Diocesi di Bologna
STORIA
I – L’età antica e l’alto Medioevo
Dopo essere stata importante città etrusca, nel corso del II-III . d.C.Bologna non eccelle in modo particolare.
Il cristianesimo appare documentato già verso la fine del III sec., con il martirio di tre membri della comunità ecclesiale, Vitale, Agricola e Procolo: Vitalem, Agricolam, Proculumque Bononia condit, riporta san Paolino di Nola (Carmen.
XVII, ed.
G.
De Hartel, CSEL XXX 281).
I primi due martiri sono attestati anche da sant’Ambrogio, che provvide alla traslazione a più degna sede dei loro corpi da poco ritrovati in un sepolcreto giudaico (Exhortatio virginitatis, I-II, PL XVI 335-339B).
Lo stesso Ambrogio, nei suoi scritti, designa la Chiesa bolognese come un polo di attrazione di anime ansiose di perfezione.
Già alla fine del IV . esisteva dunque a Bologna, oltre che un certo culto dei martiri, anche una sorta di movimento monastico, costituito da un gruppetto di fanciulle «indefesse guerriere della castità» (Ambr., De virginitate, I, X, 60: PL XVI 250B; anche in Sancti Ambrosii Opera omnia, ed.
bilingue a c.
della Biblioteca Ambrosiana, 14/1, 1989, 150).
La Chiesa bolognese fu inizialmente sottomessa al potere metropolitano di Milano e poi, verso il 430, di Ravenna.
Papa Pasquale II, nel concilio di Guastalla del 1106, la sciolse da questa metropolia e la rese direttamente dipendente dalla Santa Sede.
Il 10 dicembre 1582 Bologna fu elevata al rango di Chiesa metropolitana, con grande risentimento della Chiesa ravennate.
Di Bologna ci resta l’elenco (dittici) di tutti i vescovi (detto «elenco renano», perché proveniente da un codice del monastero di San Salvatore di Reno): per alcuni esso è del XII . e dipende da una fonte del IX sec., per altri non è antecedente all’inizio del XIV . La sua estrema schematicità (di alcuni vescovi riporta solo il nome) è un elemento a favore della storicità; inoltre, per i secoli più antichi, la serie dei vescovi è confermata da una sequenza di fonti coeve.
Il primo vescovo di cui abbiamo datazione certa è Eusebio (quinto della lista), presente al concilio di Aquileia nel 381: la sua firma segue immediatamente quella di Ambrogio, per cui alcuni lo ritengono secondo per importanza.
Andando a ritroso, il primo vescovo, san Zama, potrebbe essere collocato all’inizio del IV . Il vescovo più ricordato è l’ottavo della lista, Petronio (†450), indicato col titolo di santo.
Il suo nome nel Medioevo non ha avuto grande risonanza.
Soltanto con lo sviluppo dei comuni, cioè dopo il 1000 – e per altri addirittura solo nel XIV sec., al momento della costruzione della basilica a lui intitolata –, la tradizione agiografica ha trasfigurato il ruolo pubblico svolto da Petronio per la salvaguardia del territorio e dei suoi abitanti e ne ha fatto il simbolo unificante della città.
In questo periodo sorgono varie leggende su Petronio che lo fanno grande costruttore, visitatore della Palestina (da cui avrebbe portato varie reliquie).
La vita leggendaria di Petronio è ricostruita sulla falsa riga di quella di Ambrogio, anche se questo processo non è stato semplice ed ha visto scontrarsi diverse forze religiose e civili, come vedremo tra breve.
Nell’ultima parte del IV . i vescovi bolognesi sono in stretta relazione e comunione con la Chiesa milanese e con il suo vescovo Ambrogio.
Il vescovo Eustazio è tra i sottoscrittori della sinodica milanese del 390.
Per quanto riguarda l’ubicazione dell’antica cattedrale, oggi non si esclude una fase extraurbana, nella zona cimiteriale cristiana dei Santi Nabore e Felice (a ovest della città), e una fase intra-muraria, nel complesso stefaniano (a est della città, ma solo molto tempo dopo la traslazione delle spoglie mortali dei protomartiri Vitale e Agricola).
In pratica oggi è opinione comunemente accolta che la chiesa dedicata ai santi Nabore e Felice – santi milanesi – sia stata la prima sede cattedrale cittadina; lo confermerebbe anche la cifra archeologico- monumentale, anche se la dedicazione sarebbe sempre stata a san Pietro e non anche ai protomartiri Vitale e Agricola, se non solo per i primissimi tempi.
Circa l’estensione della giurisdizione episcopale non si possiedono informazioni precise fino all’VIII-IX . (il falso placito del re longobardo Rachis, come vedremo), quando anche in senso civile la città comincerà a stringere la propria presa sul territorio.
Ma è solo a partire dall’XI- XII . che sarà possibile seguire il suddividersi del territorio diocesano in una rete di pievi e parrocchie così importante per la cura animarum.
La prima certificazione di ordinari poteri ecclesiastici fatti valere dal presule bolognese (vescovo Lamberto) su un’area chiaramente definita nei suoi confini geografici è contenuta nella controversa bolla gregoriana (o guibertiana – in tal caso, dovrebbe essere postdatata di dieci anni) risalente al 23 marzo 1074 (Codice diplomatico della Chiesa bolognese, 138-142).
Un passaggio epocale, nella storia della Chiesa bolognese, è quello dalla dipendenza ecclesiastica di Milano (con la forte traccia lasciata in loco dalla carismatica personalità di sant’Ambrogio) a quella di Ravenna, avvenuto intorno al 431.
I vescovi bolognesi, durante le loro soste a Ravenna, alloggiavano nel palazzo del patrizio Rufo, con al suo centro la chiesetta di Santa Maria in Bologna (almeno fino al XII sec.).
I rapporti suffraganei tra la Chiesa bolognese e quella ravennate non furono sempre sereni e pacifici.
A Ravenna prevalse la cultura romano-bizantina, mentre a Bologna prevalse l’apporto dei longobardi che occuparono la città per ben quarantasei anni (727/728-774); il ricordo della permanenza longobarda è rappresentato sia dal cosiddetto «catino di Pilato », con un’iscrizione che ricorda i privilegi concessi dai re longobardi Liutprando e Ilprando alla Hierusalem bolognese (cioè alla basilica di Santo Stefano) – ove si menziona anche il vescovo bolognese Barbato –, sia dal placito (oggi ritenuto falso) del re Rachis del settembre 746, in corte Cardeto (nei pressi di Sant’Agata), circa una lite sorta tra i vescovi di Bologna e Modena relativa ai confini delle rispettive diocesi, che il placito porrebbe lungo il torrente Muzza (Codice diplomatico della Chiesa bolognese, 62-65).
Già a partire dalla seconda metà dell’VIII . sono documentate fondazioni religiose (clericali e monastiche) tra la pianura modenese e bolognese; da queste strutture nasceranno – forse già a metà del IX . – pievi e parrocchie.
Una volta sconfitti i longobardi, nel 774 Bologna viene «restituita» da Carlo Magno alla Santa Sede, insieme con tutto l’esarcato.
Nel dicembre 786 Carlo è a Bologna, e partecipa alle feste religiose in onore dei martiri Vitale e Agricola, ottenendo in quell’occasione alcune reliquie dei due santi da trasportare a Clermont.
Il 29 maggio 801, presso il fiume Reno, in territorio bolognese, Carlo Magno decide su una lite sorta fra il vescovo bolognese Vitale e l’abate di Nonantola Anselmo, circa la giurisdizione sulla chiesa plebana di San Mamante di Lizzano (Codice diplomatico della Chiesa bolognese, 67-69).
Nel IX . contribuisce a infiammare gli animi tra la Chiesa bolognese e quella romana lo scisma provocato dal vescovo Maimberto, appoggiato da Ravenna e dal partito filoimperiale, contro Severo, eletto vescovo di Bologna dal partito filoromano.
L’Elenco Renano dice che Severo e Maimberto «fuerunt uno tempore», ma alla fine, ebbe la meglio Maimberto, ricordato nelle cronache bolognesi per la poca moralità e per le numerose «donazioni » di parte del territorio diocesano (compreso il complesso stefaniano) a Vibodo, vescovo filoimperiale di Parma, «donazioni» restituite solo un secolo dopo (sinodo di Marzaglia – località modenese – del 973).
Il vincolo di soggezione della Chiesa bolognese nei confronti di quella ravennate in questo periodo non è solo di tipo ecclesiastico, ma anche feudale, salva la fedeltà all’imperatore.
Emblematico segnale di emancipazione da Ravenna è il caso del 1130, quando l’eletto vescovo Enrico chiede e ottiene la consacrazione non a Ravenna, bensì nella chiesa arcipretale di San Giovanni in Persiceto, alla presenza di numerosi prelati e dignitari bolognesi.
Questa tendenza antiravennate è certamente condivisa da alti esponenti della comunità cittadina: ciò determina una sorta di «solidarietà» fra il clero e il laicato locale.
Non marginale per l’autonomia della città è, inoltre, il sorgere dell’influenza bolognese in ambito culturale, e in particolare giuridico, sfociato in ultima analisi nell’apertura dell’università coi grandi nomi di Pepo, Irnerio e Graziano.
Durante la «lotta per le investiture», la cattedra felsinea, condizionata da Ravenna e dal suo arcivescovo Guiberto (indi antipapa Clemente III), si contrappone più volte al partito riformatore gregoriano e cambia questa linea solo a cavallo tra l’XI e il XII . Dal bozzolo dell’antico e modesto oppidum altomedievale – soggetto, suo malgrado, a Ravenna e ai suoi metropoliti –, è ormai sbocciata, anche in virtù del prestigioso Studium, una delle più importanti città dell’Europa medievale, ormai in grado di soppiantare la dominatrice di un tempo e di interloquire con l’impero, lo Stato della Chiesa e le maggiori potenze dell’Italia centro-settentrionale.
Tra i momenti di splendore della Chiesa bolognese, segnale di un risveglio religioso e culturale, non si può non ricordare l’elaborazione, fra il 1029 ed il 1039, dello splendido codice miniato conosciuto come «Angelica 123», che adombra la presenza di un’eccellente scuola episcopale (durante l’episcopato di Adalfredo), non sappiamo se in raccordo con lo Studium.
