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  • Diocese of Messina - Lipari - Santa Lucia del Mela

    Secondo la tradizione, l’apostolo Paolo, prima di concludere i suoi viaggi missionari a Roma, venne sospinto dalle forti correnti dello Stretto sulle coste messinesi, ove predicò la buona novella e organizzò la gerarchia ecclesiastica locale, ordinando Bacchilo primo vescovo della città del Faro. Tuttavia, i primi nomi certi di vescovi messinesi (Eucarpo I, 502) risalgono al pontificato di Simmaco e al tempo dei papi Pelagio I e Gregorio Magno, i quali scrissero numerose lettere ai vescovi Eucarpo II (558), Felice (591-595) e Dono (595-603). A quest’ultimo, in particolare, fu ribadito l’uso del pallio e, per i diaconi, l’uso dei «compagi», particolari calzari che, dal basso Medioevo, i canonici messinesi presero a indossare sulla base di tale privilegio. Nei due secoli successivi è documentata la presenza di altri presuli peloritani a concili e sinodi (Gaudioso, 787; Gregorio, 868), ma con la conquista musulmana della Sicilia (827-965) l’organizzazione ecclesiastica isolana era destinata a scomparire quasi del tutto. Nel 1061, dopo un primo tentativo fallito l’anno precedente, Ruggero d’Altavilla riuscì a sbarcare in Sicilia, presso Messina, chiudendo la città e il suo retroterra in una sacca e costringendola alla resa. Iniziò così da Messina la riconquista della Sicilia e da lì si spinse fino all’occupazione della roccaforte di Troina, che Ruggero scelse come capitale (1080) e che nel 1081 elevò a sede vescovile, prima ancora che venissero concluse le ostilità contro i musulmani (1091). Il conte pose a capo della nuova chiesa l’italus Roberto (†1106), uomo di sua fiducia, senza, però, consultarsi con il pontefice Gregorio VII, il quale, giustamente, pur promettendo di consacrare il presule, fece osservare che per l’elezione occorrevano un legato apostolico e il proprio consenso. Furono le prime avvisaglie di veri e propri scontri tra i normanni e il papato per l’esercizio del potere ecclesiastico in Sicilia. La rifondazione della diocesi di Messina fu l’ultima, in ordine di tempo, tra quelle volute da Ruggero I. Essa avvenne nel 1096, dietro insistenze della Sede apostolica, quando il principe normanno affidò allo stesso vescovo Roberto di Troina una piccola porzione di territorio facente parte di quella diocesi e comprendente la città dello Stretto e il suo suburbium, dotandola di consistenti beni fondiari, tra cui il casale di Regalbuto. Per questo, nei secoli successivi, i presuli messinesi porteranno il titolo di conte di Regalbuto e, in seguito, essendo arricchita la mensa arcivescovile dei feudi di Alcara e Bolo, anche quelli di Barone di Bolo e Signore di Alcara. L’unione in persona episcopi delle due diocesi di Troina e Messina rimase tale anche con gli immediati successori di Roberto, fino ai tempi della regina Costanza ma, assai presto, i rapporti di forza tra le due diocesi si ribaltarono a favore di Messina ove, fin dagli inizi del XII sec., i vescovi di Troina e Messina fissarono la propria dimora. Negli stessi anni, i già difficili rapporti tra la dinastia normanna e la Santa Sede andarono sempre più peggiorando, in particolare quando, nel 1098, Urbano II, per fermare le ingerenze di Ruggero nelle Chiese siciliane, nominò, inconsulto comite, il vescovo Roberto legato apostolico in Sicilia. Essendo Roberto persona dell’entourage comitale, il pontefice, probabilmente, aveva tentato di ammorbidire il procedere del conte; ma questi, vedendo minacciate le proprie prerogative, reagì facendo arrestare il presule. Roberto, peraltro, venne rilasciato dopo pochi mesi in