi e documenti, a c. di A. Benvenuti, Firenze 2005.
Diocesi di Colle di Val d’Elsa
Chiesa dei Santi Marziale Faustino e Giovita
Diocesi
FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.