Questo nonostante Pier Damiani ricordi, nell’opuscolo XXII Contra clericos aulicos, un vescovo bolognese (per i più, Adalfredo) curiale e dissipatore dei beni della Chiesa, per questo punito con una sorta di ictus (per sette anni paralizzato e muto); oggi lo stesso è ritenuto il primo vescovo riformatore: avrebbe infatti rinnovato la vita comune del clero, riformato i suoi costumi, aumentato i redditi del capitolo della cattedrale.
Dal XII . si delinea una fase di sviluppo della società cittadina imperniato organicamente su Chiesa, comune e università.
La Chiesa felsinea in questo tempo è attraversata dall’impetuosa crescita della città e dal suo ingresso, nel 1278, in un quadro politico-istituzionale connotato dal sistema della sovranità pontificia.
Il rapporto fra Chiesa e comune fra XII e XIII . è ambivalente e di non semplice lettura: accanto allo sviluppo di un patriziato urbano che favorisce forme di collaborazione fra episcopio e palazzo comunale, troviamo anche attacchi gravi da parte del comune a diritti e prerogative della Chiesa nel territorio.
Nel tardo XII . si assiste, in parallelo con lo sviluppo della città, alla costruzione di un’autentica memoria agiografica «civica » di cui in precedenza Bologna era sprovvista.
Ciò coincide con la stesura delle vite di san Petronio e di san Procolo, che, al di là dell’uso politico successivo e delle rivalità fra promotori dell’uno e dell’altro culto, sono (specie quello, alla lunga vincente, di san Petronio – basti pensare all’erezione della celeberrima basilica a lui intitolata, la cui prima pietra è posta nel giugno 1390) una orgogliosa affermazione di autonomia comunale e cittadina, mentre i tempi calamitosi del «Grande Scisma d’Occidente» e il risveglio di ceti e sentimenti definibili con l’aggettivo «popolari », fanno vacillare, mediante la sollevazione del 1376, la stabilità del trono pontificio in questi territori.
II - Il basso Medioevo e l’Umanesimo
Dal Duecento il Papato iniziò a controllare le istituzioni locali.Papa Onorio III nel 1219, volendo rendere efficace il suo controllo sulla Chiesa e sul mondo cittadino bolognese, impose la prassi della nomina papale dell’arcidiacono del capitolo cattedrale, destinandolo a rappresentarlo nello Studium allorché si conferisse la licentia docendi.
Qualche decennio dopo papa Innocenzo IV intervenne con la nomina diretta dei presuli bolognesi.
Con il 1278, terminate le furibonde lotte intestine fra Geremei e Lambertazzi, la sottomissione della città al potere di Roma era piena e l’episcopato bolognese si avviava a divenire uno degli strumenti del sempre più stretto controllo pontificio.
A prima vista, nella successione dei pastori bolognesi si possono indicare due fasi fondamentali: la prima, apertasi fin dagli inizi del XII sec., in cui «l’autorità del vescovo funge da legame e rappresentanza delle molteplici realtà e tendenze della Chiesa bolognese», e una seconda, in cui si assiste a un crescendo di segni di declino, a «un processo inarrestabile di perdita d’autorità dell’ordinario corrispondente a una sempre maggiore diretta ingerenza della Sede Romana » che ne è divenuta nel frattempo sovrana.
Il controllo delle nomine vescovili proseguì e si rafforzò nel Trecento con l’esercizio politico e istituzionale della sovranità pontificia, sostenuta da un guelfismo locale rigido e settario.
Con lo stabilirsi del papato ad Avignone giunsero anche a Bologna vescovi francesi, come il Sabatier, l’Hogonet ecc.
Tutto ciò, mescolato a esigenze spirituali e interessi temporali, produsse un acuto scadimento morale del clero, oltreché, di riflesso, un calo della pastoralità e una divaricazione, nettissima e dolorosamente avvertibile nel Tre e nel Quattrocento, fra Chiesa – ormai «in deficit di credibilità» – e società civile cittadina.
In un clima di tal fatta, anche la costituzione di una facoltà di teologia presso lo Studium nel 1364 restò non poco offuscata.
Tra il XII e il XIII . nella campagna bolognese venne alla luce un ordine religioso molto particolare, la congregazione di Santa Caterina di Quarto, a opera di un certo Alberto, presbitero di San Giovanni Battista di Castenaso.
Questa nuova fondazione presentava caratteristiche che la accomunavano sia al processo di riforma monastico sia a quello mendicante e pauperistico, in una sintesi unica nel panorama ecclesiale coevo.
Tra le caratteristiche più interessanti, la stabilità, in un periodo di grande itineranza, e la compresenza di uomini e donne dentro una unitaria struttura monastica.
Inutile dire che le vicende del monastero furono piuttosto tormentate; alla protezione del papa non corrispondeva la benevolenza del vescovo locale.
L’eresia a Bologna, studiata tra gli altri da L.
Paolini e R.
Orioli, è testimoniata da un manoscritto custodito alla Biblioteca comunale dell’Archiginnasio (ms.
B 1856), contenente atti dell’Inquisizione bolognese tra XIII e XIV sec..
L’eresia catara a Bologna non era, come sembra sia avvenuto altrove, un fenomeno essenzialmente cittadino, ma aveva manifestazioni, se pure non esattamente valutabili, anche nelle campagne; aveva tuttavia in città il focolaio più vivo.
Gli «apostolici» avevano il proprio campo di battaglia nel contado, precisamente nei paesi lungo il confine con la ghibellina Modena; a Bologna avevano scarsissimi agganci, costituiti essenzialmente da recapiti presso i canonici di Sant’Antonio nel suburbio.
Nel 1300 il catarismo a Bologna era già definitivamente scomparso.
Il dolcinianesimo, anche se diffuso sin dal 1299, ebbe la sua affermazione proprio a partire dal 1300.
Per il catarismo il maggiore reclutamento avvenne nel ceto medio, fra la gente di mestiere, soprattutto borsai e lavoranti di pelle; per il dolcinianesimo la base di diffusione dell’eresia era costituita dal ceto artigianale e dai piccoli commercianti.
In città la diffusione aveva come tramite l’esercizio dello stesso mestiere; nel contado invece il proselitismo avveniva attraverso i vincoli familiari.
Per Paolini il catarismo bolognese è «il prodotto di una diffusa situazione di disagio nei confronti della corruzione dilagante all’interno della Chiesa»; per Orioli l’azione degli apostolici è «intesa a purificare la Chiesa, non ad abbatterla né tanto meno a mettere in crisi il cristianesimo ».
Il sostrato che alimentava il catarismo e il dolcinianesimo bolognese non era dunque rappresentato dal dissenso dottrinale e teologico, ma dal rifiuto e dalla condanna del comportamento immorale e irreligioso del clero, specie di quello influente.
Nel Quattrocento i vescovi erano sempre più assenteisti ed estranei alla società locale, e cessarono di essere in larga misura il perno della Chiesa diocesana.
Per la documentazione fattasi assai più ricca e folta, diventa ora più facile ricostruire i possessi della Chiesa bolognese, tracciare la rete pievanale, localizzare le chiese urbane e segnalare la presenza ereticale, e anche seguire le vicende dei singoli vescovi.
Tale slancio e tale capacità reattiva della comunità bolognese fu evidente per tutto l’episcopato del vescovo Enrico (1129- 1145), travagliato da calamità naturali e incendi, ma sempre confortato da una grande spinta di ripresa del clero e del laicato.
Diventava ormai insolubile il rapporto fra l’episcopio e lo Studium, ospitato nei locali della curia di Sant’Ambrogio, di cui lo stesso Enrico era esponente di spicco ed esperto giurista.
Si rafforzò inoltre, nello stesso periodo, il rapporto con la Santa Sede, confermato dall’appoggio garantito al vescovo Enrico allorché questi andò in aiuto del monastero di Nonantola in un contenzioso con il comune e il vescovo di Modena (1131 ca).
A concludere puntualmente la parabola di Enrico fu il ritrovamento, nel 1141, delle reliquie di san Petronio entro le mura del complesso abbaziale di Santo Stefano, inizio di una «liturgia civica» che in seguito avrebbe scelto il santo vescovo come patrono della città.
A Enrico successe il vescovo Gerardo II Grassi (1148-1165), il cui episcopato fu tutto teso a custodire nella comunità il senso forte della concordia civica, ripetutamente messo in pericolo da un equilibrio politico in trasformazione.
Erano gli anni, infatti, degli indirizzi perseguiti dall’imperatore Federico I di Svevia e rivendicanti l’honor imperii sulle regalie della grande feudalità laica ed ecclesiastica.
Per il vescovo di Bologna ciò significava il riconoscimento della episcopalis audientia, cioè di un nuovo compito dell’ordinario circa i rapporti con il mondo dell’università.
Vuol dire, in sostanza, un ancora possibile rafforzamento della curia vescovile, presente, direttamente o tramite rami del clero, in molte iniziative edilizie e urbanistiche, pubbliche e private.
Alla morte del vescovo Gerardo, la comunità bolognese risentiva delle contemporanee vicende di storia ecclesiastica con l’elezione dell’anti-papa Vittore IV (1158-1159), causa di ampi squarci e rivalità negli anni successivi per molte sedi vescovili italiane e non.
Ma l’influenza romana non mancò di farsi sentire nell’episcopato di Giovanni IV (1169-1187), di imprecisata famiglia, controllato e guidato molto da vicino dal papa Alessandro III, di cui fu giudice delegato fin dal 1169.
A questo periodo si riconducono restauri di chiese, rinascita spirituale sotto forma di religiosità e pietà popolare, esigenze penitenziali, nonché una serie di ricognizioni e traslazioni di reliquie di santi locali.
Un esempio è il trasferimento in cattedrale delle reliquie dei martiri Vitale e Agricola, o la composizione di una Vita Sancti Petronii sulla base di una testimonianza del V . uscita dallo stesso monastero di Santo Stefano, o la diffusione del culto di san Procolo, titolare di una potente abbazia benedettina della città, presentato come protettore e tirannicida in una Bologna sempre più soggetta alle decisioni degli svevi.
Dello stesso tenore fu anche l’episcopato di Gerardo III Gisla (1187-1198), per alcuni anni vescovo e podestà del comune al contempo.
Erano gli anni in cui un’ampia parte dei ceti produttivi avanzava nella società nuove esigenze e nuove forme associative, creando tensioni e contrasti sfociati anche, a livello di pietà popolare, nella nascita di forme parallele e distinte di vita cristiana.
