Poche e vaghe notizie si hanno sulle origini e sui primi secoli delle diocesi di quella parte della Lucania che oggi è denominata Cilento. Al di là della tradizione che vuole la diocesi di Paestum fondata dall’apostolo Pietro, è certo che essa nel X sec., a causa delle continue razzie dei saraceni, fu costretta a trasferire la sua sede sulle alture del vicino monte Calpazio, dove vennero fondate la città di Capaccio (da caput aquae) e la cattedrale della Madonna del Granato. Il titolo di diocesi pestana si mantenne fino al XII sec., quando fu sostituito da quello di Caputaquensis, attribuito per la prima volta al vescovo Leonardo nel 1159. Negli anni del Medioevo si alternarono alla guida della diocesi venticinque vescovi, ma di fatto mancò una efficiente organizzazione istituzionale e furono soprattutto il monachesimo greco-orientale e poi quello benedettino ad assicurare alla regione una presenza cristiana, organizzando anche la vita civile ed economica. Non mancarono figure di eremiti, fra le quali emerse quella di sant’Elena, giovinetta vissuta in età imprecisata a Laurino, in una grotta ancora oggi luogo di culto e meta di pellegrinaggi. Con l’età moderna le nostre conoscenze diventano più puntuali. Nella prima metà del Cinquecento la diocesi, tra Cilento e Vallo di Diano, occupava un territorio di circa 2500 km2, aspro e impervio, abitato da una popolazione di circa 50.000 anime, distribuite in 116 piccoli centri, quasi tutti monoparrocchiali. Per tali motivi di carattere naturale e ambientale, i vescovi per secoli non hanno avuto una sede fissa e alternamente hanno dimorato nelle cilentane Capaccio e Novi o nelle dianesi Sala e Diano (attuali Sala Consilina e Teggiano). Tra i prelati del Cinquecento va ricordato Enrico Loffredo, che partecipò al concilio di Trento, segnalandosi come convinto fautore di riforme, quali l’obbligo di residenza per i vescovi e il divieto dell’accumulo dei vescovati. Fu la prima vittima del tifo petecchiale scoppiato a Trento nel 1547. All’attuazione dei decreti tridentini diede avvio il vescovo Paolo Emilio Verallo, che istituì già nel 1564 il seminario a Diano e celebrò nel 1567 un sinodo a Padula. La crisi agraria del Seicento colpì duramente la regione, ma furono soprattutto la rivolta napoletana del 1647 e la peste del 1656 a generare una condizione di miseria e di anarchia. La violenza infierì in ogni angolo della diocesi, non risparmiando né la vita né la proprietà degli ecclesiastici; lo stesso vescovo Tommaso Carafa ne uscì salvo miracolosamente. Fu tuttavia l’energia del Carafa, assieme a un forte devozionismo popolare, ad avviare la ripresa, che fu lenta, specie sotto il profilo demografico. Seguì un periodo più tranquillo che si protrasse fino al 1799, quando tutto il territorio della diocesi fu interessato dal fenomeno della «democratizzazione » e dagli scontri fra borbonici e repubblicani. Parteciparono attivamente ai moti sia il vescovo, Vincenzo Maria Torrusio, sia il clero, diviso tra le due fazioni; risvolti sanguinosi si ebbero soprattutto nel Vallo di Diano e nell’alto Cilento. Le agitazioni si protrassero nel secolo seguente per motivi economici e politici, e tra i martiri risorgimentali figurò il canonico Antonio Maria De Luca, promotore della rivolta del 1828. Maturava intanto il disegno di sdoppiamento della diocesi, la cui popolazione contava allora oltre 130.000 anime, distribuite in 137 parrocchie. L’istanza, avanzata dal vescovo Barone, fu finalmente accolta. L’ampio territorio della diocesi caputaquense fu diviso da papa Pio IX nelle due diocesi di Diano (il 21 settembre 1850 con bolla Ex quo imperscrutabili) e di Capaccio- Vallo (il 17 luglio 1851 con bolla Cum propter iustitiae dilectionem), divenuta successivamente Vallo di Lucania (1945) e Vallo della Lucania (1986).
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FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.