Diocese of Lucca
HISTORY
I - Le origini e l’età medievale
La diocesi di Lucca era nel Medioevo molto più estesa rispetto all’attuale provincia e comprendeva i territori di Barga e di Pietrasanta – ora inseriti in quella di Pisa – oltre ad ampie porzioni della Valdinievole, della Valdera e del Valdarno, entrate in età moderna a far parte delle diocesi di Pescia e di San Miniato.In età longobarda incorporava poi alcune zone originariamente appartenenti alla diocesi di Pisa.
Anche se la diocesi doveva essersi costituita già da qualche decennio, la prima attestazione della presenza di un vescovo risale al 343.
Storicamente inattendibile è la leggenda del protovescovo Paolino, discepolo di san Pietro, costruita nel XIII . per nobilitare la città, che avrebbe ricevuto per prima in Etruria la fede cristiana, e per ricollegare più strettamente la diocesi alla sede romana, cui era immediatamente soggetta.
Sulla base di alcune tradizioni agiografiche (come quella relativa a san Torpé) e di altri indizi, si può presumere che la prima evangelizzazione sia avvenuta a partire dalla costa tirrenica.
Due antichi cataloghi episcopali, giunti in copia del XII sec., risultano incompleti e in parte discordanti, privi di un preciso ordine cronologico: il primo, che comprende quindici nomi e appare riconducibile al VI sec., menziona al primo posto un Obsequentius non altrimenti noto, e all’ottavo il primo presule conosciuto, Massimo (assente nel secondo elenco); il secondo vescovo, l’unico definito sanctus, è Frediano che, di origine probabilmente irlandese, visse però nel VI . La tradizione agiografica ha trasfigurato il ruolo pubblico svolto da Frediano per la salvaguardia del territorio e dei suoi abitanti in un periodo di crisi.
Venerato come compatrono della diocesi, accanto al titolare della cattedrale, san Martino, la sua festa ricorre in tutti i calendari liturgici lucchesi il 18 novembre.
L’invasione longobarda accrebbe notevolmente l’importanza dei vescovi lucchesi, che acquisirono vaste proprietà in diverse aree della Toscana, sino alla Maremma.
Per alcuni secoli la città fu la vera capitale della marca di Tuscia: i suoi presuli, scelti nell’ambito dell’aristocrazia longobarda e poi franca, svolsero nella regione un ruolo anche politico, che oltrepassava i confini diocesani.
Indimostrata è la contemporanea esistenza, nella prima età longobarda, di un vescovo ariano e di uno cattolico, cui avrebbero fatto capo chiese diverse.
La prima cattedrale va individuata nella chiesa dei santi Giovanni e Reparata che, dopo il passaggio della funzione episcopale (nell’VIII . o prima) alla chiesa di San Martino, svolse il ruolo di pieve urbana; altre cinque importanti chiese cittadine (San Frediano, San Michele in Foro, San Pietro Maggiore, San Donato, Santa Maria Forisportam), dette «sedali», erano sede della liturgia stazionale del periodo pasquale, secondo il modello romano.
Il capitolo dei canonici di San Martino assunse dal X . un particolare rilievo istituzionale, e dal suo seno vennero scelti nel XII e XIII sec., a opera degli stessi canonici, i vescovi, prima della definitiva affermazione della nomina da parte della Sede romana.
I presuli usarono ampiamente, soprattutto dal 970-980 al 1100 circa, lo strumento del livello per legare a sé i ceti eminenti del territorio diocesano; successivamente stabilirono con essi rapporti di tipo vassallatico.
Durante l’età della riforma «gregoriana » la Chiesa lucchese fu retta da vescovi riformatori di origine milanese, Giovanni II (1023-1056), Anselmo I da Baggio (1056-1073), divenuto papa con il nome di Alessandro II, e suo nipote Anselmo II (1073-1086), che dovettero affrontare l’ostilità di gran parte dei canonici della cattedrale, restii ad accettare la vita comune e il celibato.