Di gran rilevanza fu la politica del vescovo Gerardo nei confronti delle realtà monastiche della diocesi, maschili e femminili, nella quale ben s’inquadrava l’insediamento eremitico femminile in Santa Maria della Guardia, sul colle che poi ospiterà (e oggi ancora ospita) il santuario della Madonna di San Luca: tutto questo sotto la guida e gli interventi provenienti da Roma, in forma di decreti e deliberazioni, ammonimenti (specie in ordine all’ortodossia dello Studium) e pure soluzioni pratiche e logistiche a problemi locali.
Gli stessi provvedimenti romani si infittirono durante il successivo episcopato di Gerardo IV Riosti (1199-1213), per molti aspetti in linea con quelli precedenti (nel 1208 furono gettate le fondamenta della chiesa di Santa Lucia), sovente in contrasto con il papa Innocenzo III, personalità forte e intransigente.
Nel 1213 fu eletto vescovo Enrico II della Fratta (1213-1240): il suo fu un episcopato di grande competenza, fermezza e duttilità, davanti alla inarrestabile ascesa dei ceti popolari; un episcopato segnato anche da un forte risveglio della spiritualità, rianimata, nel 1214, della quinta crociata e dall’arrivo degli ordini mendicanti.
Dopo il passaggio in città di Domenico (1218) e Francesco (1222), alcuni membri delle loro comunità s’insediarono entro le mura cittadine, con non poca diffidenza dell’episcopio e del clero secolare.
Fra questi assunsero un ruolo sempre più forte i predicatori, che fecero di Bologna un centro particolarmente attivo di riferimento per tutta la famiglia domenicana, specie nella custodia delle reliquie del fondatore e nel dibattito dottrinale presso una scuola conventuale di teologia, poi incorporata allo Studium come facoltà nel 1364.
Il vescovo Enrico, dopo i riconoscimenti della Santa Sede e con l’attenuarsi della diffidenza del clero, si fece promotore di stabilità nei rapporti fra i due ordini, nonché di tutte le numerose forme di vita cristiana e pietà religiosa sorte in questo periodo.
Mediatore e disponibile verso queste realtà, Enrico adottò un fare transigente anche nei confronti del comune, cui concesse, a esempio, la celebrazione dei Sacri Riti nei locali del palazzo comunale.
Colse infine l’occasione di una questione da dirimere, per riorganizzare il plebatus della diocesi, meglio articolandolo nelle unità parrocchiali e in un sistema più funzionale alla raccolta delle decime.
Alla morte di Enrico la cronotassi ricorda vari nomi che la Santa Sede non promuove come vescovi ma si limita a nominare procuratori o amministratori, con poteri limitati e durata effimera, senza rappresentatività e risvolti pastorali.
La Chiesa locale, in questi anni, sembra versare in condizioni di sofferenza e instabilità, stretta fra le pretese di una Santa Sede sempre più presente e di forme di spiritualità (nuove o degli ordini mendicanti) sempre più penetranti.
I discepoli di Francesco e Domenico, in particolare, inseriti stabilmente nella compagine cittadina, assunsero un ruolo principe nella direzione delle coscienze, nella predicazione e nella custodia della fede, con grande favore del popolo e degli esponenti delle classi più elevate.
In questo scenario si colloca l’episcopato di Ottaviano Ubaldini (1261-1295), nipote dell’omonimo cardinale, cui spettò una non trascurabile forma di governo, sulla quale, però, si rovesciò la tempesta dell’esilio nel biennio 1274-1276 a causa di presunte idee ghibelline.
Il conflitto fra guelfi e ghibellini scoppiò proprio in questi anni e culminò con la cacciata, la confisca e la distruzione della famiglia ghibellina dei Lambertazzi da parte della famiglia guelfa dei Geremei: da questo momento iniziò per Bologna un declino inarrestabile, spinto ancor più, nel 1278, dal già menzionato evento della sottomissione allo Stato pontificio.
A questo punto Bologna vede lo stabilirsi in loco di un legato apostolico, talvolta cardinale, figura di ben poco spessore nel sentimento comune dei bolognesi se non nel dare avvio al mito del «cardinale di Bologna».
Il primo di essi, il Malabranca, si occupò del rientro dei Lambertazzi nella città per un equilibrio tuttavia ancora del tutto precario.
La presenza del legato si attuò continuamente in parallelo a interventi della Santa Sede indirizzati alla disciplina, all’ammonimento, al controllo e alla riscossione tributaria.
Da quest’ultimo aspetto fiscale risulta pesantemente gravato il clero, non solo bolognese, ma un po’ di tutta la Romagna (compare in questi anni una sua ratio decimarum voluta e compilata dalla Camera apostolica).
Questo valore dato al denaro contribuì ancora a seminare il malcontento e la delusione dei bolognesi, ormai vittime di un sistema ecclesiastico disinteressato alla cura delle anime ed eccessivamente preoccupato dal sistema temporale.
Al vescovo Ottaviano successe il fratello Schiatta (1295-1298), che però era in sede solo saltuariamente e nel cui operato si registrano per lo più atti di normale amministrazione.
Dopo di lui, il regnante papa Caetani inviò a Bologna Giovanni V Savelli (1299- 1302), un uomo di formazione mendicante, di malferma salute e tuttavia destinato alla carriera ecclesiastica.
Ossequioso nei confronti delle tradizioni (prestò subito giuramento di fedeltà al metropolita ravennate) e della Sede di Pietro (volle definirsi vescovo «per grazia di Dio e designazione della Sede apostolica»), era attento, come ricordano i documenti storici, ai nuovi movimenti e ordini religiosi nelle varie articolazioni della vita cittadina, e si fece portavoce in tutta la comunità diocesana del desiderio di ordine e pace ormai sensibile ovunque.
Raccolse questo testimone Uberto Avvocati (1302-1322), che in un ventennale episcopato segnò la storia ecclesiastica locale per gli stretti legami con il papa, ritirato ad Avignone (la cui vicinanza a Bologna faceva sperare in uno stazionamento della curia papale nella città), e con il metropolita di Ravenna, Rinaldo da Concorrezzo, in una stagione fiorente di concili provinciali e sinodi.
A questi seguì, entro i confini, un sinodo diocesano nel 1310, i cui atti sono ancora oggi conservati.
Non altrettanto fluidi furono i rapporti con la politica avignonese, sempre più autoritaria e fiscale, culminati nella cacciata del legato cardinale Orsini (1306), inviso per la fama di ghibellino.
A queste tensioni Avignone rispose imponendo per alcuni decenni nomine episcopali di personaggi fidati di estrazione francese.
Nel 1322 arrivò a Bologna Arnaldo Sabatier (1322-1330), la cui presenza nella città pare rivolta essenzialmente a disciplinare ordini e forme di religiosità popolare.
Vittima di una congiura fiscale, forse voluta dalla stessa curia papale, dovette fare ritorno nella sua Francia.
Di scarso peso l’episcopato di Stefano Hugonet (1330-1332), del tutto ligio alle direttive di Avignone, mirate a una crescente militarizzazione della città e del suo territorio.
Segno della profonda penetrazione francese, nel 1332 il capitolo stesso della cattedrale fece cadere la scelta del vescovo sul transalpino Bertrando Tissandier (1332- 1340), nipote del legato.
Sulla linea del Sabatier, attento alle istituzioni di monachesimo femminile, agli organismi confraternali, alle forme assistenziali, si trovò a gestire diverse situazioni difficili in Bologna, fino alla sommossa che nel 1334 lo fece allontanare insieme al legato stesso.
Si sentiva diffuso il bisogno di un pastore nuovo nella forma, nell’estrazione e nei contenuti, un vescovo che riprendesse in mano quella cura d’anime che la diplomazia temporale relegava alla gestione degli ordini mendicanti o dei monasteri benedettini.
Ancora una volta, però, la nomina papale non rispose a questa esigenza, con la scelta del vescovo comasco Bertramino Parravicini (1340-1350), che all’ufficio bolognese dovette affiancare un ingente carico di lavoro diplomatico per la Santa Sede: l’ingresso in ritardo e numerose e lunghe assenze causarono un forte disagio, specie nel clero locale.
Sono gli anni della peste nera (1347-1348), anni di rinnovato impegno per le istituzioni assistenziali e le iniziative di pietà popolare, che però volgono lo sguardo a una presenza episcopale davvero in crisi.
Della stessa origine lombarda era Giovanni IV Naso (1350-1361), che si fece mediatore fra la famiglia Visconti di Milano – che nel frattempo aveva ottenuto in mano il governo di Bologna – e il legato cardinale Albornoz, ben famoso nella storia di quel tempo.
Giovanni morì improvvisamente nel 1361, mentre per Bologna si stava preparando la difesa antiviscontea e antipontificia.
Ciò ebbe a determinare ancora una volta un innalzamento della guardia da parte papale, che ricominciò a inviare a Bologna suoi uomini di fiducia, tratti dalle file dei presuli francesi.
Il primo fu Aimerico Cathy (1361-1371), originario di Tours, già vescovo a Volterra, che intraprese una politica a favore dello Studium, per il suo lustro e il suo rinnovamento.
Gli succedette il limosino Bernardo Bonneval (1371-1378), anch’egli più versato in faccende di sudditi che d’anime.
Nell’assenteismo del vescovo trovarono spazio d’azione i ceti più popolari della città, intenti a riaffermare l’autonomia e il potere bolognese anche con un’espansione verso Ferrara.
Ma il sentire cittadino stava per gravarsi della delusione, allorché Gregorio IX fece ritorno da Avignone direttamente a Roma, e della sfiducia nella Santa Sede davanti allo scisma trecentesco dell’antipapa avignonese Clemente VII e poi dei due antipapi (il francese e il pisano).
Al vescovo Bernardo, tuttavia, si devono nuove strutture ospedaliere per far fronte all’emergenza del tempo e una nuova organizzazione della cura animarum nelle campagne.
La risposta della cittadinanza determinò un risveglio dei sentimenti d’identità e religiosità civica, già precedentemente abbozzata nella storia bolognese.
Il centro di questa fede comune fu trovato in san Petronio, le cui reliquie erano ancora conservate nel complesso di Santo Stefano, sistemazione non definitiva per i progetti urbani: un nuovo grande tempio nel cuore della città, accanto e di fronte alle residenze comunali.
