Diocesi di Siena - Colle di Val D'Elsa - Montalcino
STORIA
I - L’età medievale
La prima attestazione certa dell’episcopato senese risale al novembre del 465, quando il vescovo Eusebio intervenne a un sinodo romano.La fondazione della diocesi può tuttavia esser fatta risalire con sicurezza al secolo precedente.
Se incerta resta l’identificazione con Siena della sede del Florianus a Sinna attestato nel 313, una solida tradizione individua nel giovane romano Ansano, martire sotto Diocleziano, il battista della città.
Dagli atti della lunga vertenza che dal VII . oppose l’episcopato di Siena a quello di Arezzo per il controllo di una vasta fascia di frontiera tra le due diocesi apprendiamo come, a seguito della conquista longobarda, la sede vescovile senese sia rimasta vacante per circa un secolo, sino all’età di Rotari.
L’affermazione dell’episcopato dovette comunque essere tormentata già nella fase tardoantica, come sembra testimoniare l’assetto della distrettuazione ecclesiastica allora cristallizzatosi.
La Chiesa di Siena si impose infatti su un territorio piuttosto esiguo e dovette inoltre cedere, in età tardo-imperiale, all’espansione fiorentino-fiesolana che determinò, a settentrione, la discontinuità territoriale della porzione chiantigiana della diocesi.
Un rafforzamento di Siena come centro organizzativo del territorio si impose solo in età longobarda e quando, nel 650, il vescovo Magno rivendicò per la prima volta senza successo i baptisteria a occidente del confine diocesano, quell’area risultava già soggetta a Siena quanto alla giurisdizione civile.
Le molte iniziative con le quali, fra il VII e l’VIII sec., la Chiesa senese si sforzò di affermare la propria autorità su tale porzione del territorium cittadino appaiono in realtà strettamente legate alla politica di controllo territoriale messa in atto dalle aristocrazie longobarde della città, dalle cui file, del resto, anche i vescovi venivano reclutati.
Gli stessi gastaldi e altri esponenti dell’exercitus senese furono allora promotori di nuove chiese e fondazioni monastiche, tra le quali emerge il monastero suburbano di Sant’Eugenio in Pilosano, abbazia regia nei secoli centrali del Medioevo.
Più oscure le vicende dell’episcopato e della diocesi in età carolingia e ottoniana: le poche testimonianze superstiti documentano le iniziative dei maggiori lignaggi del senese, orientate alla dotazione di monasteri di famiglia, nessuno dei quali, peraltro, ubicato entro i confini della diocesi.
A tale attività restarono estranei i vescovi, che in questa fase non si segnalano tra i protagonisti della vita pubblica della marca.
Documentato è, invece, il loro controllo sulle strutture plebane del territorio; nel nucleo urbano l’inquadramento ecclesiastico faceva perno sul complesso cattedrale della sedes beate Marie, cui si affiancavano sei cardines suburbani direttamente collegati al vertice episcopale e altre chiese, legate ora all’autorità comitale ora a grandi abbazie del territorio.
Solo nel corso del XII . negli antichi borghi, ormai inseriti nel tessuto urbano, si sarebbe radicata la presenza di nuovi centri religiosi legati al monachesimo riformato camaldolese e vallombrosano.
Dalla fine del X . l’affermazione dell’autorità vescovile si era coniugata con la decisa ripresa urbana.
L’episcopato favorì allora l’introduzione di esperienze regolari di vita comune in primo luogo presso il clero della cattedrale – dove la canonica di Santa Maria si affermò rapidamente come importante centro culturale, oltre che pastorale – e quindi in altre chiese della città e della diocesi.
Mentre si saldavano i rapporti tra Siena e alcuni protagonisti del rinnovamento religioso del tempo, il collegamento con gli ambienti della corte imperiale portava sulla cattedra di Siena personaggi legati ai circoli riformatori tedeschi, che mantennero Siena ai margini dei momenti più apertamente conflittuali dello scontro tra i poteri universali e lontana dai toni virulenti cari alle avanguardie monastiche del riformismo toscano.