Con il sostegno dell’imperatore Enrico IV e di ampi settori dell’aristocrazia locale, fu eletto nel 1081 il vescovo scismatico Pietro, che governò la diocesi per alcuni anni, mentre Anselmo II morì in esilio a Mantova presso Matilde di Canossa.
Soltanto il vescovo Rangerio (1096- 1112), presumibilmente di origine francese, riprese saldamente il controllo di tutto il territorio diocesano, sulla base della riconciliazione con quegli ampi settori della società cittadina che avevano appoggiato lo scisma.
Anche per questo motivo, nonostante l’estensione delle proprietà e il controllo di centri fortificati come Moriano e Santa Maria a Monte, i presuli, che solo dopo la metà del XIV . assunsero il titolo di comes, non ebbero mai un ruolo politicamente importante in città.
Il simbolo unificante della città non fu identificato in un santo vescovo «patrono», ma nel «Volto Santo», un’immagine del Cristo trionfante con gli occhi aperti, venerata soprattutto a partire dalla fine dell’XI sec., anche se nei secoli successivi san Paolino fu proclamato patrono della diocesi.
Nella prima metà dell’XI . Lucca fu caratterizzata da un forte interesse per l’istituzione di canoniche regolari: particolare rilievo assunse quella di San Frediano, cui già dalla fine dell’XI . e nel corso del XII si affiliarono enti toscani e di altre regioni, e addirittura la stessa cattedrale di Roma, San Salvatore (poi San Giovanni) in Laterano, che però riottenne la propria autonomia nel 1153.
Ancora in ambiente lucchese, nel 1402, canonici di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia, appartenenti alla congregazione Lateranense, ripristinarono la vita regolare in Santa Maria di Fregionaia presso Lucca – già dipendente dalla canonica di San Frediano – e promossero la riforma canonicale cui aderirono molte comunità, fino alla costituzione a opera del papa Martino V nel 1421 della congregazione di Santa Maria di Fregionaia, che dopo il 1438 prese il nome di San Salvatore in Laterano.
A essa nel 1517 fu unita la congregazione di San Frediano di Lucca.
Dalla fine dell’XI . furono presenti nella diocesi le diverse congregazioni benedettine: i cluniacensi, cui aderirono ben quattro monasteri, i camaldolesi e i vallombrosani, rispettivamente con tre e due cenobi, i benedettini pulsanesi, che fondarono alla metà del XII . l’abbazia di Guamo, i florensi all’inizio del Duecento con due insediamenti, i cisterciensi nel secondo quarto del XIII . (tre cenobi) e infine gli olivetani, che nel 1378 s’insediarono in San Ponziano di Lucca.
Nel XIV . fecero il loro ingresso in Toscana i certosini, favoriti da cospicui rappresentanti dei ceti più elevati, che nel 1340 fondarono la certosa di Santo Spirito di Farneta, ancora esistente.
Nel XII . si incontrano anche le prime presenze di ordini assistenziali e militari: i templari attestati dal 1157 e gli ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme testimoniati dal 1190.
Nel XIII . la città e il territorio si aprirono ai nuovi ordini mendicanti: le clarisse, insediate nel 1219 a Gattaiola per interessamento del cardinale Ugolino d’Ostia, futuro papa Gregorio IX; i francescani, presenti nel terzo decennio del XIII . nella chiesa di Santa Maria Maddalena; i domenicani che, provenienti da Pisa, fondarono nel 1236 il convento di San Romano; i Servi di Maria nel 1254; i carmelitani.
Numerose furono le celle eremitiche, spesso fondate per iniziativa di gruppi laicali, confluite nella prima metà del Duecento in congregazioni o confederazioni che contribuirono alla nascita dell’ordine agostiniano.
Non va dimenticata nel XIII . la figura della santa serva Zita.
Una presenza ereticale è attestata alla fine del XII sec., presso Fucecchio, e durante la signoria di Castruccio Castracani (1314-1328), alleato dell’imperatore Ludovico il Bavaro e quindi delle correnti pauperistiche del francescanesimo.