Il progetto mosse i suoi passi più decisivi durante l’episcopato di Filippo Carafa (1378-1389), nominato poi amministratore alla nomina cardinalizia, napoletano di formazione e di cultura bolognese; in quanto segno dell’identità comunale di Bologna, non si voleva tuttavia un’ingerenza del vescovo nell’edificazione della nuova basilica, nonostante le insufficienze a livello liturgico e cultuale, che, al momento, la cittadinanza laica non seppe superare.
La successione del Carafa fu travagliata, finché la Santa Sede non insediò ancora una volta un suo personaggio di fiducia, il sulmonese Cosma Migliorati (1389-1390), già arcivescovo di Ravenna, richiamato a Roma in poco tempo ed eletto papa con il nome di Innocenzo VII.
La Santa Sede gli fece succedere, nonostante la surrogazione del prelato imolese Rolando, Bartolomeo Raimondo (1392- 1406), il primo a celebrare messa in San Petronio.
Nel marzo 1407 prese il suo posto il veneziano Antonio Correr (1407-1408), estraneo alle reali vicende della città (fabbrica di San Petronio, rivolte e sommosse cittadine) e creato cardinale pochi mesi dopo.
Tristi gli anni fino al 1412: la vacanza episcopale determinò un degrado non solo della cura delle anime ma anche dell’amministrazione del patrimonio temporale.
Venne scelto, infine, Giovanni da Michele (1412-1417), benedettino del monastero di San Procolo, uomo dalla formazione completa per un’ardua missione in tempi difficili come questi.
Nuovo impulso alla figura del vescovo venne data dal beato Niccolò Albergati (1417-1443), voluto dall’intera cittadinanza bolognese come degno successore di Giovanni.
Il suo progetto mirava fin dall’inizio a ridare incisività e identità alla propria Chiesa nel senso dell’equilibrio, del rispetto e dell’unità.
Con il sinodo del 1418 diede inizio al ministero episcopale, durante il quale compì numerose visite pastorali, riordinò l’amministrazione dei beni ecclesiastici e delle decime.
Mise lo Studium in condizioni di miglioramento e sviluppo, certo del suo valore positivo per tutta la Chiesa bolognese.
Fece fronte a numerose insorgenze dei ceti più popolari della città, facendo attenzione anche alle forme di religiosità a essi più corrispondenti; e ne vide un forte risveglio.
Nel 1443, proprio durante il suo episcopato, scese per la prima volta in città l’immagine della Madonna di San Luca, per scongiurare i pericoli di peste e calamità naturali, sempre fremente minaccia.
In sostanza, si rintracciano nell’episcopato del vescovo Niccolò i presupposti che diedero a Bologna la possibilità di divenire avanguardia nel far proprie le scelte del concilio di Trento lungo i secoli successivi.
La difficile eredità del vescovo Niccolò non trovò un’immediata efficace successione.
Gli fecero seguito, infatti, tre vescovi, che per decesso o promozione rimasero in Bologna pochi mesi: Nicolò Zanolini (1443-1444), Tommaso Parentuccelli da Sarzana (1444-1446) e Giovanni VIII del Poggio (1447).
Si registrò così nella società una persistente crisi depressiva, contro cui anche i detentori del potere civile restarono impotenti.
In questo stesso quadro vanno visti gli episcopati bolognesi fino alla fine del XV . Nel 1447 è la volta di Filippo Calandrini (1447-1476), che nel 1450 decise il censimento della diocesi per la registrazione dei morti per peste: fu un vero e proprio «stato d’anime».
Allo stesso periodo si riferisce il trasferimento da Ferrara della bolognese Caterina de’ Vigri e la fondazione del monastero delle clarisse intitolato al Corpus Domini.
Ancora una volta tuttavia, dopo l’episcopato relativamente lungo di Filippo, una nuova ondata d’instabilità segnò la cronotassi dei vescovi bolognesi, i quali trovarono in Bologna una tappa intermedia verso Roma, il cardinalato e il pontificato.
Si succedettero Francesco Gonzaga (1476-1483), Giuliano della Rovere (1483- 1502) e Giovanni Stefano Ferrer (1502- 1510), i quali però erano presenti assai di rado, lasciando il lavoro diretto a vicari e prelati locali.
Tra questi ultimi, l’episcopato di Giuliano segna la fine di una fase storica per la città: in urto con Giovanni II Bentivoglio, una volta divenuto papa, inviò a Bologna una spedizione militare che allontanò la famiglia e ristabilì sul territorio la diretta sovranità pontificia.
III - Dal concilio di Trento alla dominazione napoleonica
L’età moderna è sorretta da una massa documentaria ognora crescente, come dimostra la sintesi di U.Mazzone; per quello che attiene all’età moderna, l’essenza e il ritmo del tempo interiore e dei tesori che esso costituisce si recuperano nel graduale ma fermo proposito di emanciparsi dallo scadimento, evangelico e pastorale, tre-quattrocentesco; tale tensione si invera dapprima nel cosiddetto «umanesimo cristiano» e, un secolo dopo, nel poderoso sforzo del concilio tridentino, che a Bologna trova in Gabriele Paleotti (1522-1597), cardinale e vescovo felsineo dal 1566, uno dei migliori interpreti in assoluto, capace di una radicalità di intervento quasi pari a quella di san Carlo Borromeo.
Sul piano più «politico» i due fatti salienti di questo periodo sono, senza dubbio, i «Capitoli» di Niccolò V, emanati nel 1447 e rimasti in vigore fino alla Rivoluzione francese, che garantivano a Bologna, almeno sulla carta, un governo «misto », in cui il potere del legato pontificio si contemperava con quello delle magistrature cittadine, e il conseguimento, non senza lacerazioni con Ravenna, della dignità metropolitana e del titolo arcivescovile, ottenuto dal Paleotti a vantaggio della Chiesa bolognese nell’anno 1583.
Furono anni di straordinaria energia creativa, tanto che si parla di prima e dopo Paleotti.
«Fanno corona alla centralità della figura del Paleotti il proliferare, fra Quattro e Cinquecento, di associazioni confraternali e di culti civici, come quello della Madonna di San Luca e di santa Caterina de’ Vigri, penalizzato però, quest’ultimo, dall’essere stato troppo legato all’ambiente bentivolesco, sfavorevole al governo della Chiesa.
Questo quanto al prima».
Il lento ma inarrestabile isterilirsi dell’impulso tridentino e il progressivo arroccarsi – pur in presenza di taluni presuli di notevole valore, come Giacomo Boncompagni e Prospero Lambertini, poi papa Benedetto XIV – «su posizioni difensive, mitigate a tratti da un timido riformismo, ma troppo spesso angosciate dal rapido evolversi dei tempi, ciò specie nei confronti dell’esecrata cultura dei “Lumi”, contrappuntano, talvolta in un crescendo drammatico, il dopo Paleotti» (Mascanzone).
Quanto poi agli eretici e, nella fattispecie, ai luterani, gli elementi di conoscenza a tutt’oggi scarseggiano, ma pare di poter dire, con la massima prudenza – beninteso – che essi furono presenti a Bologna in forme diverse e, tutto sommato, scarsamente incisive.
Ma scendiamo nei particolari.
Due aspetti connotano la Bologna quattrocentesca: le vicende storico-politiche e la caratterizzazione della «religione civica» da tempo già affermatasi nel sentire comune dei ceti urbani.
Il primo aspetto, dominato dalle sempre difficili relazioni fra l’autorità episcopale e le autorità civili locali e romane, tende a una forma di governo misto, cioè una ricerca di consenso reciproco voluta dai «Capitoli» di Niccolò V.
Figura di spicco è il legato, così voluto dalla Santa Sede, al di sopra delle aristocrazie locali e del clero, tanto influente e autonomo da assommare a sé anche l’ufficio pastorale del vescovo.
Ben presto le aristocrazie cittadine, spettatrici dei conflitti fra la città e il pontefice, si fecero latrici di una nostalgia del regime passato, proponendosi a mediazione di tali difficili e delicate relazioni.
Corrispose a questo sentimento anche il consolidamento della «religione civica » e i suoi propositi.
Con l’istituzione delle processioni, mariane in special modo, al cui potere di intercessione ci si affidava regolarmente e in tempi di necessità, si manifestò la consistenza della pietà cittadina; e non è un caso che non soltanto il clero, ma tutta la città, si impegnò per l’organizzazione e il decoro della discesa periodica della Madonna di San Luca.
Un momento caldo di religione civica si ebbe nelle fasi del processo che portò la nobile Caterina de’ Vigri all’onore degli altari, culminato soltanto nel XVII . con l’ennesimo tentativo, questa volta a cura del Senato in ogni suo gravame.
Esso accompagna a momenti alterni tutta la storia bolognese dal XV al XVIII sec., e per questo è espressione eminente del senso civico che pervade il culto di queste figure di santità locali.
Tra gli echi definitivi della cacciata dei Bentivoglio (1512), è il nome Campeggi che inizia la sua ascesa in Bologna.
Nel 1523 fu eletto alla sede episcopale il cardinale Lorenzo Campeggi (1523-1539), già esperto delle faccende della curia e della diplomazia.
Il suo episcopato è costituito fondamentalmente da brevi soggiorni in città, mentre la Santa Sede lo inviava a dirimere questioni scottanti altrove, soprattutto nel nord Europa.
Fin dal 1526 fece funzione di vescovo di Bologna il successore, Alessandro Campeggi (1539-1553).
In questi anni la città risenti degli influssi della Riforma, favoriti dall’apertura e dalla vivacità intellettuale dell’università: denunce di svariati fuochi di eresia, elaborazioni teologiche, dure punizioni pubbliche e condanne a morte non si fecero attendere.
Alessandro è esempio di alto prelato pre- Tridentino, di quelli che utilizzavano la posizione per favorire la famiglia: non era quindi molto interessato alle questioni pastorali, alla residenza in loco, all’evolversi del concilio di Trento che nel frattempo era stato aperto.
Se non che nel 1547 il concilio si trasferì a Bologna e Alessandro non poté sottrarsi dall’ufficio di rappresentanza che gli competeva.
Nel 1553 prese il suo posto il cugino, Giovanni Campeggi (1553-1563).
