Diocesi di Fiesole
STORIA
I -Le origini e l’età medievale
L’oscurità che avvolge il periodo in cui andò definendosi la primitiva organizzazione territoriale della Chiesa fiesolana non consente di chiarire quale fosse la sua situazione originaria.Tardive elaborazioni agiografiche ci tramandano la storia di un giovane romano, Romolo, che, convertito e battezzato da Pietro, sarebbe stato da lui inviato, assieme ad altri compagni, a evangelizzare il Settentrione.
Discesi in Tuscia dall’area bresciano-bergamasca essi avrebbero fatto sosta a Fiesole per proseguire la loro opera missionaria e incontrarvi, infine, il martirio.
Secondo la tradizione le loro reliquie furono tumulate in età incerta nella cattedrale di San Pietro, il cui titolo sarebbe stato per l’occasione modificato in onore di san Romolo; qui esse rimasero fino al 1028, quando il vescovo Jacopo il Bavaro le traslò nella nuova cattedrale, ricostruita nell’arce cittadina.
La struttura della locale comunità cristiana doveva perfezionarsi sul volgere del IV sec., quando l’intera zona fu oggetto dell’attenzione «missionaria » di sant’Ambrogio, che indirizzava una sua lettera a un Messio Romolo – un laico al servizio della Chiesa fiesolana – nel quale la tradizione locale avrebbe identificato il primo vescovo cittadino.
Non si conoscono le fasi evolutive dello stanziamento degli ostrogoti in questo scacchiere del Valdarno, ma sul volgere del V . l’area doveva essere nelle loro mani, come si deduce da una lettera di papa Gelasio I (492-496) a Elpidio, vescovo di Volterra, nella quale si lamenta il fatto che l’anziano vescovo fiesolano si fosse recato senza il suo consenso alla corte ravennate dell’ariano Teodorico per difendere gli interessi della sua chiesa occupata; egli dovette riuscire nell’intento se all’apertura del conflitto con i bizantini Procopio ricorda tra i familiari di Teodato proprio un vescovo fiesolano: quel Rusticus da cui il re si sarebbe fatto rappresentare durante le affannose trattative che precedettero la guerra e che poi fu presente come legato di papa Agapito I al secondo concilio di Costantinopoli (536).
Con la restaurazione dell’ordine imperiale dovevano però acuirsi anche le controversie teologiche che sempre più apertamente allontanavano l’Oriente e la sua chiesa da quella d’Occidente; questo sentimento antigreco si accrebbe a dismisura all’indomani dell’apertura dello scisma dei Tre Capitoli, conseguenza di un infelice intervento di Giustiniano (553) sugli scottanti temi cristologici sanciti nel concilio di Calcedonia: sette vescovi della Tuscia Annonaria, tra cui il fiesolano – come si deduce dalla lettera di rimproveri loro indirizzata nel 556 da papa Pelagio I – condivisero le scelte dei confratelli del Nord e con essi si schierarono, aderendo allo scisma che separava la metropolia milanese e buona parte dell’Italia settentrionale dall’obbedienza bizantina e dal papato romano.
La faticosa avanzata dei longobardi in quest’area si assestò sul volgere del VI . (593), quando anch’essa fu sottoposta a governo gastaldale; è probabile che già in questo periodo sia siano verificate le condizioni che resero utile l’unificazione dei due territori municipali fiorentino e fiesolano in un’unica iudicaria, così come avveniva solitamente nelle aree di confine.
La conquista longobarda si accompagnò a un periodo di estrema incertezza nella vita delle istituzioni ecclesiastiche; tra le molte città abbandonate in questo periodo dal clero in fuga di fronte agli invasori ci fu anche Fiesole, i cui preti cercarono scampo in terra bizantina, a Luni.
Il silenzio documentario che per oltre un secolo (fino al 715) avvolge la sua memoria episcopale ha giustificato l’ipotesi di una soppressione della diocesi – destino che essa avrebbe condiviso con Pistoia – in questo tormentato periodo nel quale la documentazione depone a favore di una sopravvivenza ecclesiale della sola Firenze, dove è attestata l’attività di un vescovo di estrazione longobarda.