Nei secoli XIV e XV comparvero vescovi di origine francese o comunque non locale, non sempre effettivamente residenti, mentre i canonici della cattedrale vennero reclutati abitualmente all’interno del ceto magnatizio e, durante i governi signorili di Castruccio e di Paolo Guinigi, tra le famiglie fedeli al signore.
Rilevante nella storia del pensiero politico fu la figura del domenicano Tolomeo da Lucca, poi vescovo di Torcello (†1327), che continuò il De regimine principum di Tommaso d’Aquino, e narrò la storia della propria città nell’ottica guelfa.
Alla fine del Medioevo l’insegnamento del Savonarola esercitò un’influenza particolare su un gruppo di religiosi lucchesi, alcuni dei quali accolsero le idee della Riforma protestante.
II - L’età moderna
Mentre il potere politico, soppresso ogni superstite retaggio di partecipazione popolare, si chiudeva in un’oligarchia urbana, destinata a lenta agonia – anche sul piano demografico – per l’adozione di norme volte a escludere l’emergere sulla scena politica di nuove famiglie, la Chiesa di Lucca conobbe il dramma della crisi della Riforma ai cui protagonisti toccò il destino dell’esilio fuori d’Italia, nella lontana Ginevra.Flebile, ma non del tutto assente, fu l’eco delle polemiche gianseniste.
Invece, alla metà del Settecento, ben più ampio respiro ebbero le iniziative religiose e culturali dell’arcivescovo Giovanni Domenico Mansi.
Tuttavia, ancora agli inizi dell’Ottocento, il carattere dei costumi religiosi locali si riassumeva in continue celebrazioni liturgiche, affollate processioni, devozione esteriore, religiosità ancorata al binomio miracoli- immagini sacre.
Protagonista della repressione del dibattito religioso fu a Lucca il potere politico.
Dalla metà del XVI . a svolgere ampie funzioni di controllo, e per taluni aspetti di governo, sulla disciplina ecclesiastica e sull’ortodossia confessionale furono le due magistrature dell’Offizio sopra la Religione e dell’Offizio sopra la Giurisdizione.
Il primo, istituito sin dal 1545 per la repressione dell’eresia, dette vita nel 1562 all’Offizio sopra la Giurisdizione, il cui compito essenziale consisteva nell’impedire un eccessivo ampliamento della giurisdizione ecclesiastica – del vescovo e della Santa Sede – nei domini lucchesi.
Tale politica giurisdizionalistica si dimostrò assai attenta a impedire che le risorse economiche della Chiesa lucchese uscissero «fuori di Stato» e operò affinché il personale ecclesiastico fosse composto solo da sudditi.
L’attività di questi uffici governativi ebbe una pesante ricaduta sui rapporti fra il potere civile e quello episcopale: soprattutto nel lungo Seicento, caratterizzato da una violenta tensione fra Stato e Chiesa locale, per la pretesa dei presuli di far portare armi ai propri impiegati.
Dopo i lunghi conflitti cinquecenteschi fra il vescovo Alessandro Guidiccioni e la città «infetta dall’eresia», fra il XVI e il XVII . fu il nipote Alessandro – terzo vescovo consecutivo della famiglia – a rinverdire gli scontri giurisdizionali, che lo costrinsero a un esilio di sedici anni.
Sempre per tali motivi nella prima metà del XVII . il vescovo Marcantonio Franciotti fu costretto a dimettersi, mentre nella seconda metà il genovese Giulio Spinola (1666-1690) preferì rifugiarsi a Pietrasanta, nel Granducato di Toscana, così pure agli inizi del Settecento il vescovo Orazio Filippo Spada dovette prendere la via dell’esilio.
Alla fine del Cinquecento anche un entusiasta protagonista della Controriforma, Giovanni Leonardi, fondatore nel 1574 dei chierici regolari della Madre di Dio, aveva dovuto abbandonare la sua patria.
La congregazione, insediata nella chiesa di Santa Maria in Cortelandini, era dedita all’insegnamento della dottrina cattolica ai fanciulli e alle attività parrocchiali.