Si consolidava intanto l’affermazione signorile dell’episcopato attorno ai castelli di Crevole e Murlo, in quella «terra di Vescovado » su cui la cattedra affermò allora diritti di giurisdizione destinati a perdurare sino alla fine dell’età moderna.
Di segno diverso fu, invece, la preminenza che il vescovo esercitò in seno alla dinamica società urbana dell’età precomunale.
Nel 1106 il vescovo Gualfredo guidava la cittadinanza nella traslazione in cattedrale del corpo di Ansano, esprimendo così la solidarietà con i nascenti organismi del comune ripropostasi di lì a poco con l’energica ripresa della vertenza aretina (1124-1125).
Fin da queste prime battute dell’espansione senese sul territorio le istituzioni comunali, espressione di un’élite cittadina debitrice solo in minima parte della propria affermazione alla potenza vescovile, si mostravano largamente autonome dall’episcopato, il quale, dal canto suo, avrebbe mantenuto una rappresentatività effettiva del corpo politico cittadino solo per alcuni decenni.
Una stagione particolarmente vitale nella storia della Chiesa senese si aprì con l’ultimo quarto del XII . grazie a figure di vescovi di indiscusso prestigio provenienti dalle file del capitolo cattedrale: organismo che si segnala per l’elevato tenore culturale e il forte collegamento con le iniziative riformatrici promosse dal papato da Innocenzo III a Gregorio IX.
Prese forma in questo periodo il solidissimo assetto parrocchiale dell’organizzazione ecclesiastica cittadina, sul quale episcopato e capitolo paiono condividere un sicuro controllo, mentre il quadro della vita religiosa si arricchiva grazie all’insediamento di originali esperienze monastiche, degli ordini ospedalieri e militari e, quindi, delle religiones novae, il cui apporto non è limitabile al precoce e fecondo insediamento domenicano e minoritico in città.
Maturavano nel territorio, in stretto rapporto con l’episcopato, alcune delle esperienze eremitiche da cui sarebbe nato alla metà del Duecento l’ordine agostiniano, mentre parte del laicato cittadino trovava nell’attività assistenziale presso ospizi di antica o nuova fondazione un’occasione privilegiata di impegno religioso.
Proprio l’ospedale della cattedrale di Santa Maria, detto poi della Scala e precocemente assoggettato al controllo comunale, avrebbe costituito per tutto il basso Medioevo un vitale crocevia della vita religiosa senese.
Con i primi decenni del Duecento si esaurì il secolare progetto di espansione della circoscrizione diocesana: all’ambizioso e sfortunato impegno nella vertenza aretina delle pievi si affiancò, e poi si sostituì, il più circoscritto sforzo dell’episcopato per rivendicare alla propria giurisdizione le chiese d’insediamenti extradiocesani – Poggibonsi, Montalcino, San Quirico d’Orcia – divenuti nodi strategici dell’espansione politica senese.
Nel pieno Duecento, col trapasso al regime guelfo della «mezzana gente», gli uffici ecclesiastici vennero coinvolti nel nuovo gioco di ripartizione del potere, divenendo presto monopolio dei maggiori casati magnatizi esclusi dall’accesso diretto al governo cittadino.
La famiglia Malavolti emerse fin dalla metà del secolo, quando il potente canonico Rinaldo d’Orlando gettò le basi dell’affermazione che avrebbe portato il casato a occupare per circa un secolo la cattedra vescovile: tra essi si segnala solo il lungo governo pastorale di Donusdeo (1317-1350), cui si dovette tra l’altro la convocazione dei primi sinodi diocesani (1318-1336) di cui si conservino gli atti.
Si affermò così, nel corso del Trecento, un progressivo scollamento tra gli organismi di governo della pastorale e l’episcopato, ormai meno attivamente interessato alla realtà ecclesiastica locale e di contro maggiormente coinvolto in attività diplomatiche presso la corte pontificia per conto del reggimento cittadino.