Questi risedette a Bologna con una certa stabilità e, già dal 1553, diede avvio a una visita pastorale, affidata al gesuita Francesco Palmio, dalla quale emergono dati di degrado fisico, morale e culturale in ampia parte del clero.
In ottemperanza alla bolla Cum nimis absurdum di Paolo IV, il vescovo Giovanni attuò le norme della persecuzione antiebraica e la riduzione nel ghetto (nei pressi delle due torri).
Gli successe il cardinale Ranuccio Farnese (1563-1566): il suo fu un episcopato breve e giudicato ormai anacronistico.
La sede bolognese venne affidata a Gabriele Paleotti (1566-1597): laureato in diritto civile e canonico, aveva già tenuto lezioni nell’Università, ma nel 1555 era stato cooptato come uditore presso la Sacra Romana Rota.
In pochi giorni ricevette l’ordinazione sacerdotale (9 febbraio), fu consacrato vescovo (10 febbraio) e fece il suo ingresso a Bologna (27 febbraio), ponendosi così sulla linea della sollecitudine espressa in merito dal concilio di Trento.
Restano di lui molti documenti, fondamentali oggi per la ricostruzione storica della diocesi, fra cui l’Archiepiscopale Bononiense e il Governo Archiepiscopale di Bologna.
In essi l’esame della situazione diocesana prende avvio dalla cattedrale, si concentra sulla città e si muove poi in direzione delle campagne.
Per quanto riguarda la città, le parrocchie sono 64 (poche ormai erano assiduamente frequentate o con entrate garantite), una ventina le case di monache, una trentina gli ospedali.
Una questione a cuore al Paleotti fu il seminario, per cui si aspettavano concessioni e benefici dal papa in quanto non si avevano a disposizione sufficienti risorse economiche; nel 1573 gli studenti seminaristi erano diciannove.
Si mostrò deludente il progetto di favorire la dottrina cattolica nell’ambito universitario (a esempio con l’introduzione di materie teologiche).
Per quanto concerne il contado, rimase intatta la suddivisione tradizionale in pievi, il cui archipresbyter aveva poteri di visitatore per tutto il suo territorio.
Il vescovo Gabriele si occupò anche di riorganizzare il tribunale, strutturandone di nuovo accuratamente gli incarichi.
Affrontò una crisi economica interna, prendendo la saggia decisione di scindere le questioni pastorali dai problemi di carattere temporale ed economico e affidando queste ultime a figure di economi ed elemosinieri, che, tenendo dietro alle spese, non dimentichino il servizio della carità e l’accoglienza dei bisognosi.
Moltissimi i sinodi, 28 in 31 anni di episcopato, momenti in cui, al di là delle decisioni e delle formulazioni giuridiche, il vescovo si riuniva con il suo clero, nel lavoro e nella preghiera comune.
Nel 1575 Paleotti inviò alla diocesi una lettera pastorale in cui invitava i laici a sentirsi parte attiva del corpo ecclesiastico e li esortava a partecipare agli impegni e alle questioni diocesane: fu forse questa concezione di Chiesa, in cui tutti, laici, clero e vescovo devono sentirsi impegnati nella comune sequela Christi (una sorta di attivazione del laicato e di contaminazione della Chiesa), che gli causò le più dolorose delusioni nel comunicare con un laicato non ancora pronto a questa profonda conversione e cambiamento di mentalità, concezione di Chiesa per altro nemmeno accettata dal clero.
Del resto, nonostante le spinte di molte Chiese locali in sede conciliare, restarono sugli stessi toni i rapporti, con presunzioni e ingerenze, di Roma.
Aspri furono gli attriti del vescovo Gabriele e del rappresentante del governo pontificio, Giovanni Battista Doria, fra il 1566 e il 1570; ogni qualvolta il vescovo cercava un appoggio romano incontrava sempre crescente ostilità.
Dal viaggio a Roma del 1582-1583 riportò a Bologna un risultato non da poco: Bologna venne elevata a sede arcivescovile e il suo titolare diventò metropolita su Piacenza, Parma, Reggio, Modena, Imola, Cervia e Cremona; non rimasero silenziose le proteste del vescovo di Ravenna, il quale vide pesantemente decurtate le sue suffraganee.
Gabriele Paleotti, infine, concluse la sua esistenza terrena in Roma nel 1597, da dove venne portato cadavere a Bologna per i solenni funerali il 20 aprile 1598.
Era la fine del secolo.
Il Seicento bolognese si inserisce nel lento decadimento del ruolo episcopale, salvi alcuni punti fermi dell’episcopato Paleotti, che non poteva essere così facilmente accantonato.
Figura di spicco nella cronotassi dei vescovi di Bologna, a cavallo dei secoli XVII e XVIII, è Giacomo Boncompagni (1690-1731), la cui elezione pose fine al periodo di vacanza della sede durata sei anni.
Il suo episcopato è contrassegnato da un notevole impegno pastorale, caratterizzato da numerose e accurate visite, sinodi, incitamenti alla predicazione e alle missioni, legato inevitabilmente ai dettami del concilio di Trento e a figure di santi quali il vescovo Carlo Borromeo.
La sua, quindi, si configura come una pastorale fortemente suggestionata da modelli tridentini, che in Bologna finirà per indicare nel Paleotti l’esempio ideale del pastor bonus.
Il 25 settembre 1690, a poca distanza dall’ingresso in diocesi, Boncompagni diede inizio alla visita pastorale, in cui ritroviamo una ricca e particolareggiata descrizione della comunità bolognese del tempo.
La situazione più difficile era nella zona appenninica, una desolata realtà di piccole parrocchie, con un clero relegato a vita di solitudine e sacrificio; forse anche per questo, rare sono le critiche riportate nei confronti dei parroci di montagna.
Un’attenzione particolare venne data dalla visita pastorale alle condizioni degli edifici e alle possibilità di miglioramento, come poi testimoniato dalla costruzione del santuario e del portico al colle della Guardia.
A cuore del vescovo Giacomo c’erano anche l’insegnamento e la trasmissione delle verità di fede, per mezzo della predicazione (affidata in particolare ai mendicanti) e resa popolare dalle missioni (di cui i gesuiti sono ancora esperti e validi protagonisti); i parroci, in una lettera del 1697, erano richiamati alla loro missione per raggiungere tutti i loro parrocchiani.
Misure pastoralmente edificanti e provvedimenti del tutto zelanti non bastano però a cambiare la situazione: sembra che all’entusiasmo di scoprire la realtà non corrisponda poi da parte di nessuno un vero desiderio di mutamento che non imprigioni tutto nell’impotenza istituzionale che invece si stava registrando.
Nel 1731 venne richiamato a Bologna il vescovo di Ancona, Prospero Lambertini (1731-1754), poi papa Benedetto XIV, mentre ancora governava nella città.
Anch’egli scelse, fra i primi atti di episcopato, la visita pastorale, confermando la scelta dei predecessori verso questa efficace forma di conoscenza della diocesi.
Da essa si vede subito la temperie pastorale di un simile personaggio, che assai di rado si allontana da Bologna negli anni dell’episcopato: la distensione dei rapporti con il potere civile e un fermo desiderio di sollevare il clero dall’ignoranza e dalla povertà spirituale erano fra i suoi obiettivi più pressanti.
Quest’ultimo aspetto non gli ottenne certo il favore di tutto il clero, ma il metodo scelto dal vescovo Prospero riuscì a dare un largo respiro alla sua opera: con la formulazione di obblighi solo a partire da una valida riflessione storica e giuridica, dal valore della tradizione locale, dal lavoro personale di persuasione sembrò recepire le esigenze di quei tempi.
Il vescovo, inoltre, mostrò tutta la sua attenzione verso la vita culturale di Bologna e si circondò di grandi nomi del tempo come esperti e amici personali.
Una volta eletto al soglio pontificio, non mancò di esercitare un controllo su Bologna, anche grazie ai vescovi suffraganei Scarselli e Sega: la stessa decisione di rimanere allo stesso tempo vescovo di Bologna è dovuta a motivi di ordine temporale a favore della cattedrale bolognese.
Nel 1743 fece costruire una nuova sede per il seminario, che affidò alla cura dei padri barnabiti, per la formazione, pur minima che fosse, del futuro clero bolognese.
Prospero Lambertini lasciò così a Bologna la figura decisa di vescovo dalla parte di una «teologia pratica», che tiene insieme la moderazione pastorale e la tradizione locale.
Il suo episcopato doveva trovare sintesi in un sinodo, che però non è stato possibile celebrare per ragioni di tempo: nel 1740, tuttavia, Benedetto XIV promulgò l’enciclica Ubi primum, che riprende ampi stralci dalla sua esperienza di vescovo nella città di Bologna.
Lambertini pose a suo successore il cardinale Vincenzo Malvezzi Bonfioli (1754- 1775): fu un episcopato che mantenne Bologna fuori dagli umori di quegli anni cruciali che preparavano la rivoluzione in Francia.
Prese il suo posto, nel 1776, Andrea Gioannetti (1776-1800), che si pose sulla linea del riformismo esausto di Pio VI, arricchito però dalla personale esperienza monastica camaldolese.
Debilitato dalla stanchezza e dalla malattia, un uomo pessimista, sfiduciato nei confronti del mondo in cui vive, rassegnato a intravedere come unica valvola di sfogo la pietà e la devozione, gli toccò in sorte il far da guida alla Chiesa bolognese negli anni della Rivoluzione francese e della successiva discesa in Italia dell’esercito napoleonico, un castigo di Dio – a suo dire – per la poca fede del mondo.
Primo esito della rivoluzione fu l’arrivo di molti religiosi francesi in fuga: Bologna, con Roma, Perugia, Viterbo e Ferrara, era stata indicata dalla Santa Sede per l’accoglienza di questi esuli, che però nessuno voleva né riusciva a controllare.
Il 20 giugno 1796 Napoleone raggiunse Bologna, segnando una prima fine del dominio del papa.
Il vescovo Andrea chinò il capo ai nuovi venuti e invitò la popolazione a fare altrettanto; ma quando Napoleone chiese a vescovi e parroci il giuramento di fedeltà alla Repubblica cisalpina, egli scelse la via del riserbo.
Gioannetti morì nel 1800, poco dopo la dipartita di Pio VI, suo punto di riferimento.
Il 14 marzo 1800 era stato eletto papa Pio VII, Barnaba Chiaramonti, vescovo di Imola.