Durante la tempesta napoleonica, invece, l’arcivescovo Filippo Sardi riuscì nei suoi trentasette anni di episcopato a traghettare istituzioni e fedeli dall’antico regime alla rivoluzione, dal principato di Elisa Bonaparte al ducato di Maria Luisa Borbone, con una saggezza e una lungimirante prudenza che permise di evitare gli eccessi dei vincitori di turno.
Dagli inizi del Cinquecento la diocesi di Lucca ha subito una serie di smembramenti, che condussero i suoi confini a coincidere quasi perfettamente con quelli della Repubblica.
Nel 1519 il papa Leone X elevò il piviere di Pescia in «prepositura nullius dioecesis», sottoponendogli parrocchie della val di Nievole e della valle Ariana e costituendo così il corpo della futura diocesi settecentesca; nel 1622 Gregorio XI eresse in vescovato la prepositura di Santa Maria e San Ginesio di San Miniato, ponendo alle sue dipendenze i pivieri lucchesi a sud dell’Arno compresi nel Granducato di Toscana.
Il 18 luglio 1789 Pio VI assegnò le parrocchie di Ripafratta nel Monte Pisano e del vicariato granducale di Barga in Garfagnana all’arcidiocesi di Pisa, che cedette il piviere di Massaciuccoli; il 18 settembre 1798 lo stesso papa dette alla medesima arcidiocesi il pievanato di Pietrasanta.
Nel 1823 Leone XII attribuì alla nuova diocesi di Massa i pivieri garfagnini di Fosciana e di Caregine e parte di quello di Gallicano: a Massa passarono ancora altre parrocchie del vicariato di Gallicano nel 1875, quando ormai, con il Regno d’Italia, erano state superate le ragioni politiche (l’appartenenza a un diverso Stato), che inducevano a modificare l’estensione del territorio diocesano per adattarla ai distretti civili.
Una ben più grave e intestina lacerazione avvenne il 28 giugno 1518, allorché, su richiesta di Silvestro Gigli, arciprete e vescovo di Worcester in Inghilterra dal 1498 al 1521, papa Leone X soppresse il priorato agostiniano di San Michele in Foro e lo eresse in collegiata di San Michele in Foro, composta inizialmente dal decano, nove canonici e nove cappellani, sottoposta direttamente alla Santa Sede e con giurisdizione spirituale sulle parrocchie rurali di Fagnano, di Sant’Alessio e di Monte San Quirico, nonché sulla piazza cittadina.
Il pontefice conferì il patronato alla famiglia Gigli, da cui nel 1724, per disposizione testamentaria di Pompeo Gigli, passò al governo lucchese.
Naturalmente, poiché l’intervento papale derogava al diritto canonico consuetudinario, il privilegio di Leone X fu causa di continue liti sulla nomina del parroco, spettante – secondo le antiche costituzioni – al capitolo della collegiata, e provocò i soliti problemi procedurali, amministrativi ecc.
con le altre autorità ecclesiastiche cittadine.
In questa complessa vicenda di progressiva e inarrestabile erosione la Chiesa lucchese conobbe un unico successo, la promozione a sede arcivescovile a opera di papa Benedetto XIII l’11 settembre 1726.
Si trattava di un arcivescovato anomalo, perché privo di diocesi suffraganee, tuttavia la decisione era fondata su buone motivazioni politiche.
Infatti, secondo il concilio Romano del 1725 tutti i vescovi «immediatamente soggetti», salvo quelli dello Stato della Chiesa, avrebbero dovuto scegliersi come metropolita quello più vicino.
A questo punto, di fronte alle proteste del vescovo di Lucca, che avrebbe dovuto sottoporsi alla giurisdizione metropolitana dell’arcivescovo pisano, suddito del granduca di Toscana, il pontefice elevò il vescovato di Lucca in arcidiocesi.
Le istituzioni ecclesiastiche lucchesi conobbero nell’età moderna un periodo di consolidamento e incremento sul territorio.
I regolari continuarono a crescere: alla metà del Settecento, nella città di Lucca si contavano undici case conventuali maschili e dodici monasteri femminili.