Maturarono dunque dall’articolato tessuto della società urbana, più che dalle strutture della Chiesa locale che segnano il Trecento senese, le molte significative esperienze spirituali.
È il caso del movimento eremitico, iniziato nel 1319 da Giovanni di Mino Tolomei e da altri rampolli dell’aristocrazia cittadina, all’origine della congregazione benedettina di Monte Oliveto, oppure dell’originale esperienza di cui, a partire dal 1355, furono protagonisti il novesco Giovanni Colombini e la sua brigata dei pauperes Iesuati, o, ancora, del composito gruppo di discepoli raccolti attorno alla carismatica figura di Caterina Benincasa.
Rimangono tuttavia poco note le relazioni di questi e altri movimenti spirituali con le strutture ecclesiastiche locali, al cui effettivo funzionamento tra il XIV e il XV . si è prestata sinora scarsa attenzione.
Nel primo Quattrocento, segnato dall’impresa politico-ecclesiastica del concilio del 1423-1424, la cattedra di Santa Maria vide succedersi ecclesiastici forestieri ed esponenti autorevoli del patriziato cittadino, variamente coinvolti nel vitale circuito di relazioni culturali e diplomatiche caratteristico degli ambienti clericali dell’umanesimo senese.
In tale contesto emergeva, alla metà del secolo, l’episcopato di Enea Silvio Piccolomini, la cui elevazione al soglio pontificio avrebbe assicurato alla Chiesa senese, insieme con la promozione alla dignità metropolitana, la costante presenza alla sua guida di un membro di quel casato, sino almeno all’inoltrato Cinquecento.
II - L’età moderna
La storia moderna della Chiesa senese può essere letta come la sintesi di due percorsi concomitanti: la sostanziale tenuta della Chiesa cittadina, per tutta quest’epoca una robusta e ricca roccaforte del potere per un patriziato in profonda crisi politica e sociale, e un processo lento, ma sicuro, che ha condotto alla formazione di una provincia ecclesiastica estesa su tutto il territorio dell’antico dominio repubblicano.Due processi sostenuti da scelte politiche precise, operate dalla dinastia medicea.
Nello Stato Nuovo di Siena i ministeri fiorentini creati per la difesa delle cosiddette «pertinenze laicali» non esercitarono il loro potere almeno fino al governo di Cosimo III, che solo alla fine del Seicento unificò le competenze dell’Auditorato del regio diritto su tutto il territorio del suo dominio.
Per più di un secolo gli stessi compiti furono attribuiti al Concistoro, alla Balia e ai Quattro conservatori, cioè a quegli uffici nei quali potevano operare con ampia autonomia i membri del corpo politico cittadino di Siena.
Pur con qualche eccezione, sul lungo periodo si volle conservare non soltanto l’immagine, ma anche la realtà di un’ampia autonomia istituzionale, che salvaguardasse le «pertinenze laicali» dei nuovi sudditi su tutti i benefici ecclesiastici esistenti nel loro territorio, vescovati compresi.
In particolare, al magistrato della Balia fu demandata la scelta effettiva di quei candidati che poi il granduca presentava formalmente al pontefice.
Grazie a tale attività, il patriziato senese non ebbe alcuna difficoltà a imporre i propri rampolli sia sulla cattedra arcivescovile senese, sia su tutte le altre cattedre episcopali dello Stato Nuovo: nei quasi due secoli di dominio mediceo, su una novantina di prelati, fra arcivescovi e vescovi dello Stato Nuovo, una settantina erano nati a Siena o da famiglie senesi (per nove decimi dal patriziato) e più di una ventina erano già stati membri dei due capitoli canonicali cittadini, quello della cattedrale e quello della collegiata di Provenzano.
Quanto alla provincia ecclesiastica, istituita dal papa senese Pio II nel 1459, agli inizi dell’età moderna il lungo episcopato di Francesco Bandini impedì alla cattedra senese di partecipare da protagonista alla stagione tardocinquecentesca dei sinodi provinciali.
