Secondo alcune fonti, alla fine dell’XI . il conte Ruggero chiamò a Messina Bartolomeo da Simeri per affidargli la fondazione di un monastero greco sul modello del Patìr. Fu così che questi, tornato alla casa madre rossanese, inviò con manoscritti e suppellettili sacre dodici monaci guidati da Luca, egumeno designato e, in seguito, primo successore nella nuova fondazione. Tuttavia nuovi documenti d’archivio ci informano che, tra il 1122 e il 1132, il Santissimo Salvatore fu costruito per volere di Ruggero II all’estremità della lingua di terra che chiude il porto di Messina: in lingua phari. Nel maggio 1131 il sovrano lo elevò a mandra (recinto), ovvero madre dei monasteri dipendenti, e nominò il suo superiore archimandrita, cioè padre degli abati a lui sottoposti. Contestualmente, Ruggero rese il cenobio libero dalla giurisdizione episcopale e, sul modello dei monasteri imperiali bizantini, lo prese sotto la sua protezione. Nel settembre 1131 infatti Ugo, arcivescovo di Messina, rinunciò ufficialmente alla giurisdizione sull’archimandritato e su altri trentatré monasteri greci ricadenti nella diocesi peloritana, riservandosi il solo diritto di benedizione delle chiese. Un diploma regio del 1133 elenca le dipendenze della casa madre messinese in Sicilia e Calabria. Si trattava di ventidue metochia, piccoli monasteri diretti da economi, insediati dall’archimandrita, e di diciannove monasteri autonomi, definiti kephalikà e autodéspota, retti da abati propri nominati dall’archimandrita e da questi controllati per quanto riguardava la vita spirituale e l’amministrazione dei beni. Con la fine della dinastia normanna, il monachesimo greco dell’Italia meridionale e della Sicilia si avviò verso una lenta decadenza, alla quale, tuttavia, ancora per qualche secolo, rimase estranea la regia abbazia del Santissimo Salvatore in lingua phari, grazie anche alla protezione della Sede apostolica. Circa i rapporti con gli arcivescovi di Messina, durante la plurisecolare storia dell’archimandritato non mancarono momenti di attrito, soprattutto in merito all’esercizio della giurisdizione nel territorio archimandritale. Tali conflitti si verificarono già dalla seconda metà del Duecento fino a tutto il XVI sec., quando, traendo spunto dalla controversia relativa alla fondazione di un seminario per i chierici dell’archimandritato, la Santa Sede stabilì che «Oppida omnia Archimandritalia alterius esse ab Archiepiscopali Dioecesi». Finalmente, il 23 marzo 1635, con breve di Urbano VIII, l’archimandritato fu considerato «Dioecesim propriam, distinctam, et separatam a quavis alia Dioecesi, consistentem in locis, terrisve, seu oppidis». Da allora in avanti, la circoscrizione sarà affidata a prelati con carattere vescovile, molti dei quali insigniti della porpora, i quali, peraltro, si recheranno raramente nella propria sede, lasciando il governo della stessa a vicari generali. Con la morte (1839) del cardinale Emanuele De Gregorio, si aprì per l’archimandritato il più lungo periodo di vacanza, cui si aggiunse (1866) la soppressione delle corporazioni religiose, che determinò la scomparsa dei basiliani, principali sudditi dell’archimandrita, e del loro patrimonio. Fu così che Leone XIII, il 31 agosto 1883, unì l’archimandritato aeque principaliter all’arcidiocesi di Messina.
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FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.