Regione ecclesiastica Toscana
altri insediamenti, che avevano conosciuto un significativo sviluppo in età romana (come Pisa, Firenze, Lucca, Siena, Pistoia), furono facilitati dallo sviluppo di nuove direttrici stradali che, a differenza di quanto era avvenuto con la consolare Aurelia (lungo la costa tirrenica) e la Cassia (lungo il confine orientale), valorizzarono – come la «Francigena» – il bacino dell’Arno, ponendo le condizioni per il suo futuro sviluppo. Questo modificarsi della viabilità in ragione del divenire strategico di alcune aree si rispecchia in qualche modo nella «variabilità » delle circoscrizioni ecclesiastiche: ad esempio le più antiche tra le diocesi della Tuscia tardo-antica appaiono «figlie» della situazione stradale romana: Lorium, Pyrgi (Santa Severa), Centumcellae, Tarquinii, Rusellae, Populoniae, Pisae, Lunae, attengono allo sviluppo dell’Aurelia, così come la Cassia aveva giustificato l’importanza di Forum Clodii, Sutrium, Vulsinii, Clusium, Aretium, Florentia, Pistoria, Luca;
a settentrione la regione era attraversata per breve tratto anche dalla Flaminia, mentre vie decisamente importanti, come la Cornelia, la Clodia, o direttrici «minori», come l’Annia o la Cimina, assicuravano una viabilità che fu comunque decisamente più importante e diffusa nella Tuscia su burbicaria che non nella annonaria. Di queste diocesi evolutesi dai centri stradali romani alcune sarebbero scomparse già nell’alto Medioevo, come l’antica Blera (Bieda);
altre, come Roselle, Populonia, Soana, Luni, avrebbero dovuto attendere il nuovo millennio perché il loro declino si compisse definitivamente. Il primo significativo momento di mutazione rispetto agli assetti territoriali tardoantichi in Toscana fu rappresentato dalla discesa dei longobardi;
la lenta evoluzione delle conquiste prima, i nuovi assetti militari del ducato, infine la diversa organizzazione del regno comportarono infatti una progressiva ridefinizione delle circoscrizioni civili e militari cui si adeguò anche la distrettualizzazione ecclesiastica: alcune sedi vescovili conobbero eclissi più o meno lunghe – come Fiesole o Pistoia – mentre altre andarono acquistando rilievo;
in particolare si avvantaggiò della nuova situazione la diocesi di Lucca, i cui beni e giurisdizioni si estesero ben oltre i confini romani del municipium cittadino, generando enclaves culturali di lunga durata;
ma anche Arezzo e Siena, tra le quali nel VII sec. si apriva una famosa vertenza confinaria per il possesso di una ventina di pievi che con alterne vicende sarebbe rimasta aperta fino al XIII sec. La riorganizzazione carolingio-ottoniana, tra IX e X sec., cercò di ristabilire una corrispondenza tra circoscrizioni civili (comitati) e diocesi, ma in molti casi – come ad esempio per il comitato fiorentino e fiesolano – non si introdussero significative variazioni rispetto allo status quo determinato dall’organizzazione dei longobardi;
la nemesi agì di fatto a loro favore dal momento che pur nella sconfitta essi seppero mantenere un saldo controllo sulle nomine episcopali garantendo la fortuna patrimoniale di una aristocrazia che «reinvestì » in fondazioni monastiche gran parte dei beni ecclesiastici amministrati. Sia con i carolingi che con la dinastia di Sassonia si ebbe una valorizzazione politica dell’episcopato il quale spesso ottenne, grazie alla protezione regia, l’immunità rispetto all’autorità civile;
questo comportò in molti casi l’assunzione di responsabilità pubbliche da parte dei vescovi e una loro progressiva possibilità di incidenza nelle dinamiche politiche della marca di Tuscia. A loro si dovette, tra IX e XI sec., la rinascenza delle città e la creazione di quelle strutture (le scholae) che consentirono la ripresa della cultura e la nascita di una consapevolezza civile urbana destinata a realizzarsi compiutamente tra XI e XII sec. con le prime forme di autogoverno comunale. La sinergia creatasi tra risveglio del mondo urbano ed episcopato ebbe in Toscana, tra i suoi molti esiti, anche quello di far convergere le istanze di autodeterminazione civile con lo sforzo di affrancamento della Chiesa dal potere secolare;