Solo tardivamente il cardinale oratoriano Sallustio Tarugi pubblicò gli atti di un concilio provinciale senese, celebrato alla fine del Cinquecento: da allora, però, gli arcivescovi di Siena usarono le loro prerogative di metropolitani non solo sui vescovi di Massa-Populonia, di Grosseto, di Sovana e di Chiusi, ma anche su quelli di Montalcino e di Pienza, che invece erano direttamente dipendenti dal pontefice.
In seguito, a consolidare il potere dell’arcivescovo senese intervenne la più generale riforma del granduca Pietro Leopoldo che, abolendo nel 1788 il tribunale della nunziatura apostolica, affidò a ciascuno dei tre metropoliti del granducato la giurisdizione d’appello sulle cause dei rispettivi vescovi suffraganei e su quelle decise in prima istanza o in appello da uno degli altri due metropoliti.
Quanto alla Chiesa senese, nel 1640 un decimo della popolazione adulta di Siena era costituito da religiosi, mentre nel resto del territorio diocesano (un’ottantina di «terre», borghi e villaggi) la presenza clericale si riduceva al parroco e a qualche cappellano-maestro.
La Chiesa cittadina senese presenta per tutta l’età moderna una grande ricchezza di istituti, ai quali corrispondeva certamente un flusso considerevole, anche se di difficile accertamento, di risorse economiche, accumulate nei secoli precedenti e consolidate da un lunghissimo periodo di pace.
Alla fine del Cinquecento, cuore delle istituzioni ecclesiastiche senesi era la cattedrale, sede della cattedra arcivescovile, la cui mensa rendeva circa tremila ducati l’anno, e di un numeroso corpo sacerdotale: cinque «dignità» e diciotto prebende canonicali (in un secolo cresciute di altre sei unità) e settanta cappellanie perpetue (un secolo dopo erano già centoventi, in larga misura di giuspatronato laicale), oltre ad alcune decine di uffici dipendenti dalla ricca Opera laicale e comunale.
Anche le altre cappellanie cittadine e rurali crebbero per tutta l’epoca moderna, passando da una dozzina a un centinaio.
Ma la grande novità della Chiesa cittadina senese della fine del Cinquecento fu la fondazione dell’insigne collegiata della Madonna di Provenzano: riccamente dotata e amministrata da un ministro secolare, il «rettore» nominato a vita dal granduca, alla fine del Seicento contava un numeroso corpo ecclesiastico, composto da tre dignità, undici canonicati (tredici un secolo dopo) e una dozzina di cappellanie (passate poi a diciannove), sui quali dominava incontrastato il giuspatronato laicale.
Quanto alle strutture della cura d’anime, dentro le mura cittadine vi erano la pieve battesimale di San Giovanni e altre ventiquattro (poi ventidue) chiese parrocchiali, delle quali cinque annesse a case di regolari, mentre nella campagna – masse comprese – si contavano una trentina di pievi e un’ottantina di altre chiese curate, ridotte successivamente a una sessantina.
Il carattere cittadino dell’organizzazione ecclesiastica si accentua se si esaminano le istituzioni regolari.
A parte tre abbazie in commenda, nel 1591 la diocesi di Siena contava diciannove fra monasteri e conventi maschili (tutti collocati fra la città, dieci, e i suoi sobborghi, gli altri nove) e, oltre il conservatorio delle «convertite», diciannove monasteri femminili, dei quali soltanto uno – «nobile ed antico» – si trovava fuori delle mura cittadine.
Durante la visita apostolica compiuta da Francesco Bossi, anche a Siena fu imposta la nuova disciplina della clausura, nonostante l’opposizione di molte monache.
La Chiesa senese annoverava anche un gran numero di luoghi pii laicali, come le fabbricerie, i conservatori, gli ospizi, i ricoveri e gli ospedali (primo fra tutti l’ospedale di Santa Maria della Scala), per non parlare delle innumeri confraternite laicali e della scuole della dottrina cristiana per ragazzi e ragazze.