Sul piano delle strutture diocesane secolari, si osservano da una parte le amplissime dimensioni raggiunte dal «giuspatronato» laicale, cioè dalle nomine da parte dei laici agli uffici ecclesiastici, dall’altra l’estrema divaricazione fra le rendite dei benefici ecclesiastici, indipendentemente dai loro diversi oneri d’ufficio.
Nel 1808, alla vigilia delle riforme del Baciocchi, in città su centosessanta fra benefici ecclesiastici semplici e cappellanie (che nel complesso godevano di un’entrata di novantunomila lire ed erano gravati da oneri per oltre cinquantacinquemila lire), ben centoquattro erano di esclusivo giuspatronato laicale familiare e/o privato e solo otto ricadevano nella libera collazione vescovile.
Nello stesso anno, nella cattedrale di San Martino vi erano sedici canonici, con una rendita netta oscillante fra le centonovantacinque e le duemilacentocinquanta lire (ma la mensa capitolare ne distribuiva quasi milleduecento a ciascun canonico), e quaranta cappellani (di cui ventuno di giuspatronato privato e solo quattro di libera collazione vescovile), che godevano una rendita netta oscillante fra le quattro e le milletrecento lire circa, alle quali si aggiungevano distribuzioni corali di circa quattrocentocinquanta lire a testa.
Anche nelle altre chiese collegiate urbane (San Michele in Foro, Santi Paolino e Donato, Santi Giovanni e Reparata, San Pietro Maggiore e Sant’Alessandro Maggiore), si registravano rendite assai differenziate: dalle cinquemilacinquecento lire del priore dei Santi Paolino e Donato alle cinquanta di alcuni canonici di San Michele.
Lo stesso avveniva per gli altri parroci cittadini, dalle buone rendite dei rettori di San Frediano (oltre duemila lire) o di San Pietro Somaldi (più di milleseicento) alle settecento di San Matteo e San Salvatore.
Particolarmente basse erano soprattutto le rendite dei curati, anche di sole centottanta lire.
Fra i 281 benefici ecclesiastici semplici e cappellanie presenti nelle campagne lucchesi, ben duecentodue erano di giuspatronato laicale familiare e/o privato, solo una decina rientravano nella libera collazione vescovile e tutti gli altri erano di patronato comunitario.
Per la maggior parte questi benefici semplici rurali erano stati fondati fra gli inizi del XVII . e la metà del XVIII, nel periodo definito età della Controriforma devozionale.
III - L’età contemporanea
Nel 1847 viene meno lo Stato cittadino lucchese; la diocesi, attraverso un processo progressivo, da secoli aveva finito per coincidere con i confini statuali, pur senza identificarvisi; infatti lo Stato cittadino aveva mantenuto e sottolineato le sue istituzioni autonome anche in campo giurisdizionale.Inoltre, resistendo all’annessione da parte dello Stato toscano fino alla vigilia dell’unità nazionale, aveva mantenuto istituzioni politiche e amministrative proprie; nella società lucchese erano molto forti tradizioni peculiari nei rapporti tra Chiesa e Stato e Chiesa e società.
Per comprendere il carattere conservatore della mentalità politica e religiosa dominante a Lucca tra Otto e Novecento bisogna risalire al regime oligarchico prevalso nel Cinquecento, al predominio esercitato per secoli da un patriziato in grado di controllare in modo capillare un piccolo territorio, al controllo confessionale e disciplinare esercitato dalle magistrature cittadine (l’Offizio sopra la Religione e l’Offizio sopra la Giurisdizione) e al grande peso e influenza esercitati dal clero.
Il patriziato e il clero esercitavano un peso decisivo sulle popolazioni contadine, che «per influenza e per possesso» erano «loro interamente devote», come notava il prefetto Compagni nel 1849.
Fino alla fine del Settecento i due terzi della proprietà terriera erano stati nelle loro mani e «l’influenza» era indice di una egemonia di lunga durata che andava ben al di là del peso dovuto al «possesso».