IV - L’epoca contemporanea da Napoleone ai nostri giorni
Il periodo dal tramonto del vecchio regime fino agli anni Sessanta del Novecento – di recente oggetto di attenti studi da parte di G.Battelli –, è senz’altro uno dei più difficili per la storia della Chiesa bolognese.
Dapprima il periodo napoleonico con le ristrutturazioni, le soppressioni e l’impiego del personale ecclesiastico per scopi politici-ideologici portò a resistenze più o meno larvate da parte del clero e all’imprigionamento dell’arcivescovo bolognese, il cardinale Carlo Opizzoni, trattenuto con la forza in Francia (assieme al papa) fino al 1814; poi, qualche decennio più tardi, il movimento patriottico di unità nazionale, accolto negli ambienti curiali dapprima con perplessità e ondeggiamenti, poi con sempre più manifesta ostilità a causa della perdita delle prerogative temporali della Santa Sede che essa comportava.
Un momento difficile si ebbe anche, fra Otto e Novecento, per l’avanzata dell’ideologia socialista e delle istanze critiche germinate in seno alla cultura cattolica – il cosiddetto «modernismo» – alleviate appena da movimenti sorti tra le file del laicato cattolico, intrisi di chiusura e di intransigenza (diverso il discorso per la compagine minoritaria della Democrazia cristiana murriana), capaci di dare timide risposte d’apertura, di dialogo e di volontà di adeguamento, attraverso la conquista di spazi sociali e istituzionali, frutto di un più moderno apostolato (favorito dagli arcivescovi Morichini, Battaglini e Svampa e, dietro di loro, dalla dottrina sociale cattolica di Leone XIII).
Difficile anche il ventennio fascista e ancor più la stagione postbellica.
Una pagina di buona vitalità, anche se di breve durata, è scritta durante gli anni del rinnovamento del concilio Vaticano II da Giacomo Lercaro, uno dei sostenitori e attori del concilio, promotore di una pastorale di superamento della dura intransigenza, ma anche, come dice Battelli, di mobilitazione e di presenza; i tempi, però ancora fortemente contrassegnati dalle ipoteche dell’ideologia socialcomunista e dal richiamo dell’incipiente consumismo e del materialismo tecnologico e, in aggiunta, dal calo delle vocazioni, non hanno permesso a Lercaro di raccogliere i frutti di tale rinnovamento pastorale.
All’inizio dell’Ottocento la Chiesa bolognese attraversò una stagione di forte instabilità, legata alla cessazione del governo pontificio e all’erezione della Repubblica cisalpina.
Dal 1803 al 1855 fu arcivescovo di Bologna il cardinale Carlo Opizzoni.
L’aumento della popolazione e la diminuzione del clero lo portarono, nel 1806, a ridurre il numero delle parrocchie.
Questo progetto incontrò il favore del governo napoleonico, che voleva estendere anche ai territori italiani la semplificazione della struttura amministrativa ecclesiastica già adottata in Francia.
Questa migliore distribuzione delle forze a disposizione, però, portò con sé, per effetti negativi, la riduzione della presenza pubblica degli ordini religiosi, il malumore dei parroci secolari cui fu tolta la cura, la perdita di identità storica per quei fedeli che si trovarono improvvisamente inseriti in una parrocchia diversa da quella fino ad allora frequentata.
L’arcivescovo sembra uscire da questa situazione con un attivo bilancio personale: agli occhi del clero bolognese, infatti, egli non risultava il principale responsabile degli aspetti negativi ricordati, in quanto si era addirittura prodigato per ridimensionare l’originario progetto napoleonico.
Nonostante ciò, Opizzoni, nel maggio del 1806, manifestò al segretario di Stato Consalvi il desiderio di lasciare la guida della diocesi; Roma lo esortò a continuare il proprio episcopato bolognese.
L’arcivescovo accettò, ma, da questo momento, rinunciò a ogni tipo di resistenza e cercò di instaurare una convivenza pacifica con il governo napoleonico, anche perché, ai suoi occhi, il Bonaparte incarnava quell’immagine di uomo d’ordine, sostanzialmente rispettoso della Chiesa, che la Rivoluzione francese sembrava aver definitivamente cancellato.
Questa linea, improntata alla sostanziale sottomissione alle autorità civili, non risultò alla lunga pagante: alla fine del 1809 Opizzoni, essendosi rifiutato insieme a dodici cardinali di partecipare alle seconde nozze dell’imperatore, venne privato delle insegne cardinalizie e costretto a rimanere in Francia fino al termine dell’occupazione napoleonica in Italia nel 1814.
Tornato a Bologna, Opizzoni dovette impostare ex novo il proprio governo diocesano: il suo obiettivo centrale era il riassetto complessivo della diocesi dal punto di vista istituzionale, disciplinare e pastorale.
Per quanto riguarda i religiosi, riaprì una ventina di case, contro la settantina di fine Settecento, ma a nessuno dei religiosi riammessi in diocesi venne affidata la gestione di una parrocchia.
Per quanto riguarda il clero secolare, fece decadere dall’incarico le fabbricerie parrocchiali istituite durante il decennio napoleonico, ma non lasciò ai curati la piena libertà di gestione del beneficio, limitandola mediante l’introduzione di un duplice filtro: a livello periferico, con l’affiancamento al parroco di parrocchiani laici incaricati di ratificare le spese; a livello centrale, con l’istituzione della «Congregazione consultiva», avente il compito di dare suggerimenti all’arcivescovo su tutta la materia amministrativa diocesana e di intervenire nella gestione beneficiale periferica, verificando ogni anno i bilanci parrocchiali.
In ambito pastorale Opizzoni desiderava far ritornare il sacro al centro della vita bolognese: ripristinò alcune festività soppresse, i biglietti pasquali, la pratica degli addobbi; nel 1818 indisse la visita pastorale.
In particolare, considerava la devozione alla Madonna di San Luca il segnale indicatore della religiosità popolare della sua gente.
Ma la Chiesa bolognese cercava anche altre strade per riaffermarsi all’interno della società civile: durante le celebrazioni religiose, accanto all’arcivescovo e al cardinale legato, vi erano le maggiori autorità cittadine; Opizzoni fu nominato dal papa arcicancelliere dell’università.
Anche se l’arcivescovo sembrava sinceramente interessato a elevare il livello culturale del clero bolognese, lo spazio riservato alla circolazione delle idee e all’attività culturale era assai modesto: l’avvento di pontefici conservatori come Leone XII e Gregorio XVI accentuarono il suo intransigentismo e lo portarono a denunciare con forza la depravazione dei tempi moderni e il pericolo di una cultura non mediata dal filtro della fede e della morale cristiana.
Nella primavera del 1848 la diocesi sembrava davvero difficilmente governabile: solo uno sparuto numero di sacerdoti, concentrati nella zona di Cento, si mostrò esplicitamente favorevole alla causa nazionale che entusiasmava gli animi dei bolognesi, mentre il resto del clero era sostanzialmente diffidente.
I barnabiti U.
Bassi e A.
Gavazzi enfatizzarono nei loro discorsi l’inerzia dei sacerdoti bolognesi di fronte alla questione nazionale.
I parroci più autorevoli della città chiesero allora una pubblica difesa da parte dell’arcivescovo.
Questi, sentendosi stretto fra due posizioni contrapposte, cercò di mantenere una posizione intermedia, ma, nell’estate del 1849, mentre Bologna era sottoposta all’occupazione austriaca, Opizzoni si sbilanciò, invitando i fedeli a dimenticare le parole di U.
Bassi e A.
Gavazzi: il clero urbano era soddisfatto, ma la popolazione aveva la netta sensazione che la Chiesa si fosse definitivamente compromessa con gli occupanti.
Alla morte di Opizzoni, divenne arcivescovo di Bologna Michele Viale Prelà (1855-1860), più conservatore del suo predecessore e anche più ostile al movimento unitario.
Nonostante ciò, le sue scelte pastorali erano in continuità con quelle di Opizzoni: la visita alla diocesi si svolse secondo i criteri ispettivi e disciplinari del suo predecessore; le lettere pastorali denunciavano la nefandezza dei tempi moderni e esortavano alla devozione mariana.
Il clima politico, però, era ancora caldo: benché il soggiorno di Pio IX a Bologna, nell’estate del 1857, suscitasse l’entusiasmo popolare, non soddisfò le élites cittadine, che, due anni più tardi, quando gli austriaci lasciarono la città per partecipare alla nuova guerra contro il Regno di Sardegna, installarono una giunta provvisoria e dichiararono la cessazione del governo pontificio; le istituzioni pubbliche di istruzione, assistenza, detenzione, fino a questo momento appartenute allo Stato pontificio, vennero secolarizzate; furono anche annullati i privilegi di cui godeva il clero: il foro ecclesiastico, l’immunità, il diritto d’asilo.
Anche se il Prelà aveva invitato il clero a mantenere un atteggiamento di formale estraneità rispetto alle questioni politiche incombenti, alcuni sacerdoti, in occasione della Pasqua del 1860, negarono i sacramenti a coloro che avevano collaborato alla fine del governo pontificio, mentre una piccola minoranza del clero liberale accettò di celebrare il Te Deum richiesto dalle autorità civili.
Nel frattempo i docenti della facoltà teologica vennero sollevati dall’incarico e la stessa facoltà fu soppressa; trentacinque sacerdoti della diocesi furono arrestati e mandati in esilio, tra cui il pro-vicario Ratta.
Viale Prelà morì nel maggio 1860; due anni dopo anche il vicario capitolare A.
Canzi, cui era affidato il compito di reggere la diocesi in attesa della nomina del nuovo arcivescovo, fu arrestato.
Nel 1863 il domenicano Filippo Maria Guidi (1863-1871) fu eletto arcivescovo di Bologna, ma non ottenne l’exequatur, per cui non poté prendere possesso del palazzo episcopale e della dotazione connessa al suo incarico; rinunciò alla diocesi nel 1871.
A partire dal 1870 il fenomeno della cosiddetta «intransigenza» assiste a un progressivo smorzarsi.
Le ragioni di questo parziale mutamento di tendenza sono legate al costituirsi di un’informale alleanza tra liberali moderati e cattolici, allo scopo di riconquistare l’amministrazione municipale al fronte più conservatore.