Per una sessantina di anni, dal 1529 al 1588, fu arcivescovo Francesco Bandini, figlio di una sorella del suo predecessore, Giovanni Todeschini-Piccolomini.
Strenuo difensore della libertà repubblicana, dopo la conquista fiorentina si fece sostituire da tre vescovi coadiutori con diritto di successione: prima il suo giovane nipote Germanico dal 1560 al 1569, poi l’anziano arciprete Alessandro Piccolomini e infine quell’Ascanio Piccolomini che ebbe la fortuna di succedergli.
Quest’ultimo dovette accettare lo scorporo di alcune pievi a favore della nuova diocesi di Colle di Val d’Elsa e tentò di applicare la disciplina della Controriforma, suscitando aspri conflitti con il patriziato senese.
Maggiore successo non ebbe il cardinale oratoriano Francesco Maria Tarugi da Montepulciano (1597-1607), che scelse come collaboratore Giovanni Leonardi da Lucca, ma che dopo qualche anno preferì lasciare la cattedra senese.
L’iniziativa pastorale del Tarugi non ebbe grande seguito fra i suoi successori, che si avvicendarono a ritmo serrato, senza sostare a lungo nel governo spirituale della diocesi senese, a eccezione di Ascanio Piccolomini d’Aragona, che vi rimase per una quarantina d’anni, dal 1628 al 1671.
Con Leonardo Marsili (1682-1713) anche la Chiesa senese conobbe la «svolta innocenziana» in una stagione di aspri conflitti intorno alla giurisdizione spirituale fra Stato e Chiesa.
In epoca lorenese, di fronte al programma di riforme ecclesiastiche di Pietro Leopoldo, un atteggiamento prudentemente allineato con i colleghi di Firenze e di Pisa caratterizzò l’operato dell’arcivescovo Tiberio Borghesi, che pure sembrò favorevole al giansenismo, sia per il suo rigorismo, sia per i buoni rapporti con Fabio De’ Vecchi.
Poi, alla fine dell’età moderna, il suo successore Antonio Felice Zondadari (1795-1823) non seppe o non volle esercitare tutta la sua autorità spirituale durante la reazione sanfedista del «Viva Maria», macchiando la Chiesa senese con il suo comportamento in occasione del massacro degli ebrei senesi in Piazza del Campo.
III - L’età contemporanea
Le vicende contemporanee della diocesi senese vennero segnate dalla tendenza dell’episcopato e del laicato organizzato a mantenersi intransigente in via teorica ma a cercare un’intesa pragmatica sia con i poteri costituiti (e via via ri-costituiti) sia con l’assetto complessivo delle tradizioni locali che rappresentavano un interlocutore forte nello stabilire in maniera perlomeno visibile i rapporti istituzionali cogenti.Sullo sfondo vanno considerati da una parte i cambiamenti politici e statuali, di natura epocale, aventi a che fare con la formazione dello stato unitario, e dall’altra quegli ancor più delicati e inesorabili processi di secolarizzazione, che rappresentarono il campo più difficile nella tenuta ecclesiastica ed ecclesiale per tutta l’età contemporanea.
Spettò a Giuseppe Mancini (1824-1855) e a Ferdinando Baldanzi (1855-1866) il compito di transitare la Chiesa senese dalle acque mosse degli anni dalla Restaurazione ai primi tentativi rivoluzionari, a quelle agitate dalle prime vittorie del «nemico » e poi la definitiva nuova situazione alle prese con criteri di lettura e di interpretazione della realtà sempre più complessi e meno legati a schemi fortemente ideologici.