La lacunosità della documentazione non aiuta a chiarire la situazione del territorio fiesolano che compare come insieme coerente solo nel IX sec., quando i suoi vescovi – per lo più documentati attraverso una memoria agiografica elaborata nell’XI . – si impegnarono per acquisire e mantenere quelle immunità rispetto all’autorità regia che avrebbero assicurato loro ampi poteri di governo e di amministrazione civile: Leto, poi venerato come santo, cui per primo si attribuisce l’assunzione del titolo comitale, o Alessandro, ucciso dai suoi stessi «vassalli» all’indomani della conferma dei diritti episcopali da parte di Lotario I, o Romano, testimone della incursione normanna che devastava la città e le sue memorie, o l’irlandese Donato, durante il cui governo avvenne l’unificazione del comitato fiorentino con quello fiesolano (854).
Il consolidarsi dei poteri signorili dell’episcopato sia a Firenze sia a Fiesole avrebbe, nel corso dei due secoli successivi, reso problematici i rapporti tra le due città, innestando una inevitabile conflittualità che culminò, già agli inizi del Mille, con una serie di violente azioni militari fiorentine ai danni della contermine città episcopale.
Figura di spicco fu, all’inizio del secondo millennio, il bavarese Jacopo (1024- 1038), fidelis dell’imperatore Enrico II cui si deve, tra l’altro, accanto alla ricostruzione della cattedrale e del palazzo episcopale nell’acropoli della città, la organizzazione del capitolo e l’impulso dato alla rielaborazione agiografica della memoria dei vescovi fiesolani.
Egli favorì la penetrazione del monachesimo riformatore nella diocesi, appoggiando sia le fondazioni camaldolesi che la neonata esperienza vallombrosana, ma il carattere «feudale» dell’episcopato fiesolano, fortemente legato alla fedeltà imperiale, non salvaguardò i suoi successori dalle accuse di simonia: più previdente del collega fiorentino Pietro Mezzabarba, cacciato dalla città per aver perduto l’ordalia organizzata dai vallombrosani nel marzo 1068 a Settimo, il vescovo fiesolano Trasmondo ricorse per primo alla prova del fuoco, dimostrando ai detrattori la propria innocenza e ottenendo contro di essi l’appoggio di Gregorio VII.
L’inarrestabile erosione di terre vescovili fiesolane da parte della Chiesa fiorentina per tutto l’XI . non sarebbe stata tuttavia sufficiente a garantire gli interessi espansionistici del comune gigliato il quale preferì risolvere con le armi il problema costituito dalla minacciosa presenza di una città fortificata e imprendibile a ridosso delle sue mura.
Alla disfatta del 1125, compiuta al tempo dell’imbelle vescovo Giovanni (1102-1134), seguiva nel 1167 anche la distruzione del castello di Figline, nel quale i vescovi del colle lunato avevano tentato di ricostruire una propria cittadella fortificata.
A più riprese Firenze avanzò al papato la richiesta di una unificazione delle due circoscrizioni ecclesiastiche: autorizzazione che Roma non volle concedere e che anzi si accompagnò a fasi di violenta tensione tra le autorità comunali e il papato.
La resistenza pontificia ad assecondare le richieste fiorentine venne meno nei primi decenni del Duecento, quando papa Gregorio IX autorizzò l’esproprio di tutte le sovranità temporali dei vescovi fiesolani – con la sola eccezione della contea di Turicchi, ove essi continuarono a esercitare diritti feudali fino al Settecento – e il trasferimento della sede diocesana entro le mura fiorentine, nella chiesa di Santa Maria in Campo (1228), dove il vescovo Ildebrando (1220- 1256) avviava il secolare esilio della Chiesa fiesolana.
Esso sarebbe stato interrotto solo durante il governo di Andrea Corsini, il santo carmelitano che resse la cattedra di San Romolo dal 1349 al 1374.
L’osmosi tra le due diocesi, già nei fatti sancita dall’XI . trovò ai primi del Trecento la sua espressione più compiuta durante l’episcopato di Antonio degli Orsi, già arciprete del capitolo del duomo di Firenze, che fu in successione chiamato a ricoprire la dignità vescovile su entrambe le diocesi (a Fiesole dal 1301-1310 e a Firenze dal 1310 al 1321).