seguito agli accordi di Capua tra Urbano e Ruggero, il quale promise di non compiere mai più atti simili e concesse alla Chiesa di Messina «cum clericis et laicis» il «privilegium libertatis». Con Ruggero II, figlio del conte e primo sovrano di Sicilia, i rapporti con la Sede apostolica si inasprirono ancora di più. L’occasione fu data dallo scisma del 1130 che oppose Innocenzo II all’illegittimo Anacleto II. L’antipapa, potendo contare esclusivamente sull’appoggio politico e militare di Ruggero, fu largo di riconoscimenti verso quest’ultimo, cui concesse il titolo di re di Sicilia, e, nel 1131, l’erezione della sede episcopale messinese a metropoli (suffraganee Catania, Cefalù e Lipari- Patti) con la bolla Piae postulatio voluntatis, la fondazione dell’archimandritato del Santissimo Salvatore in lingua phari e l’erezione delle nuove diocesi di Cefalù e Lipari- Patti. Nel 1159, a scisma ormai concluso, Eugenio III, nella bolla Cum universis ecclesiis indirizzata a «Roberto Messanensi episcopo» (1151-1161), non riconobbe l’erezione della sede metropolitana peloritana da parte di Anacleto, ribadendo il «privilegium libertatis» concesso da Urbano II e disponendo che i vescovi di Messina avrebbero dovuto recarsi a Roma per la consacrazione. Tuttavia, nel 1166, dopo la visita a Messina dell’anno precedente, Alessandro III, finalmente, concesse lo «ius metropoliticum in perpetuo» ai pastori della Chiesa messinese e al primo arcivescovo, Nicola (1166-1180), con la bolla Licet omnes discipuli, l’uso del pallio e le chiese suffraganee di Cefalù, Lipari e Patti. Il primo secolo di vita della risorta Chiesa peloritana si concluse con la solenne consacrazione (22 settembre 1197) della nuova cattedrale di Santa Maria da parte dell’arcivescovo Berardo (1196-1233), alla presenza dell’imperatore e re di Sicilia, Enrico VI di Svevia, della moglie Costanza e del figlio Federico II. Il XIII sec., iniziato felicemente sotto la dinasta sveva, si chiuse in maniera tragica a causa della guerra del Vespro (1282- 1302). Messina, ultima tra le città siciliane a schierarsi a favore degli aragonesi, dopo il fallimento dell’ambasceria del cardinale Gherardo da Parma, legato pontificio, venne investita dalla truppe angioine fedeli al papa e colpita dalla scomunica. Il clero locale si divise tra le due fazioni. Tra chi preferì mettersi al sicuro, vi fu anche l’arcivescovo Rainaldo (1274-1287), che raggiunse la curia romana per «intercedere a favore dei suoi figli spirituali incorsi nelle ire del vicario di Cristo». La sede messinese rimase vacante per più di vent’anni, visto che alla morte di Rainaldo, il capitolo, convocato a Napoli, elesse arcivescovo il cappellano pontificio Francesco della Fontana, il quale, dopo pochi mesi, rinunciò al possesso della sede. Dopo la pace di Caltabellotta, Benedetto XI, ponendo fine alla vacatio, nominò un altro cappellano pontificio, Guidotto d’Abbiate, decretorum doctor, pastore della chiesa peloritana (1304-1333); questi rimase a Messina fino alla morte, lasciando ai posteri i magnifici mosaici che ornano le absidi del duomo e il suo monumento sepolcrale, a ragione giudicato il più bell’esempio di scultura della cattedrale a noi pervenuto. Con la morte di Guidotto, la diocesi rimase senza pastore per altri sette anni, avendo il pontefice cassato l’elezione di Federico de Guerciis, canonico messinese e membro di un’antica famiglia feudale, fatta da una parte del capitolo metropolitano. La decisione della Sede apostolica ebbe tristi ripercussioni sulla vita sociale peloritana, al punto che il nuovo arcivescovo divenne oggetto di attentati e solo due anni dopo la nomina la questione