Nel 1872 si ebbe l’arrivo del nuovo arcivescovo Carlo Luigi Morichini (1872-1877), un ecclesiastico equilibrato e relativamente estraneo alle controversie politiche.
Egli diede immediatamente inizio alla visita pastorale, non straordinariamente diversa da quella di Viale Prelà, ma, rispetto a quest’ultima, più attenta alle questioni espressamente pastorali.
Ne risultò la divaricazione nella pratica religiosa tra la città e la zona extraurbana della diocesi; in particolare, quest’ultima aveva visto fiorire la santità semplice e contadina di Clelia Barbieri.
Morichini si accorse, quindi, che non era più sufficiente leggere la situazione alla luce del dualismo Paese legale-Paese reale, secondo lo schema caro agli intransigenti; occorreva, piuttosto, prendere atto dell’esistenza di una crescente differenziazione tra Chiesa di città e Chiesa di campagna.
Per fronteggiare tale congiuntura, la Chiesa di Bologna poteva disporre di strumenti nuovi rispetto a quelli di cui si era potuto servire Viale Prelà: il laicato cattolico, guidato dai vari G.
Acquaderni, A.
Malvezzi Campeggi, A.
Rubbiani, A.
Sassoli Tomba, M.
Venturosi, con i loro organismi, quali l’Associazione cattolica per la difesa della libertà della Chiesa in Italia, la Società della gioventù cattolica italiana, l’Opera dei congressi, la Lega O’- Connell.
Nel corso degli stessi anni Settanta, Bologna diventò inoltre uno dei centri propulsori del ritorno al pensiero filosofico di san Tommaso, grazie alla nascita in città dell’Accademia filosofico-medica di san Tommaso d’Aquino e alla pubblicazione del periodico «La Scienza italiana ».
Nell’inverno 1876-1877, a causa del protrarsi di una condizione fisica particolarmente precaria, Morichini lasciò la guida della diocesi.
L’indirizzo moderato che aveva caratterizzato il suo episcopato fu mantenuto anche dai suoi immediati successori, Lucido Maria Parocchi (1877-1882) e Francesco Battaglini (1882-1892), anche se secondo due linee di governo diverse: Parocchi giunse a Bologna con una larghissima fama di intransigente, mentre Battaglini era noto in città per aver a lungo insegnato filosofia in seminario.
Parocchi richiamò la classe dirigente all’obbedienza a Dio e al papa, ordinò al clero di non pregare per il re Vittorio Emanuele II morente e si assentò da Bologna in occasione della visita dei nuovi sovrani; le difficoltà determinate dal mancato exequatur lo portarono a chiedere il trasferimento, ottenuto nel 1882.
Battaglini invece ottenne l’exequatur in breve tempo; il suo episcopato rappresenta il definitivo superamento dell’intransigentismo bolognese più duro.
Il quadro di fronte al quale nel 1894 si trovò ad agire Domenico Svampa (1894- 1907) all’inizio del ministero episcopale aveva dei contorni certamente non negativi, ma nemmeno del tutto rassicuranti: la popolazione aumentava, il clero secolare e regolare diminuiva, nascevano due nuove congregazioni religiose – le mantellate e le minime dell’Addolorata –, la presenza delle organizzazioni del laicato cattolico era vivace.
Ottenuto l’exequatur, mise mano a un fare pastorale in piena consonanza con il disegno papale di Leone XIII: abbandonò la protesta contro i soprusi patiti dalla Chiesa nel corso del secondo Ottocento e mirò a una nuova cristianizzazione della società, attraverso una conquista cattolica di spazi sociali e istituzionali.
Entrambi questi obiettivi richiedevano un adeguamento della diocesi, sia istituzionale che pastorale.
Svampa cominciò nel segno della tradizione, effettuando la visita pastorale, con ritmi però meno incalzanti dei suoi predecessori.
Nel frattempo concentrò la sua attenzione su una serie di interventi: introdusse norme chiare per regolare lo svolgimento dei concorsi per la collocazione delle parrocchie, richiamò i sacerdoti alla pratica degli esercizi spirituali, sottolineò l’importanza di affiancare alle qualità religiose una solida cultura, desiderò che i vicari foranei fungessero da vero e proprio anello di congiunzione nella struttura istituzionale della diocesi ponendosi a metà strada tra il governo centrale e la rete periferica del clero parrocchiale, ampliò il numero degli ordini femminili presenti in diocesi, accolse a Bologna i salesiani – riconoscendo così la grande importanza dell’apostolato rivolto verso i giovani.
Svampa dimostrò di essere un vescovo capace di guardare al nuovo secolo senza pregiudizi, desideroso di creare una nuova alleanza, mediante una proposta religiosa dai contenuti indiscutibilmente tradizionali.
Tale proposta venne ulteriormente ribadita dalla fondazione del periodico «Il secolo del S.
Cuore di Gesù», diretto e scritto dallo stesso Svampa.
Fin dal proprio arrivo in diocesi, l’arcivescovo tentò il superamento delle divisioni ancora presenti all’interno dell’associazionismo cattolico.
I risultati furono soddisfacenti e portarono tra l’altro, nel 1895, al primo successo dei cattolici petroniani nelle elezioni amministrative, con il conseguente ritorno alla piena attività di G.
Acquaderni, grazie al quale furono fondati il quotidiano «L’Avvenire» e la banca cattolica «Piccolo Credito romagnolo ».
Nel 1907 Pio X, succeduto a Leone XIII, pubblicò l’enciclica Pascendi, con la quale condannava il modernismo.
Il fenomeno non sembrava interessare Bologna: l’incremento degli studi favorito da Svampa si muoveva all’interno di un impianto tradizionale, concentrato attorno al tomismo in filosofia e alle tesi del Vaticano I in ecclesiologia.
Nonostante ciò, il sospetto di infiltrazioni moderniste sfiorò anche Bologna, interessando, tra l’altro, due giovani professori di seminario.
Nel febbraio del 1908 giunse a Bologna il nuovo arcivescovo, Giacomo Della Chiesa (1908-1914): questi tentò di proseguire la mediazione tra Roma e il proprio clero in ordine ai presunti episodi di modernismo, si prese a cuore l’associazionismo cattolico, cercò di spostare l’asse delle priorità diocesane da un piano sociale e politico a un piano più prettamente religioso attraverso la proposta di un messaggio improntato a tematiche spirituali e ascetiche e il sostegno a iniziative volte in particolare al rilancio della catechesi.
Della Chiesa sembrava voler continuare l’opera del predecessore, pur attenuando gli slanci che avevano reso caratteristico l’episcopato «leonino» di Svampa, ma che da ultimo avevano allarmato Roma.
Della Chiesa, inoltre, mise a fuoco alcuni aspetti emersi già in precedenza, che ora incidevano in modo decisivo sulla vita della diocesi: gli spostamenti della popolazione nelle campagne e in montagna mettevano in discussione l’efficacia delle antiche circoscrizioni parrocchiali e vicariali; l’abbattimento delle mura del Trecento resero necessario un riesame dei confini delle parrocchie urbane ed extraurbane.
Eletto papa, Della Chiesa lasciò Bologna e gli succedette Giorgio Gusmini (1914-1921); nella sua prima lettera pastorale egli affermava che la causa della scristianizzazione era il carattere prevalentemente esteriore della religiosità delle popolazioni.
Successivamente l’arcivescovo parlò di una pratica religiosa ormai essenzialmente al femminile e di una società secolarizzata prevalentemente maschile.
La via che egli indicava per superare questa congiuntura era il ritrovamento di un vero spirito cristiano, mediante gli strumenti della istruzione religiosa e della educazione alla vita cristiana.
L’entrata in guerra dell’Italia nel maggio 1915 impedì l’attuazione di questo progetto pastorale.
Tra la fine della guerra e il 1922 il massimo impegno venne rivolto ad arginare l’affermazione del socialismo mediante la pubblicazione di documenti, l’orientamento dell’elettorato cattolico, i richiami ai giovani bolognesi.
La Chiesa petroniana cercava di conservare un proprio ruolo autonomo di fronte al cozzo tra la Bologna rossa, ulteriormente consolidata dopo l’affermazione elettorale socialista del 1919-1920, e la Bologna prefascista dei grandi proprietari terrieri e della borghesia cittadina; non mancarono, da parte di Gusmini, i richiami al rischio della guerra civile e gli inviti pressanti alla pacificazione.
Dal gennaio del 1922 al marzo del 1953 fu arcivescovo di Bologna Giovanni Battista Nasalli Rocca.
L’esordio del suo episcopato fu in piena continuità con il magistero del suo predecessore, sia nei richiami alla pacificazione, sia nell’attenzione al problema sociale.
La salita al potere di Mussolini per Nasalli Rocca era una garanzia contro l’affermarsi delle sinistre.
La Chiesa poteva, quindi, tornare in sacrestia e concentrarsi sulla scelta religiosa.
L’arcivescovo, di conseguenza, ripristinò nella campagna alcuni edifici sacri, favorì il ritorno alle pratiche devote più tradizionali, in città organizzò manifestazioni pubbliche molto partecipate, tra cui va ricordato il IX congresso eucaristico nazionale, tenutosi a Bologna nel 1927.
Nasalli Rocca, dopo questo evento, decise di celebrare ogni dieci anni un congresso eucaristico diocesano, preparato da un congresso eucaristico zonale, celebrato ogni anno in una delle dieci zone in cui era divisa la diocesi: culto eucaristico e catechesi diventarono i punti di riferimento essenziali del programma religioso dell’arcivescovo.
La sua attenzione era anche catalizzata dalla necessità di intervenire sulla struttura istituzionale della diocesi, sia per adeguarla alla recente normativa del Codice di diritto canonico, sia per consentire il migliore utilizzo possibile delle opportunità offerte dal concordato.
Nasalli Rocca, quindi, riformò la curia, modellandola su quanto decretato in proposito dal Codice, procedette a una vasta campagna di sensibilizzazione per alimentare nuove vocazioni sacerdotali, diede inizio ai lavori di costruzione di un nuovo seminario diocesano sulla collina di San Michele in Bosco, risistemò l’assetto territoriale dei vicariati foranei per adeguarli alle mutazioni sociologiche intervenute, riammise i religiosi nella cura d’anime mediante l’affidamento di talune sedi vacanti.