la stagione della riforma gregoriana ebbe effetti particolarmente importanti, specialmente durante il pontificato di Niccolò II, già vescovo di Firenze, quando la regione fu una delle roccaforti del partito riformatore e teatro di eventi tra i più significativi della storia del periodo. In questa età, a partire dalla quale si avviava anche la lenta ma costante erosione delle autonomie episcopali locali a vantaggio di quel centralismo romano che solo nel tardo Medioevo avrebbe consentito alla sede pontificia il saldo controllo su tutte le nomine vescovili, quasi tutti i vescovati toscani promossero un’intensa azione di riforma del clero che si espresse nella organizzazione canonicale e nel crescente rilievo assunto dai capitoli cattedrali all’interno delle chiese cittadine. A questo importante momento di riforma partecipò attivamente il mondo monastico, che conobbe nella regione alcune delle sue sperimentazioni più significative, come la vallombrosana e la camaldolese. Da questo clima si sarebbe evoluto, nel corso del XII sec., un nuovo establishment che avrebbe visto succedersi all’episcopato «simoniaco e concubinario» del secolo precedente una nuova leadership religiosa – spesso proveniente dalle file del monachesimo benedettino riformato – dialetticamente impegnata nella definizione del ruolo politico assunto dalle città nei confronti degli antichi assetti rurali e aristocratici del mondo «feudale». La «sintesi istituzionale tra vescovo e città», come la definisce Giovanni Tabacco, avrebbe così profondamente inciso nella creazione delle identità municipali del mondo toscano, offrendo a esse il sedimento delle antiquitates cristiane delle varie città come background indispensabile al senso di appartenenza cittadino. La rinascenza urbana di questa stagione vescovile non toccò tutta la Toscana allo stesso modo;
alcune aree, come quella costiera, con la sola eccezione di Pisa, avevano conosciuto un diverso destino a partire dal IX sec., quando le incursioni normanne e saracene determinarono un lungo periodo di instabilità per tutta l’area tirrenica: le antiche diocesi della costa conobbero una grave recessione antropica che impose il progressivo abbandono degli insediamenti litoranei per il più sicuro entroterra: Populonia, aggredita nel IX sec. da un’incursione saracena, arretrava nella Valdicornia e infine si arroccava sulle alture di Massa Marittima;
Roselle – dove nelle paludi costiere del castiglionese si annidavano agiografici draghi poi combattuti e vinti da santi eremiti bonificatori, come san Guglielmo di «Malavalle» – che i vescovi abbandonavano nel XII sec. per cercare rifugio all’ombra della protezione aldobrandesca in Grosseto;
Luni, che dopo un ultimo attacco del feroce pirata saraceno Muja¯id (1016), iniziava un inarrestabile declino sanzionato nel 1204 dal trasferimento della sede diocesana a Sarzana. L’assetto diocesano del pieno Medioevo toscano, indipendentemente dai suoi rapporti e dalla conflittualità che caratterizzò la realtà intercomunale tra XIII e XIV sec. interferendo anche nelle confinazioni ecclesiastiche, è quello fotografato dai registri delle decime che ci sono pervenute, per la Tuscia, in due successive raccolte: la prima relativa agli anni 1274-1280, la seconda al periodo 1295-1304 (Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Tuscia). A quest’epoca le diocesi toscane erano dodici (Arezzo, Chiusi, Lucca, Fiesole, Firenze, Grosseto, Massa Marittima, Pisa, Pistoia, Siena, Sovana, Volterra), grossomodo coincidenti con le città più significative della regione. In questa età la polarizzazione politica esercitata dalle tre città rivali, Pisa, Siena e Firenze, tendeva a imporsi anche sulle rispettive aree di espansione territoriale: così Pisa, già signora della costa ove aveva profondamente condizionato la presenza lucchese dalla Versilia alla Lunigiana, si espandeva ora verso il meridione insinuandosi nelle antiche terre di San Cerbone (Piombino- Massa Marittima) e di Grosseto contendendole a Siena, la quale a sua volta si dilatava nel settore sud orientale della regione, ai danni di Arezzo e Chiusi;