Dopo di lui si alternarono tra le mura di Santa Maria in Campo per lo più membri delle famiglie della oligarchia fiorentina, come gli Aliotti (Tedice, dal 1312- 1336), i Corsini (Andrea, Neri dal 1374 al 1377), gli Altoviti (Jacopo 1390-1408), i Federighi (Bindo, 1411-1421), i Salutati (Leonardo, 1450-1466), gli Agli (1467-1470).
Il complesso quadro giurisdizionale determinato dalla bicefalia episcopale dell’area fiorentino-fiesolana non aveva ostacolato, nel lungo periodo della commistione tra le due diocesi, lo sviluppo di una tradizione monastica che convisse con l’antico reticolo dell’amministrazione pievanale, spesso anzi surrogandone la responsabilità pastorale.
Le antiche radici benedettine, sulle quali si era innestata, per irradiazione da Nonantola, anche l’esperienza irlandese (densa nell’area fiesolana, ove tra l’altro si perpetuava il ricordo «fondatore» del discepolo di san Donato, Andrea «scoto », nel monastero di San Martino a Mensola) avrebbero prodotto nuovi germogli nell’XI sec., quando le istanze di riforma che dal mondo monastico avevano investito l’intera società si incontrarono con gli interessi di una agguerrita aristocrazia fondiaria i cui proventi e poteri territoriali discendevano per lo più dall’usurpazione e dall’uso di beni ecclesiastici e vescovili.
Talvolta gli stessi vescovi – come nel caso della «Badia fiesolana» di San Bartolomeo (1028) o quella di San Godenzo in Alpe – o famiglie emergenti, come quella dei Guidi – con le fondazioni di Rosano, o, si vuole, di Sant’Ilario in Alfiano, «mater» della stessa Vallombrosa – promossero nel corso dell’XI . una serie rilevante di monasteri che frequentemente si aprirono alla «novità» camaldolese o a quella vallombrosana – che ebbe nelle terre fiesolane particolare sviluppo (basti qui il solo esempio di Passignano).
L’assestamento istituzionale dell’episcopato nel XII sec., dominato nella regione dagli eredi di san Giovanni Gualberto, si accompagnò però a un periodo di intense turbolenze spirituali.
La diffusione dell’eresia catara nell’area fiorentina e fiesolana (dove trovò ricetto e protezione nei castelli e nelle residenze rurali dell’aristocrazia) fu uno degli aspetti di quella inquietudine religiosa che avrebbe portato anche alla nascita di una quantità di nuove esperienze penitenziali, a loro volta prodromo alla futura «rinascenza» di ordini regolari.
Tuttavia il ruolo secondario di Fiesole rispetto a Firenze avrebbe sconsigliato alle nuove famiglie mendicanti la fondazione di insediamenti conventuali in città.
Solo nel più dinamico castello di Figline, a esempio, si conosce una presenza minoritica nel XIII sec.; sarebbero state le osservanze, con la loro vocazione neoeremitica, ad attivare nella diocesi il reticolo dei più importanti conventi mendicanti: nel 1390 fra Giovanni da Stroncone e fra Angelo da Monteleone, con San Francesco, o nei primi anni del Quattrocento Giovanni Dominici, con San Domenico, ai piedi della collina fiesolana; o, sempre in quel periodo, la «nuova» esperienza regolare del beato Carlo da Montegranelli, con i suoi eremiti di san Gerolamo.
II - L’età moderna
Dal XV sec., con le creazione della metropoli fiorentina, la cattedra di San Romolo di Fiesole divenne suffraganea dell’arcivescovo di Firenze: una subordinazione che in questo caso ha assunto un valore assai più pregnante rispetto ad altre diocesi.In effetti, fra il 1301 e il 1874 su quarantaquattro vescovi ben trentasette furono di famiglia fiorentina e addirittura ventisette erano stati in precedenza canonici del duomo di Santa Maria del Fiore.
Persino i due vescovi, che in epoca medicea appaiono di diversa provenienza, sono noti per il loro servizi resi ai granduca: l’aretino Pietro Camaiani, già ambasciatore mediceo al concilio di Trento, e Tommaso Ximenes, già professore nello Studio pisano.