trovò una pacifica composizione. Durante il grande scisma d’Occidente, il clero e la nobiltà messinesi preferirono rimanere fedeli al papa di Roma Urbano VI, che alloggiò nel monastero del Santissimo Salvatore durante la sua visita nella città (1385) e fu prodigo di favori con essa. Nello stesso periodo, l’arcivescovo messinese Filippo Crispo (1392-1401) celebrò il primo sinodo diocesano (1392). Nel Quattrocento, pur continuando i difficili rapporti tra capitolo e curia romana circa il diritto di elezione dei metropoliti, si imposero alcune figure di presuli, come il catanese Giacomo Tedeschi (1450-1473), che ebbe un ruolo decisivo nella difesa del patrimonio della Maramma (Opera del Duomo) e nella fondazione del monastero di Montevergine. Inoltre, la cattedrale si arricchì in quegli anni delle famose reliquie della chiesa di San Giacomo di Capizzi, trasferite a Messina dal cavaliere Sancio de Heredia per ordine di Alfonso il Magnanimo, che la resero esente da ogni giurisdizione. Nello stesso periodo la vita cittadina fu inasprita da gravi conflitti sociali per il governo dell’universitas che videro contrapposti nobiles e populares e a cui il clero cittadino non rimase affatto estraneo. Sarà l’arcivescovo Antonio La Lignamine (1514-1537), appartenente a una famiglia presente da due secoli nella giurazia della città, a svolgere, nel 1516, un’importante opera di mediazione tra le due opposte fazioni che porterà alla famosa «concordia». Negli stessi anni, alcuni ambienti della società messinese furono interessati dalla diffusione di idee eterodosse e dalla circolazione di opere come le prediche di Bernardino Ochino, il Beneficio di Cristo e alcuni testi di Juan de Valdés. Si trattava di un folto gruppo di nobili, gravitanti attorno alla corte viceregia, e di ecclesiastici desiderosi di recuperare il vero spirito del cristianesimo. Alcuni di essi, tuttavia, dovettero subire l’accusa di eresia da parte dell’Inquisizione siciliana: tra di essi, vanno senz’altro ricordati il decano del capitolo, l’archimandrita Spatafora e il canonico, poi, vescovo, Giovan Francesco Verdura. Durante il concilio dì Trento, cui prese parte l’arcivescovo Cervantes (1561-1563), venne stabilito che ogni diocesi istituisse un seminario per la formazione dei chierici. A ciò provvide, già nel 1573, l’arcivescovo Retana (1569-1582), anche se l’opera fu portata a termine dal successore Antonio Lombardo, che convocò pure il secondo sinodo diocesano (1588). Sempre in quegli anni (1571) si ricorda la partenza da Messina della flotta cristiana, diretta a Lepanto contro i turchi, al comando di don Giovanni d’Austria, al quale l’arcivescovo consegnò il vessillo inviato da Pio V. Nel XVII-XVIII sec., la Chiesa peloritana visse momenti di particolare fervore religioso, come la celebrazione dei cinque sinodi diocesani, ma soffrì per alcuni eventi luttuosi che colpirono la città di Messina, come la rivolta antispagnola del 1674-1678, la guerra di successione austriaca, la peste del 1743 (durante la quale morirono circa 30.000 persone, compreso l’arcivescovo) e il terremoto del 1783, che distrusse numerosi edifici di culto e danneggiò gravemente la stessa cattedrale. Ai primi dell’Ottocento risale lo smembramento dell’arcidiocesi, che si estendeva territorialmente fino alle attuali province di Palermo, Catania ed Enna. Diversi comuni di essa passarono, rispettivamente nel 1817 e nel 1844, alle diocesi di Nicosia e Acireale, mentre nel 1827 la diocesi di Patti ricevette altri ventiquattro centri abitati dei Nebrodi. Con l’unità d’Italia la diocesi, già governata dal teatino Giuseppe Maria Papardo (1857-1867), amministratore apostolico