Nel periodo rivoluzionario e napoleonico la proprietà nobiliare ed ecclesiastica era stata ridotta con l’abolizione dei fidecommessi (1799), l’indemaniazione dei beni delle opere pie, dei monasteri e dei capitoli soppressi dai Baciocchi.
Nella Restaurazione la Chiesa aveva tratto benefici molto più consistenti del patriziato; infatti questo continuava a risentire negativamente dell’abolizione dei fidecommessi e dei maggioraschi, mentre Maria Luisa Borbone aveva restituito agli ordini religiosi e ai capitoli gran parte dei beni incamerati (diciassette monasteri, undici femminili e sei maschili) e aveva abrogato nel 1818 la legge del 1764 che vietava ogni donazione o lascito a favore della manomorta ecclesiastica, che si sarebbe alquanto accresciuta.
I beni e i privilegi del clero rafforzavano una simbiosi tra ordine e religione che avrebbe contraddistinto la società e la mentalità lucchese come caratteristica propria e originale all’interno dello Stato toscano.
Anche i dati numerici sulla presenza del clero sono significativi: intorno al 1850 in Italia vi era un sacerdote (secolare e regolare) ogni 250 abitanti, in Toscana in media un sacerdote (secolare e regolare) ogni 193 abitanti, nella diocesi di Lucca uno ogni 166 abitanti, mentre nella città di Lucca un sacerdote ogni 54 abitanti.
Se si considera il numero degli ecclesiastici nella città di Firenze nel decennio 1838- 1847 (Zuccagni-Orlandini) si ha un secolare ogni 119 cattolici, un religioso ogni 235 e una religiosa ogni 121; a Lucca si trova un secolare ogni 57 abitanti, un regolare ogni 97 e una religiosa ogni 60 abitanti.
L’altissima frequenza alla pratica religiosa che superava il 90 per cento, registrata negli atti delle visite pastorali di monsignor Arrigoni nei decenni centrali dell’Ottocento, anche quando era stato abbandonato il controllo esercitato dai «biglietti pasquali», può essere considerata una testimonianza significativa dell’adesione riscossa dal cattolicesimo e del peso esercitato sui comportamenti individuali dai valori e dalle tradizioni della «società cristiana» lucchese.
All’interno di questo quadro così caratterizzato un ruolo importante veniva svolto dall’azione pastorale dei vescovi.
Al momento dell’annessione alla Toscana, nel 1847, la sede episcopale era vacante essendo morto nel 1846 il vescovo Pietro Pera; il granduca Leopoldo II propose con forza il francescano Giulio Arrigoni, bergamasco trasferito in Toscana, che non poteva essere sospettato di troppa condiscendenza verso il giurisdizionalismo leopoldino.
Ma a Lucca la sua candidatura non era gradita: aveva fama di liberale, e questo era all’origine anche delle diffidenze romane, e non «era dello Stato»; infatti una tradizione di lunga durata vedeva l’ordinario provenire dal clero lucchese e, fino a Giuseppe de Nobili, arcivescovo dal 1826 al 1836, da una famiglia patrizia della città.
In realtà Arrigoni, che avrebbe governato la diocesi dal 1850 al 1875, non può essere considerato un cattolico liberale, ma piuttosto espressione di un orientamento neoguelfo e conciliatorista che, con oscillazioni e contraddizioni, cercava di conciliare una tutela privilegiata della religione cattolica con l’esigenza di rispettare le coscienze e di tollerare le idee non conformi all’ortodossia.
Nei rapporti con lo Stato toscano il vescovo difendeva la «libertà » della Chiesa lucchese opponendosi all’introduzione delle leggi giurisdizionali toscane; la stessa linea mantenne anche dopo il 1859, riuscendo a conservare una certa autonomia, come quella relativa alla pubblicazione dei documenti episcopali, fino al 1864.
Ampio è il suo impegno pastorale che cercava di coniugare una religiosità fortemente devozionale molto prevalente con una più solida formazione religiosa; il vescovo incrementò l’insegnamento della catechesi ai fanciulli e anche agli adulti, per questi riattivò le scuole serali, nelle quali reintrodusse l’insegnamento della lettura e della scrittura, seguì con attenzione la preparazione dei catechisti.