La mensa episcopale fiesolana, la cui rendita oscillava fra i milletrecento e i millesettecento scudi l’anno, costituiva un buon reddito per un chierico di una famiglia patrizia, e la sede fiesolana presentava il vantaggio di una collocazione assai comoda per chi non intendesse allontanarsi da Firenze, vuoi per curare gli interessi domestici, vuoi per continuare a seguire la vita della Corte del Principe.
Del resto, la cattedra fiesolana poteva costituire anche un buon trampolino per una meta più ricca e di maggior prestigio come Firenze: così accadde nel Seicento ad Alessandro Marzi Medici e Tommaso Bonaventura della Gherardesca.
I legami fra le due Chiese erano anche visibilmente segnati sul territorio non solo dalla presenza di un’amplissima parte della diocesi fiesolana separata dalla sua matrice proprio dalla diocesi fiorentina, ma persino dall’esistenza di una chiesa parrocchiale fiesolana – Santa Maria in Campo – all’interno della città di Firenze, con tutto l’ovvio seguito di conflitti sulla giurisdizione spirituale sui fedeli che di solito situazioni del genere comportavano anche fra presuli concittadini.
Nella piccola città di Fiesole (nel XVII e XVIII . gli abitanti erano appena due centinaia), la cattedrale contava una decina di canonicati; vi erano anche un’altra chiesa parrocchiale, due conventi maschili urbani, due suburbani e un monastero femminile.
Anche se dovette passare qualche decennio dal concilio di Trento, a causa delle resistenze di corpi ecclesiastici privilegiati – come la collegiata di Figline – che si rifiutarono di mettere a disposizione anche parzialmente edifici di propria pertinenza, Fiesole poté avere un seminario diocesano già nella prima metà del Seicento: l’analisi della sua biblioteca ha dimostrato la cura dedicata dai presuli alla formazione del clero secolare, i cui studi furono regolamentati e prolungati.
Una cura particolarmente necessaria, ove si considerino le condizioni reali d’accesso agli uffici ecclesiastici locali.
Largamente maggioritario in tutta la Toscana, il giuspatronato laicale raggiungeva qui proporzioni impressionanti: sui benefici parrocchiali, rispetto a un esiguo due per cento di uffici di libera collazione vescovile, le famiglie detenevano l’ottanta per cento dei patronati e un altro tre per cento era di pertinenza granducale.
In epoca leopoldina, infine, la nomina a vescovo di Ranieri Mancini, un cortonese già vescovo di Colle, non colse l’effetto sperato dal granduca di poter contare su un alleato per le sue riforme in campo ecclesiastico.
Pietro Leopoldo si vendicò giudicandolo un «ignorante, cocciuto», ma si sbagliò ancora una volta.
Non solo perché il Mancini fu uomo di cultura vasta e interessi non limitati, ma anche perché si dimostrò capace negli anni più turbolenti dell’invasione francese e del «Viva Maria» di impegnarsi attivamente per il mantenimento della pace e della «quiete pubblica».
III - L’età contemporanea
Nel periodo otto-novecentesco l’episcopato fiesolano, da Brandaglia, eletto nel 1815, fino a Corsani del 1874, rimase di estrazione fiorentina.Dei sei vescovi succedutisi in questo periodo (Brandaglia, Parretti, Menchi, Bronzuoli, Antonielli, Frescobaldi) quattro furono canonici e cinque avevano conseguito il dottorato in teologia a Firenze: prevalevano, come nel passato, gli appartenenti al capitolo della metropolitana fiorentina provenienti da famiglie aristocratiche o comunque dalle élites cittadine.
Ci fu comunque una novità significativa nella formazione di questi presuli.
Mentre per tutta l’età moderna tale formazione aveva previsto il dottorato in utroque iure, ora si evidenziava una formazione teologica, indice di una destinazione non solo genericamente ecclesiastica, ma pastorale e anche spia significativa di una maggiore attenzione a questo requisito nella selezione all’episcopato.
Nel clima della Restaurazione l’attività pastorale tese a riprendere temi, linguaggi e modalità più tradizionali – dopo le novità e le tensioni dovute alle riforme leopoldine e francesi – con la ripresa delle notificazioni relative all’indulto quaresimale, mentre le lettere pastorali non ebbero sempre cadenze regolari né caratteristiche omogenee.
Una svolta significativa si ebbe nel 1848 con una dichiarazione congiunta dei vescovi di Firenze e Fiesole che contrastava una espressione dello Statuto della Toscana, nella quale si prefigurava che potessero essere ammesse anche altre religioni, oltre la cattolica.