L’insistenza di Mancini nel teorizzare e richiedere una più diretta e convincente collaborazione tra Stato e Chiesa, concorrenti secondo la sua visione nell’arduo tentativo di riportare la società all’ordine morale prima e politico poi del «passato », toccò anche la nuova consapevolezza della collegialità episcopale, chiamata a rappresentare un’unità connotata soprattutto in chiave antimoderna: il sinodo delle Chiese meridionali della Toscana nel giugno-luglio 1850 si spiega soprattutto con l’auspicio della stipulazione di un atto formale di concordato tra Stato e Chiesa (granducato e papato), firmato l’anno successivo, che sembrava essere la panacea per la somma di problemi allora evidenziati.
Al tempo stesso, Mancini inaugurò quelle nuove formule di presenza cattolica nella società che, privilegiando almeno formalmente l’intervento e l’attività laicale, senza con questo ridimensionare l’azione di direzione e controllo da parte del clero, avrebbero avuto sempre più fortuna nel processo di riposizionamento e di riconversione, per così dire, della presenza ecclesiale nelle strutture sempre più associative della realtà sociale.
La netta chiusura alla modernità, e dunque allo stato unitario, costò a Baldanzi la pratica esclusione dal riconoscimento pubblico del suo ruolo e della sua funzione all’interno della nuova situazione «rivoluzionaria » creatasi all’indomani dei referendum del marzo 1860.
Egli governò la diocesi da lontano e fu costretto a subire direttamente e personalmente i primi contraccolpi della rottura voluta e vissuta.
Scelse la via interna nell’affermazione della propria autorità: effettuò una lunga e dettagliata visita pastorale grazie alla quale riuscì a evidenziare, in maniera decisamente strutturata, l’effettiva consistenza della spiritualità e della materialità della chiesa senese.
Troppe erano ancora le resistenze del clero locale a una compattezza di corpo da lui fortemente voluta, ma sfuggente di fronte alla pericolosa e incontrollabile fluidità dei processi in corso, rispetto ai quali quel clero mostrava maggiore disinvoltura ed elasticità.
Dopo cinque anni di vacanza, significativamente nel periodo cruciale della sistematizzazione dei rapporti Stato-Chiesa (1866-1871), la serie dei vescovi riprese secondo una strategia mirata a uniformare, perlomeno a tentare di uniformare, la riottosa Siena ai nuovi principi di convivenza sociale, religiosa e politica frutto di realismo governativo, prevenzione tattica e strategie di riconquista.
Non senza qualche forzatura imbarazzante.
È il caso di Enrico Bindi (1871-1876), il dotto professore dimostratosi sensibile verso quel partito conciliatorista che proprio in quel torno di tempo stava organizzandosi intorno a un progetto nazionale rivelatosi poi insufficiente: in questa direzione va la presentazione in modalità di basso profilo da lui fatta dei decreti conciliari.
Eppure, Bindi non ricevette l’exequatur e dovette anch’egli governare Siena dal seminario arcivescovile.
Ciò non accadde invece ai successori Giovanni Pierallini (1876-1888) e Celestino Zini (1889-1892).
La necessità di reinterpretare il ruolo episcopale e di trovare un rinnovato spazio in un «paese reale», che a Siena si presentava piuttosto problematico, portò la Chiesa senese a elaborare intorno alle antiche tradizioni, rivisitate in chiave di neoaggregazione universalistica, il centro di un processo identitario cittadino, e dunque in grado di conciliare spirito municipalistico e fervore religioso.
Fulcro del sistema divenne il culto mariano intorno alla Madonna del Voto nella cattedrale e alla Madonna della chiesa di Provenzano, che non a caso presiedono anche all’organizzazione cultuale della festa senese, il Palio, e sono anche sedi dei due capitoli cittadini.
Su questa linea s’innestavano sia il movimentismo laicale, cui si chiese di attutire le spinte intransigenti, sia l’impegno culturale intorno alle attività editoriali di caratura nazionale della casa editrice San Bernardino.
La tormenta di fine secolo e la ricostruzione successiva, vissute nel pontificato leonino, vennero affrontate con atteggiamento comprensivo ma combattivo da Benedetto Tommasi (1892-1908).