La parrocchia fu posta al centro dell’attività pastorale, i religiosi potevano e dovevano collaborare con i parroci che rimanevano gli unici responsabili dell’attività pastorale nei confronti del vescovo.
Per questi organizzò anche settimane di esercizi spirituali.
Notevole è anche la sua cura per la riorganizzazione degli studi e il miglioramento del livello di preparazione del clero nei due seminari, di San Martino e di San Michele, presenti in diocesi, nei primi anni si assunse personalmente il compito di direttore degli studi.
Promosse anche le prime associazioni laicali, soprattutto di carattere religioso, appoggiò la formazione dei primi circoli giovanili di Azione cattolica, promosse con continuità la raccolta dell’obolo di san Pietro.
La sua difesa della Chiesa come unica portatrice di libertà gli procurò le critiche dei liberali e anche del Passaglia, anche se la linea espressa nelle sue lettere pastorali tendeva a riaffermare una qualche possibilità di dialogo.
Il successore dell’Arrigoni, Nicola Ghilardi (1875-1905), pur essendo un suo collaboratore, non seguiva con la stessa decisione la preparazione e la disciplina del clero.
Negli anni Ottanta la Chiesa lucchese si caratterizza con una presenza molto ampia, indubbiamente la più forte in Toscana, all’interno dell’Opera dei congressi.
La grande adesione al movimento cattolico non rappresenta unicamente un fatto religioso o ecclesiale, essa raccoglie un appoggio decisivo da parte del patriziato lucchese che rimpiange lo Stato cittadino e cerca di mantenere la propria identità trasformandosi nel gruppo dirigente del movimento cattolico; significativa la presenza di esponenti delle famiglie Mansi, Sardi, Burlamacchi.
Lucca si caratterizza come città «bianca», nella quale l’intreccio tra caratteristiche sociali e religiose è peculiare.
Il Comitato diocesano lucchese dirige l’Opera dei congressi in tutta la regione toscana, nel 1887 si tiene a Lucca il VII congresso nazionale.
Bottini e Sardi sono fin dal suo nascere vicepresidenti della Unione cattolica per gli studi sociali in Italia alla quale Leone XIII assegna Lucca come sede.
Nel 1897 nasce a Lucca la prima Democrazia cristiana con alcuni rappresentanti che cercano di organizzare un movimento operaio cattolico, mentre molti esponenti del mondo cattolico lucchese propongono l’aiuto ai poveri in una logica di carità assistenziale.
Lo scontro fu inevitabile nel 1902 quando la Unione professionale muratori organizzò uno sciopero ben riuscito, ma che scandalizzò il vescovo e i cattolici conservatori: l’arcivescovo intervenne per sostenere che gli scioperi non erano ammissibili; ne derivò una grave crisi del movimento cattolico lucchese e la progressiva emarginazione degli aderenti alla Democrazia cristiana e a Murri.
Nei primi anni del Novecento il vescovo Benedetto Lorenzelli (1905-1910) si caratterizza con uno stile autoritario e severo, che era un suo tratto personale, ma anche un modo di rispondere ai problemi che si ponevano in diocesi negli anni cruciali della crisi modernista; egli si ispira con molta decisione al modello e alle indicazioni di Pio X.
Filosofo tomista, esigente sulla disciplina del clero, riformò con decisione i seminari, unificandoli, eliminando i chierici esterni e organizzando un corso teologico di quattro anni sul modello del seminario romano.
Ampio fu il suo impegno catechetico: impose a tutti i parroci l’istituzione della Compagnia della dottrina cristiana, coordinata con quella diocesana.
Si oppose con decisione ai democratici cristiani imponendo la chiusura del settimanale «La Squilla» e riuscendo a far cessare la loro attività.
I cattolici legati alla Lega democratica nazionale a Lucca furono ridotti al silenzio, mentre a Viareggio mantennero in qualche modo una presenza.