Del 1849 è anche una polemica di Bronzuoli contro la propaganda protestante che richiamava anche con forza la «vigilanza» dei parroci contro la «diffusione di libri ingiuriosi».
Si iniziava così una linea pastorale di contrapposizione verso quella che Frescobaldi definì, richiamando Il Sillabo, l’«apostasia» della società moderna; in questa prospettiva va compresa anche un’azione collegiale dell’episcopato toscano in chiave intransigente e apologetica, che si espresse con una lettera collettiva dei vescovi della provincia ecclesiastica fiorentina del 1850 dal titolo emblematico: Nuove dottrine e scadimento della fede.
Con l’unificazione nazionale e l’abbandono della presentazione della terna dei candidati all’episcopato, tutte le decisioni sulle nomine episcopali vennero affidate unicamente a Roma, con una più evidente dipendenza dei vescovi dalla Santa Sede.
Anche a Fiesole si possono notare delle novità significative: con Corsani, pratese eletto nel 1874, si interrompeva la serie dei vescovi fiorentini.
La sua decisione di riportare la sede vescovile a Fiesole ebbe un significato di svolta, con la fine del predominio del capitolo della metropolitana fiorentina e l’adesione ad antiche aspirazioni della sede fiesolana.
Durante il suo episcopato si evidenziò una più puntuale adesione alle linee dell’intransigentismo, evidenti anche nei titoli delle sue pastorali (Guerra alla Chiesa del 1876; Opponiamoci al male del 1878; Guerra al Papato del 1881; Pubblicazioni protestanti del 1884); maggiore influenza acquistò l’azione dei gesuiti, che in seminario oltre la funzione di docente – che si esplicava in alcuni casi a livello personale – assunsero quella di direttore spirituale, mentre la curia generalizia si trasferiva nella diocesi.
Corsani, poi il suo successore Tommasi e ancor più Cammilli (1893-1909), incoraggiarono fortemente l’organizzazione del movimento cattolico nella prospettiva della ricostruzione di quella «società cristiana» che caratterizza l’azione dell’episcopato italiano del periodo e dell’Opera dei congressi.
David Cammilli fu anche l’organizzatore di due congressi cattolici tenuti a Fiesole nel 1894 e nel 1896, quando fu fondata la Fuci.
Con l’episcopato di Fossà (1909- 1936) queste tendenze di carattere generale assunsero una connotazione peculiare per la sua linea integralista, di opposizione nettissima a ogni istanza di rinnovamento che potesse suonare vicina ai fermenti innovatori della crisi modernista.
Egli accoglieva nella sua diocesi il sacerdote di origine ungherese De Töth – legato a Benigni e agli ambienti curiali più radicali nella lotta antimodernista – quando nel 1909 si era dovuto dimettere dalla direzione dell’«Unità cattolica»: lo incardinava come sacerdote diocesano e gli affidava un insegnamento in seminario, difendendolo dai numerosi critici – anche molto autorevoli – come il cardinal Ferrari, o Maffi, o Mistrangelo, suo metropolita.
In questo modo il vescovo fiesolano veniva ad assumere un ruolo talvolta contrapposto a quello del presule fiorentino.
De Töth nel 1919 avrebbe fondato «Fede e ragione», che si caratterizzava per una forte polemica contro l’aconfessionalismo del partito popolare e che nel 1921 pubblicava a puntate I Protocolli dei savi di Sion, con un commento che ne sottolineava la continuità con la pubblicistica controrivoluzionaria.
Nel 1937, con la nomina di Giorgis, si ritornava a una linea e a toni più moderati, non più caratterizzati da polemiche e contrapposizioni, mentre nell’episcopato toscano emergeva il ruolo centrale di Elia Dalla Costa.
Ampia è l’attività di assistenza e di aiuto morale e civile alla popolazione svolta da Giorgis durante l’occupazione tedesca.
Da collegare al ruolo e al prestigio del cardinale di Firenze è la scelta di Bagnoli (1954-1977), sacerdote fiorentino, alla sede fiesolana anche se in una prospettiva ormai molto lontana da quelle che avevano caratterizzato le nomine in età moderna.
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FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.