La politicizzazione della presenza cattolica appare una scelta forzata dalle condizioni effettive della realtà senese: Tommasi non la perseguì, ma se la ritrovò continuamente in gioco e ne accettò la sfida complessiva.
Le analisi che provengono dai suoi interventi e dalle visite pastorali confermano l’abbandono della religiosità tradizionale anche da parte di quel mondo rurale rimasto fino ad allora, più o meno pretestuosamente, il simbolo della continuità, rimarcano l’urgenza di un intervento deciso di fronte all’obiettiva convergenza tra le ragioni del padronato agricolo e del disciplinamento religioso che alimentava pericolosamente la lotta anticlericale, richiamano alla necessità di una migliore e maggiore preparazione del laicato, ma anche del clero, di fronte alle nuove esigenze del quadro sociale e «morale ».
Tommasi sostenne fortemente l’impegno in direzione «democratico-cristiana» di quei cattolici particolarmente sensibili, sia pure in forte minoranza nel tessuto ecclesiale, cercando anche di coinvolgere in strategie comuni i confratelli in quelle prime ma significative assemblee della giovane Conferenza episcopale toscana.
Il lungo episcopato di Prospero Scaccia (1909-1932) segnò il consolidarsi della linea piana di chiusura alla modernità, declinata nelle sue varie componenti, e di adeguamento al clima clerico-moderato nel quale nacque il cattolicesimo italiano, grazie anche all’esperienza della guerra e all’affermarsi del fascismo.
Già le elezioni del 1904 e del 1909 avevano dimostrato che le esitazioni dell’elettorato cattolico senese in funzione antipadronale potevano pesare sul tentativo di realizzare la perfetta unione sociale e morale tra Chiesa e società, anche nella versione politica, messa drammaticamente in pericolo dagli equivoci della crisi di fine secolo: veniva così rimossa quell’opera di «apostolato» già in apparenza schiacciata sulla pur sentita avversione antisocialista.
La stipulazione ufficiale e convinta del patto Gentiloni nel 1912 scacciò definitivamente la tentazione di perseguire l’identità forte contro le destre e le sinistre e immise Chiesa e cattolici nelle difficili acque della competizione, in questo caso fallimentare.
La partecipazione dei cattolici senesi all’assistenza nelle retrovie del tragico conflitto fu totale ed entusiastica: Scaccia con sapienza utilizzò il tema della guerra come effetto dell’abbandono della legge divina e della pace come esclusivo dono della «restaurazione cristiana».
Gli eventi degli anni Venti sembravano confermare che «l’ora di Dio» imminente portava con sé frutti di conciliazione sociale e dunque di ordine ed equilibrio generale.
Questi motivi fiaccarono le pur modeste energie del Partito popolare senese e condussero la Chiesa locale a un’adesione morbida e consapevole al fascismo e alle sue potenti mitologie: la propaganda rurale, la visione familistica, il controllo dei costumi, la concezione paternalistica e gerarchica della struttura sociale e dunque ecclesiale.
L’avvenuta conciliazione diventò perciò il terreno di esercizio diffuso e ripetuto del devozionalismo senese, dell’interiorizzazione delle pratiche religiose, del ritiro dell’associazionismo laicale entro le stanze private della formazione interna.
Non si registra alcuno scontro con il regime in materia di educazione della gioventù, così come non risultano particolari proteste in occasione delle leggi del 1938.
Toccò a Mario Toccabelli (1935-1961) affrontare prima in chiave nazionalistica e fortemente istituzionale e poi secondo la logica del defensor civitatis, in tutte le accezioni possibili, la crisi dirompente della modernità incipiente capace d’incidere sull’universo mondo dell’esperienza religiosa ed esistenziale.
Compresa quella politica.
Consapevole del suo ruolo, egli costruì un modello di Chiesa che, facendo tesoro delle tradizioni, soprattutto quelle devozionali (Santa Caterina e San Bernardino in primis), chiamava clero e laicato a farsi carico di un protagonismo attivo sulle direttrici forti della cristianità e della riconquista.