Firenze dopo aver inglobato Fiesole si estendeva verso Pistoia incuneandosi, nel Valdarno, nelle antiche pertinenze lucchesi, o verso Arezzo, contrastando gli ultimi fuochi delle aristocrazie rurali ancora attive, come i Guidi, lungo le dorsali di passo degli Appennini. I vescovi di Volterra, già signori di tutto il bacino minerario della regione, con il loro argento e il sale, stentavano a difendere i propri domini dalla rapace attenzione dei vicini vivendo, come del resto i loro colleghi di Chiusi, un lento declino e una inesorabile «rapina» del loro distretto spirituale. Lucca, antica signora di Tuscia, avviava una sua politica di isolamento che sarebbe rimasta una delle caratteristiche salienti della sua vicenda storica fino alle soglie dell’unità nazionale. In questo puzzle di «città stato» in cui i vescovi spesso – come ad Arezzo o a Volterra – continuavano a rappresentare il vertice della organizzazione civile, cominciava altresì a giocare un ruolo sempre più importante la diplomazia pontificia, che già negli anni centrali del Duecento, sullo sfondo del conflitto con Federico II, non aveva esitato a schierare le sue nuove «truppe spirituali », le religiones novae del XIII sec., al servizio della ortodossia compromessa dalla fortunata diffusione dell’eresia catara – che nella regione fu particolarmente attiva e importante – e del guelfismo antisvevo. Sempre più «condizionato» da Roma, l’episcopato toscano avrebbe rinunciato a esprimere la propria radice locale a partire dall’età di Dante, avviando una lunga stagione di «estraneità» tra i pastori e il gregge dei fedeli. A partire dal pieno Trecento, all’indomani del progressivo ampliamento, a danno dei limitrofi stati comunali posti a settentrione e sul versante occidentale, del suo antico comitatus (Pistoia, San Gimignano, Arezzo, Pisa, Cortona), si avviava compiutamente il processo di formazione dello stato territoriale fiorentino. Con esso andava articolandosi in maniera sempre più chiara e sistematica l’ambizione di adeguare le circoscrizioni ecclesiastiche ai nuovi assetti statali. Questa intenzione, già evidente all’indomani della conquista di Pisa, si perfezionava nel XVI sec. con l’acquisto, da parte di Cosimo I (1555), dello Stato senese e del suo vasto territorio maremmano. Di questa necessità di adeguamento avrebbe in prima istanza fatto le spese la repubblica indipendente di Lucca cui a più riprese furono imposti aggiustamenti diocesani tesi a conciliare la dominazione politica con l’amministrazione religiosa. L’interferenza del potere centrale fiorentino nella distrettualizzazione ecclesiastica si espresse anche attraverso l’imposizione, da parte della dominante, di prelati scelti nelle file delle clientele medicee o comunque negli ambienti vicini al Reggimento. Volendo istituire una cronologia sommaria della frammentazione diocesana avvenuta a partire dal tardo Medioevo e dalla prima età moderna occorrerà iniziare dal 1325, con la creazione della nuova diocesi di Cortona cui furono assegnati, ai danni delle confinanti diocesi aretina, chiusina e tifernate, i territori soggetti al dominio dei Casali. Questo processo di frammentazione si sarebbe accentuato nel secolo successivo, quando – nel 1462 – papa Pio II dava vita alle diocesi di Pienza e di Montalcino scorporando – da buon senese ai danni della antica rivale Arezzo – ampie zone delle terre di San Donato e di Chiusi: insistettero su queste stesse aree della Toscana orientale anche le nuove circoscrizioni di Sansepolcro (1515) e di Montepulciano (1561), mentre nel 1592, con la creazione della diocesi di Colle si sottraeva la Valdelsa senese al controllo degli eredi di sant’Ansano. Il XVII sec. vedeva la nascita, nel 1622, della diocesi di San Miniato con la quale si adeguava nel medio Valdarno il confine ecclesiastico del Granducato rispetto a quello lucchese. Nel 1653 anche il territorio urbano di Prato era sottratto alla sua detestata matrice pistoiese ed eretto in diocesi autonoma;