Nel frattempo i rapporti con il governo italiano continuavano a essere caratterizzati dall’entusiasmo, turbato, solo momentaneamente, dalla decisione di Mussolini di introdurre le leggi razziali.
Al contrario, lo stesso coinvolgimento dell’Italia nella seconda guerra mondiale fu accolto dall’arcivescovo con toni fiduciosi e provvidenziali; dopo l’8 settembre le sue parole sembrano presagire il rischio incombente della guerra civile.
Nei mesi finali del 1943 la Chiesa bolognese si mobilitò per rispondere alle diverse urgenze determinate dall’evolvere della guerra: il sostegno alla popolazione, il tentativo di ottenere per Bologna la qualifica di «città aperta», la mediazione tra autorità tedesche e formazioni partigiane, il contributo di sacerdoti e laici cattolici alla lotta partigiana.
La vicinanza del clero bolognese alla popolazione divenne particolarmente evidente nell’autunno del 1944, quando don Giovanni Fornasini, don Ubaldo Marchioni, don Ferdinando Casagrande affrontarono la morte per mano tedesca nella zona di Marzabotto, per non abbandonare la loro gente.
Anche dopo la liberazione, alcuni sacerdoti persero la vita, perché considerati ex fascisti.
Dopo la guerra Nasalli Rocca si ripiegò sui temi della penitenza e della morte; a questo periodo è legato il suo ricordo come di un vescovo paterno.
Intanto a Bologna prese avvio la «Città dei Ragazzi» di don Olinto Marella, che per i suoi poveri si fece mendicante: la sua opera continua ancora e i beneficiati sono chiamati affettuosamente «i ragazzi di padre Marella».
Attualmente l’opera diversifica la propria attività su tutto il territorio della provincia di Bologna attraverso la costruzione e la gestione di case-famiglia, strutture di accoglienza e comunità terapeutiche.
L’opera gestisce inoltre il Centro di Via del Lavoro a Bologna che funge da «pronto soccorso sociale per l’emarginazione » e che grazie alla raccolta dell’usato offre una forma protetta di avviamento al lavoro a persone in difficoltà.
Al suo arrivo a Bologna, Giacomo Lercaro (1952-1968) si trovò di fronte a due grandi problemi: la situazione istituzionale della diocesi e il predominio delle forze politiche di sinistra.
Quanto al primo problema, l’arcivescovo ridisegnò i vertici della struttura diocesana, non per adattarli ai propri criteri di governo ma per produrre un inevitabile ricambio generazionale; lo dimostra il fatto che Lercaro confermò cancelliere della diocesi Gilberto Baroni, nominandolo poi vicario generale e vescovo ausiliare.
Se l’arcivescovo prese a cuore la pastorale e il confronto tra Chiesa e società, Baroni si concentrò sul ruolo di vicario generale, cosicché una parte rilevante del clero mantenne rapporti di maggior familiarità con quest’ultimo.
Le iniziative di Lercaro furono molteplici: l’impegno per la costruzione di nuove chiese nella periferia della città, le svariate occasioni di incontro con la popolazione anche al di fuori dell’edificio sacro, le missioni della «Pro civitate christiana» di Assisi.
Quella di Lercaro era una tipica pastorale di mobilitazione e di presenza: presenza dei cattolici in occasione della posa dei simboli della fede cristiana nella nuova periferia della città, presenza dei fedeli in processione per le vie del centro storico a ricordare alla città i momenti più importanti dell’anno liturgico, presenza dell’immagine della Madonna di San Luca in ogni luogo della diocesi attraverso la Peregrinatio Mariae, presenza della Chiesa attraverso la manifestazione del proprio dissenso di fronte a episodi quali l’internamento del cardinale Wyszyn´ski, l’invasione sovietica dell’Ungheria, la condanna del vescovo Fiordelli.
Lercaro tentò persino di rovesciare la maggioranza politica locale con la candidatura dell’ex vicesegretario della Dc Giuseppe Dossetti, alle elezioni amministrative del 1956.
Ma l’arcivescovo utilizzò anche gli strumenti più classici della tradizione pastorale cattolica: il sinodo, la visita alla diocesi, le lettere pastorali.
Il calo della frequenza dei bolognesi alla messa domenicale e l’accoglienza del suo direttorio liturgico «A messa, figlioli » solo da parte del 10 per cento del clero parrocchiale, suscitarono in Lercaro una profonda amarezza e la determinazione ad assumere un atteggiamento pastorale diverso: smorzò il confronto diretto e polemico con le autorità politiche locali e prese atto della modesta capacità dei credenti a incidere sulla società.
Su tutto questo si sovrappose il coinvolgimento di Lercaro ai lavori del concilio Vaticano II, di cui divenne moderatore.
Questo stato di cose, protrattosi fino alla fine del 1965, determinò il congelamento della situazione presente a Bologna all’inizio dell’assise vaticana.
L’arcivescovo per due volte si dichiarò disposto a concludere il proprio governo episcopale, ma il papa lo invitò a rimanere a Bologna.
Lercaro interpretò questo gesto come un’estensione di fiducia e ripartì con slancio: la sua preoccupazione permanente era rivolta alla costruzione di nuove chiese nella periferia, allo sviluppo della sensibilità liturgica nella sua diocesi, al mantenimento delle manifestazioni pubbliche popolari, come l’arrivo in città dei magi per l’Epifania o la processione festante dei bambini per la domenica delle Palme.
Vi era tuttavia una novità: il ricorso alla collaborazione completa di Dossetti, nominato, alla fine del 1966, provicario generale in sostituzione del vicario Bettazzi.
La collaborazione con Dossetti fu importante per la tesi della «Chiesa dei poveri», enunciata dal cardinale Lercaro in seno al concilio Vaticano II, e per la «tematizzazione» della pace, altro aspetto innovativo nel magistero lercariano.
Ma questo possibile sviluppo della storia della Chiesa di Bologna è rimasto incompiuto, dato che il 12 febbraio 1968 Lercaro lasciò la guida della diocesi.
Ancora da studiare sono gli episcopati di Antonio Poma (1968-1983), Enrico Manfredini (1983), Giacomo Biffi (1984- 2004) e Carlo Caffarra (2004-).
Fitta è stata l’attività pastorale del cardinale Poma, divenuto nel 1972 anche presidente della Cei.
Significativa, per gli sviluppi successivi, l’erezione dello Studio teologico accademico nel 1978 come strumento della ricostituita conferenza episcopale dell’Emilia-Romagna; lo stesso è divenuto, nel marzo del 2004, Facoltà teologica della Emilia-Romagna.
Gli otto mesi di monsignor Enrico Manfredini, dal marzo del 1983 al 16 dicembre dello stesso anno, furono particolarmente intensi: promosse la costituzione di un Fondo di solidarietà per le famiglie provate dalla disoccupazione, visitò le Case della carità, presiedette con particolare attenzione, all’inizio di settembre, il ritiro annuale del clero diocesano dedicato all’approfondimento del nuovo Codice di diritto canonico, a ottobre guidò il pellegrinaggio diocesano a Roma per l’Anno Santo, il 14 dicembre celebrò la prima messa per l’inizio dell’Anno accademico, iniziativa da lui pensata e voluta e che persiste tuttora.
Il ventennio di Giacomo Biffi (1984-2004), «il più controverso dei cardinali italiani» (S.
Magister), è stato caratterizzato da numerose pubblicazioni di natura teologica e catechetica.
Una ampia antologia tematica della sua predicazione si trova in La meraviglia dell’evento cristiano (1995), Ripartire dalla verità (1997), Il Primo e l’Ultimo.
Estremo invito al cristocentrismo (2003).
I principali documenti pastorali (note pastorali, notificazioni, decreti ecc.) relativi al periodo di episcopato bolognese sono raccolti in Fonti Pastorali della Chiesa di Bologna.
I.
1984-1993 (1994); e nel Liber Pastoralis Bononiensis (2002).
Bibliografia
I. Cecchetti, Bologna, EC II 1792-1806;Lanzoni II 778-789;
F. Bonnard, Bologne, DHGE IX, 1937, 645-660;
A. Albertazzi, Il cardinale Svampa e i cattolici bolognesi (1894-1907), Brescia 1971;
L. Paolini-R. Orioli, L’eresia a Bologna fra XIII e XIV secolo, 2 voll., Roma 1975;
G. Ruggieri, Teologi in difesa. Il confronto tra Chiesa e società nella Bologna della fine del Settecento, Brescia 1988;
A. Benati, La Chiesa Bolognese nell’Alto Medioevo, in Storia della Chiesa di Bologna, a c. di P. Prodi-L. Paolini, Bologna-Bergamo 1997, I, 7-96;
G. Battelli, Fra età moderna e contemporanea (secoli XIX e XX), in ivi, I, 283- 372;
M. Fanti, Appendice I. Nota sull’organizzazione centrale e periferica della Diocesi di Bologna dal Medioevo ad oggi, in ivi, I, 373-383;
Id., Appendice II. Lista episcopale, in ivi, I, 384-387;
P. Golinelli, Santi e culti bolognesi nel Medioevo, in ivi, II, 11-43;
U. Mazzone, Dal primo Cinquecento alla dominazione napoleonica, in ivi, I, 205-282;
M. Tagliaferri, Vita pastorale e predicazione dalla rivoluzione francese ai nostri giorni, in ivi, II, 583-622;
A. Vasina, Chiesa e comunità dei fedeli nella diocesi di Bologna dal XII al XV secolo, in ivi, I, 97-204;
G. Zarri, Il libro e la voce. Santi e culti a Bologna da Caterina de’ Vigri a Clelia Barbieri (secoli XV-XX), in ivi, II, 45-78;
A. I. Pini, Città, Chiesa e culti civici in Bologna medievale, Bologna, 1999;
Istituto per la Storia della Chiesa di Bologna, Codice diplomatico della Chiesa bolognese: documenti autentici e falsi (secoli IV-XII), a c. di M. Fanti-L. Paolini, pref. di O. Capitani, Bologna 2004;
G. Battelli, I vescovi italiani e la dialettica della pace-guerra. Giacomo Lercaro (1947- 1968), «Studi Storici», 2, 2004, 367-417.
Sono visualizzati solo edifici per i quali si dispone di una georeferenziazione esatta×
Caricamento mappa in corso...
Caricamento dati georeferenziati in corso...
Mappa
Diocesi di Bologna
Chiesa di San Pietro
Diocesi
FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.