In un ambiente fortemente secolarizzato e sempre più orientato verso lo scontro aperto, Toccabelli accettò la sfida del significato istituzionale della presenza ecclesiale e del confronto dei valori.
La convinta e profonda linea anticomunista divenne la bussola dell’evangelizzazione, con conseguenze dirette e indirette: da una parte il clero, oscillante tra la fedeltà alla tradizione, che significava concretamente tenere basso il livello del confronto, e una chiamata all’impegno militante, dall’altra il laicato, diviso tra una religiosità cittadina scolorita nella frequentazione dei topoi classici della «senesità» e una mobilitazione partecipata non sempre pienamente sentita, quasi sempre minoritaria.
La pregnante esperienza del passaggio del fronte, avvenuto senza scossoni e in piena continuità istituzionale, la dura lotta del 18 aprile 1948, la diffusa propaganda della scomunica, i numerosi momenti delle Madonne pellegrine, l’esperienza del Mondo Migliore, la gestione quasi in diretta della lotta politica del partito cattolico, la delicata partecipazione alle vicende legate al controllo del Monte dei Paschi, rappresentarono le tappe di un lungo cammino di costruzione di un’identità ecclesiale sentita con forte carica individuale ma con una qualità pubblica sempre in discussione e dunque poco condivisa.
In questo contesto si spiega l’insistenza di Toccabelli nel chiedere e ottenere, nel 1953, l’istituzione a Siena di un Seminario Pontificio Regionale a conferma della rilevanza da lui attribuita alla formazione del clero e all’uniformità della sua preparazione in un contesto che registrava di fatto una divisione territoriale diocesana non perfettamente allineata a quella statuale: le numerose Chiese locali (Siena, Colle di Val d’Elsa, Montalcino, Chiusi e Pienza, Montepulciano, Volterra, Arezzo, Fiesole, Monte Oliveto Maggiore) che afferivano sul territorio provinciale rendevano di fatto più complesso e complicato il compito di elaborare e soprattutto attuare strategie uniformi e concordate di presenza e impegno di fronte a problematiche e organizzazioni che invece venivano strutturandosi proprio su base provinciale.
È questa la Chiesa che trova Ismaele Castellano (1961-1990), proveniente dal privilegiato osservatorio della Commissione per l’Azione cattolica e inviato a Siena con il compito di mettere mano alla riorganizzazione del laicato.
Siena venne considerata un caso davvero particolare, non solo e non tanto per l’interrotta esclusione (sin dal dopoguerra) del mondo cattolico dalle leve del potere (amministrativo, politico e finanziario) ma anche perché quell’esclusione rischiava di diventare un pesante spartiacque e un discrimine all’interno dell’ambiente cattolico.
Castellano si mosse in maniera prudente e soprattutto efficace.
Usò l’esperienza conciliare, che lo vide protagonista soprattutto sul piano della riforma liturgica, per coniugare positivamente le relazioni con il laicato e con il clero: il primo alle prese con il rinnovato settore dell’impegno ecclesiale e il secondo chiamato a uscire fuori dagli schemi della religione cittadina e a rivedere il suo ruolo e la sua funzione sia nella compagine sociale segnata dai processi di modernizzazione, sia nel tessuto profondo e fortemente ancorato alle tradizioni civiche della città del Palio.
Fra il 1975 e il 1978 egli divenne amministratore apostolico delle diocesi di Colle di Val d’Elsa e poi di Montalcino, primo passo per la formazione, nell’arco di un decennio, della diocesi di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino.
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M. Pellegrini, Chiesa e città. Uomini, comunità e istituzioni nella società senese del XII e XIII secolo, Roma 2004.
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Mappa
Diocesi di Siena - Colle di Val D'Elsa - Montalcino
Chiesa di Santa Maria Assunta
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La facciata della cattedrale di Santa Maria Assunta a Siena -
Il Fonte Battesimale -
Veduta dell’aula dall’ingresso -
Il presbiterio
Diocesi
FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.