e ancora nel 1727 si perfezionava la separazione ecclesiastica dello stato fiorentino da Lucca con la creazione della diocesi di Pescia, cui anticamente la Valdinievole era per lo più soggetta;
nel 1777 quasi tutta la Lunigiana e le terre afferenti al comune di Fivizzano, già poste sotto la giurisdizione dei vescovi di Luni-Sarzana, erano accorpate con la creazione della nuova diocesi di Pontremoli. Un ulteriore assestamento avvenne poi il 18 luglio 1789 quando il pontefice Pio VI, su istanza del granduca Pietro Leopoldo, ordinò che i due vicariati di Barga e di Pietrasanta e le parrocchie di Ripafratta fossero scorporate dalla diocesi lucchese per entrare a far parte del vescovato di Pisa (cui peraltro, qualche lustro più tardi, sarebbe stata tolta tutta l’area costiera, fino a Cecina, per dotare la nuova diocesi di Livorno, eretta nel 1806);
nel 1822 infine, con la creazione della sede vesco vile di Massa Carrara si sottraevano alle contermini Luni-Sarzana e Lucca i territori della Lunigiana meridionale e della Garfagnana. Unica eccezione a questo processo di frantumazione fu, nel 1772, l’unione aeque principaliter della diocesi di Pienza a quella di Chiusi. La disordinata crescita del tessuto diocesano tra XV e XVIII sec. e la frammentazione che essa indusse originò alcuni tentativi di riassetto per ovviare alla complicazione costituita dalla non coincidenza tra i confini ecclesiastici e quelli politici, specialmente nelle zone di confine. Ad esempio tutta l’area transappen ninica di dominio granducale (fatta eccezione per le comu nità di Firenzuola e Palazzuolo, comprese quasi per intero nel vescovato di Firenze) era divisa fra le diocesi di Bolo gna, Imola, Faenza, Forlì e Sarsina: per ovviare a questo problema nella seconda metà del XVIII sec. tutta la parte orientale di questa zona venne sottoposta alla giurisdizione del vescovo di Sansepolcro, mentre quella occidentale costituì, dal 1850, il vescovato di Modigliana. Per consentire questa nuova sistemazione territoriale furono apportate anche piccole modifiche ai confini fra Bologna, Imola e Firenze. Alle intrusioni dei «vescovadi forestieri» (Faenza, Bertinoro, Forlì, Imola, Sarsina, Città di Castello, Bologna, Città della Pieve, Acquapendente, Montefeltro, Lucca) nello Stato granducale, andavano altresì aggiunte le numerose isole giurisdizionali costituite dalle abbazie nullius, come quella delle Tre Fontane, direttamente afferente al soglio pontificio e che solo nel 1927 sarebbe stata affidata, in qualità di delegato apostolico, al vescovo di Grosseto;
o quella di Monte Oliveto Maggiore, distaccata nel 1767 dalla giurisdizione della diocesi di Siena e, per concessione di papa Clemente XIII, resa nullius, con il privilegio che conferisce all’abate la dignità vescovile. Le complesse trattative intercorse in età leopoldina tra il governo granducale e la curia pontificia per queste ridefinizioni chiamarono in causa il pontefice anche nel suo ruolo di sovrano temporale di molte delle diocesi in questione. Nell’affrontare il problema della composita distrettualizzazione diocesana della regione, il granduca procedette nello stesso modo impiegato per la soppressione dei conventi: facendo largo uso di inchieste conoscitive, rilevazioni dei dati e confronti che in questo specifico caso si tradussero nell’uso sistematico della cartografia, che si rivelò strumento essenziale del progetto. È infatti solo a partire da questo periodo che è possibile identificare con certezza i confini e le effettive distribuzioni territoriali delle diocesi toscane. La stagione particolare vissuta dalla chiesa nella Toscana granducale, pur se non ebbe esiti diretti sulla morfologia diocesana, è tuttavia fondamentale per la comprensione della storia ecclesiastica della regione. Con la fine della dinastia medicea e l’avvio della stagione lorenese, infatti, la Toscana attraversò un periodo di rinnovamento che, dal 1765 al 1790, interessò in profondità oltre che le istituzioni ecclesiastiche, anche le abitudini e la mentalità religiosa diffuse. Già agli esordi della Reggenza, quando