sede plena, attraversò una fase critica, dopo la morte del cardinal Villadicani (1823-1861), decano dell’episcopato siciliano, apertamente ostile a ogni forma di democrazia liberale. Dopo sei anni di vacanza, infatti, nel 1867, venne promosso metropolita Luigi Natoli (1867-1875) che, da vescovo di Caltagirone, si era mostrato meno soggetto ai Borbone. Lo stesso prelato fu presente, qualche anno più tardi, al concilio Vaticano I. Nel 1883 Leone XIII unì l’archimandritato del Santissimo Salvatore di Messina, da quasi cinquant’anni sede vacante, aeque principaliter all’arcidiocesi, mettendo fine a incomprensioni e controversie che duravano da secoli. Gli anni a cavallo del Novecento videro nella diocesi la fioritura di nuovi istituti religiosi: rogazionisti e Figlie del Divino Zelo, a opera di sant’Annibale Maria di Francia; cappuccine del Sacro Cuore, Apostole della Sacra Famiglia, Ancelle riparatrici, fondate, rispettivamente, dai servi di Dio Francesco Maria di Francia, cardinal Giuseppe Guarino e canonico Antonino Celona, dei quali è in corso il processo di beatificazione. Il catastrofico terremoto del 28 dicembre 1908 (che provocò 80.000 vittime e distrusse più del 90 per cento degli edifici, a cominciare dalla cattedrale) contribuì notevolmente ad accrescere l’impegno della Chiesa locale verso quanti persero ogni cosa. Va ricordato che in quegli stessi anni operarono in diocesi san Luigi Orione, nominato vicario generale (1908-1911) dal pontefice san Pio X, e i beati Contardo Ferrini, professore di diritto romano nell’università di Messina, e Maddalena Morano, fondatrice dei primi istituti delle figlie di Maria Ausiliatrice in Sicilia. La ricostruzione fu lenta e dolorosa. Essa ebbe inizio con l’arcivescovo Letterio D’Arrigo (1898-1922) e, dopo trent’anni, fu conclusa dal successore Angelo Paino (1923-1963). Cattedrale, episcopio, seminario e centinaia di edifici di culto, istituti e conventi furono restituiti alla diocesi o costruiti ex novo. La furia devastatrice dell’ultimo conflitto mondiale, purtroppo, non risparmiò quanto scampato al sisma del 1908. Basti un esempio per tutti, la cattedrale. Ricostruita pezzo per pezzo fino al 1929, venne incendiata dai bombardieri americani il 13 giugno 1943, bruciando per diversi giorni, con la perdita quasi totale di quanto scampato alla catastrofe sismica d’inizio secolo. La seconda ricostruzione da parte di monsignor Paino, ormai avanti negli anni, ebbe inizio già durante l’occupazione anglo-americana e si concluse con la nuova consacrazione della risorta cattedrale (1947), per l’occasione elevata da Pio XII alla dignità di basilica. Il rinnovamento della Chiesa messinese, alla luce del concilio ecumenico Vaticano II, si è sempre più sviluppato, durante gli episcopati di Francesco Fasola (1963- 1977) e Ignazio Cannavò (1977-1997). In particolare, durante i venti anni di governo pastorale di quest’ultimo, l’arcidiocesi, il 30 settembre 1986, a seguito della riformulazione geografica delle diocesi italiane, assorbendo la diocesi di Lipari e la prelatura di Santa Lucia del Mela, oltre all’archimandritato, si è trasformata in arcidiocesi di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela, con suffraganee le diocesi di Patti e Nicosia. Sempre in questi anni, si è avuta la visita pastorale di Giovanni Paolo II (11 giugno 1988) con la canonizzazione della beata Eustochia Smeralda Calafato (1434-1485), cittadina messinese e fondatrice del monastero di Montevergine, e la beatificazione e canonizzazione, da parte dello stesso pontefice, del venerabile Annibale Maria di Francia (1851-1927).

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