i ministri lorenesi si insediarono ai vertici di uno stato assai diverso, dal punto di vista costituzionale, da quello mediceo, applicarono una linea giurisdizionalistica che li portò ben presto a scontrarsi non solo con quelli che consideravano abusi del clero locale, ma anche e soprattutto con Roma. Espressione di un rinnovamento della cultura giuridica a cui non furono estranee anche le nuove «voghe» culturali massoniche, caratterizzate da un forte spirito antigesuitico, i nuovi amministratori promossero una raffica di riforme che aggredirono in prima istanza privilegi e «diritti» radicati nel costume ecclesiastico. Una severa religiosità di ispirazione giansenista sosteneva questa visione che rivendicava alla stato la piena giurisdizione, eliminando ogni interferenza «esterna» ai suoi poteri, così come evidenziava, in più parti d’Europa in quegli anni, il vivace dibattito intellettuale sui rapporti tra potere laico ed ecclesiastico. In questa linea «giuseppinistica » si inserivano tutta quella serie di interventi che dal 1769 al 1771 incisero sul sistema di «immunità» che la chiesa aveva sviluppato nei confronti dell’autorità civile nel lungo periodo medievale e moderno dello stato mediceo in Toscana: le nuove leggi sulla manomorta (1769 e 1771), l’abolizione dei privilegi fiscali del clero e della proprietà ecclesiastica, l’abolizione del diritto d’asilo (1769), le restrizioni imposte nel 1782 al Santo Ufficio o ancora, tra 1778 e 1784, i provvedimenti poi sfociati nella abolizione di ogni foro ecclesiastico, sarebbero stati, insieme a una attenta politica di riduzione del numero delle «persone ecclesiastiche» (in particolare dei regolari), i primi passi di una riforma complessiva della intera struttura ecclesiastica. Per rendere possibile questa radicale trasformazione fu indispensabile introdurre nei gangli della amministrazione religiosa una serie di «uomini nuovi» tra i quali spiccano le figure di Antonino Baldovinetti, chiamato a coprire la carica di proposto della Chiesa livornese, o di Niccolò Sciarelli, vescovo colligiano, entrambi assai vicini al vescovo di Pistoia e Prato Scipione de’ Ricci, consigliere ecclesiastico del granduca, al quale sarebbe spettato l’avviare nella sua diocesi quelle sperimentazioni in campo religioso che Pietro Leopoldo si proponeva di estendere poi all’intero Stato. Animato da una forte avversione per l’ordine dei gesuiti e in genere per le comunità regolari, il progetto ricciano mirò al rafforzamento della struttura secolare del clero – cui si intese restituire autonomia rispetto all’ingerenza centralizzante di Roma – e alla valorizzazione del ruolo dei parroci nella vita ecclesiale. Da questa visione «parrochista» discese l’incameramento dei beni degli enti religiosi privi di cura d’anime e la formazione di un «patrimonio ecclesiastico» che, sotto l’egida dello Stato, avrebbe dovuto essere amministrato dai vescovi a vantaggio del clero adibito alla cura delle anime. La preconizzata centralità pastorale del clero parrocchiale imponeva anche una radicale revisione della formazione religiosa che avrebbe dovuto trovare la sua punta di diamante nel rinnovamento dei seminari e nella fondazione di accademie ecclesiastiche di alto profilo. Passò attraverso questa intenzione la promozione di una cultura teologica e pastorale di chiara ispirazione giansenista che il sinodo della Chiesa pistoiese, promosso nel settembre 1786, avrebbe dovuto ratificare, consentendo l’avvio delle riforme volute dal granduca. Condensata nei «Cinquantasette Punti Ecclesiastici » che Pietro Leopoldo si riproponeva di sottoporre alla valutazione dei vescovi toscani in una assemblea prevista per il 1787, questa visione «illuminata» della pietà e della devozione doveva scontrarsi dapprima con la resistenza dei vescovi toscani, poi con l’opposizione dei suoi collaboratori più stretti (come Stefano Bertolini, succeduto al Rucellai a capo della segreteria del regio diritto, o Francesco Seratti, o Francesco Maria Gianni, ministro responsabile della riforma comunitativa) e infine con quella crisi dinastica degli Asburgo che avrebbe infine portato il granduca di Toscana ad assumere a Vienna la responsabilità imperiale. Dopo la parentesi riformista, vissuta con ostilità e aperta dissidenza dalla maggior parte dell’episcopato e del clero toscano, si apriva la stagione «rivoluzionaria» del governo francese e con essa l’avvio di quelle «insorgenze » che trovarono nelle sonnolente diocesi rurali della regione il terreno di coltura ideale per il violento sradicamento degli alberi delle libertà giacobine. Mentre il Viva Maria riattribuiva alla Vergine un ruolo politico che era stato caro anche al guelfismo medievale, la richiesta di intercessione di una popolazione stremata dalla miseria si esprimeva in una interrotta serie di teofanie mariane che ripristinavano l’antico tessuto santuariale della regione, facendo della Toscana una delle zone a maggiore «densità sacra» dell’intera penisola. Nel lungo periodo che si era snodato tra X e XIX sec. le diocesi toscane erano passate da dodici a ventidue, ripartite in tre sedi metropolitane con dieci suffraganee e otto diocesi direttamente soggette alla sede romana. Sostanzialmente questa situazione rimase invariata fino agli anni Cinquanta del Novecento, quando furono introdotte alcune modifiche: singolarmente l’età contemporanea riproponeva annose «questioni medievali», come la riat tribuzione a Siena dell’antico piviere di Asciano, detenuto dai vescovi di Arezzo, a riprova della lunghissima durata di una contesa territoriale ereditata dall’età longobarda;
e ancora, per restare nelle terre senesi, l’aggregazione all’episcopio dell’Assunta dei vicariati di Monticiano e Chiusdino, scorporati da Volterra: esito finale di una «conquista» avviatasi nel tardo XII sec., quando i cisterciensi sostenuti dalla Balzana si erano sovrapposti al ricordo di San Galgano incorporandone la leggenda;
nemesi poteva parere anche la «riconquista» toscana della Capraia dopo il lungo dominio genovese, quando l’isola veniva attribuita a Livorno, figlia di Pisa e antica rivale degli eredi di san Siro. Anche Prato vedeva coronate le sue richieste medievali, con quell’ampliamento del suo tessuto diocesano oltre le mura civiche che Pistoia non aveva mai accettato nel lungo periodo dell’antico regime. I nuovi confini regionali imposero in quegli anni un adeguamento di quelli ecclesiastici, con l’eliminazione di molte enclaves toscane nelle regioni limitrofe: così si restituì alla Romagna l’area transappenninica in precedenza attribuita a Sansepolcro, che veniva assegnata a Forlì e Cesena (la diocesi di Modigliana, che interessava la Toscana per il solo comune di Marradi, sarebbe stata unita a Faenza nel 1986);
passarono alla Liguria – nella fattispecie alla diocesi di La Spezia – quei comuni non toscani che afferivano dal punto di vista religioso alla giurisdizione Apuana;
analogamente l’Umbria ecclesiastica, rappresentata dalla diocesi di Città della Pieve, cedeva il comune di Santa Fiora ai vescovi di Grosseto, i quali acquisivano in quegli anni anche il territorio posto sulla sinistra del fiume Ombrone, già appartenente alla diocesi di Sovana-Pitigliano. Con la riforma del 1986 entravano in vigore le nuove «circoscrizioni territoriali ecclesiastiche» che ridussero in tutta Italia il numero delle diocesi da 325 a 228 e che in Toscana portarono alla creazione di nuove diocesi frutto della fusione – e non di unioni in persona episcopi come era stato, ad esem pio, il caso di Pienza e Chiusi nel 1772 – di più sedi episcopali. Con questo processo si aggregarono i rispettivi territori e si tentò, con la maggior coerenza possibile, di rispettare anche le antiche vicinanze culturali, spesso ripristinando le territorializzazioni medievali frammentate dal particolarismo dell’età moderna. Furono in questa occasione soppresse sei diocesi: Cortona e Sansepolcro, che vennero unite ad Arezzo;
Chiusi e Pienza, unite a Montepulciano;
Colle di Val d’Elsa e Montalcino, che andarono ad aggiungersi a Siena.
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FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.