Le sue dimissioni nel 1910, anche se motivate con ragioni di salute, sono dovute probabilmente alla pubblicazione di una lettera aperta, forse dovuta a esponenti del clero, che criticava fortemente la sua gestione della diocesi.
Un episcopato di rilievo, anche perché attraversa i decenni centrali e cruciali del Novecento è quello di Antonio Torrini, vescovo dal 1928 al 1973, anche se dal 1958 con la presenza di Enrico Bartoletti come vescovo ausiliare che diviene nel 1966 amministratore apostolico.
Sacerdote della diocesi di Firenze, sembra ispirarsi al modello e alle indicazioni provenienti dal cardinale fiorentino Elia Dalla Costa (1931-1961) e soprattutto alle direttive della Santa Sede.
Intensa è la sua attività pastorale: visite pastorali, due sinodi diocesani nel 1935 e nel 1946, cura dell’attività e della formazione del clero nel seminario, attenzione alla predicazione, con un’ampia utilizzazione delle lettere pastorali, valorizzazione dell’Azione cattolica e della religiosità tradizionale del clero e del popolo incrementando la devozione verso il Sacro Cuore, la Madonna, con la celebrazione di feste, congressi eucaristici, processioni rivolte a Gesù crocifisso, in particolare nell’immagine del «Volto santo» conservato nella cattedrale di San Martino.
La seconda guerra mondiale viene presentata nelle lettere pastorali come un «castigo di Dio» per quella società moderna che si era allontanata dagli insegnamenti della Chiesa, secondo lo schema interpretativo intransigente che era stato espresso anche da Pio XII nella Summi pontificatus del 1939.
Negli anni 1943-1944 il vescovo appoggiò in modo discreto l’attività dei sacerdoti degli oblati dello Spirito Santo, tra i quali don Arturo Paoli, che avevano organizzato attività di assistenza in contrasto con l’azione di rastrellamento della manodopera messa in atto dai tedeschi e dai fascisti.
Nel dopoguerra l’impegno per la Dc, come in tutta la Chiesa italiana, fu molto ampio e poté contare su una rete associativa capillare e che otteneva ampio consenso: Lucca nelle elezioni si confermava «città bianca» in contrasto con il resto della Toscana.
Ma la figura episcopale indubbiamente di maggior rilievo nel Novecento è quella di Enrico Bartoletti.
Fiorentino, dopo aver studiato a Roma al collegio Capranica, aveva conseguito la licenza in teologia alla Gregoriana e in Sacra Scrittura al Pontificio istituto biblico; era stato ordinato da Dalla Costa che gli aveva affidato dapprima la direzione del seminario minore poi di quello maggiore dove insegnava anche Sacra Scrittura rinnovando i metodi e i contenuti dell’insegnamento.
Nel 1958 era stato nominato vescovo ausiliare di Lucca, senza reali poteri di governo, che gli furono conferiti solo nel 1966 con la nomina ad amministratore apostolico sede plena.
Nel 1972 Paolo VI lo nominava segretario generale della Cei, dove svolgeva un ruolo di rilievo negli indirizzi pastorali della Chiesa italiana nel postconcilio.
La sua azione pastorale a Lucca si caratterizza con un impegno dedicato in primo luogo al rinnovamento della catechesi e della liturgia, alla diffusione della lettura e della meditazione della Bibbia, con un’attenzione privilegiata alla evangelizzazione, all’annuncio della Parola rispetto a una prassi di sacramentalizzazione che era tradizionale.
In questa prospettiva va letto il suo minore impegno in campo sociale e politico, data la politicizzazione della vita ecclesiale che si era data negli ultimi decenni nella Chiesa italiana.
Le sue indicazioni all’Azione cattolica erano dirette a sollecitare un maggiore impegno religioso- ecclesiale rispetto a quello tradizionale politico-sociale, nel dopo concilio non ricostituiva i comitati civici; sul piano pastorale invitava a una minore distanza e a una maggiore collaborazione tra preti e laici, tra laici delle associazioni cattoliche e semplici fedeli nella prospettiva dell’unico «popolo di Dio» richiamato dal concilio.
Mantenne sempre un clima di dialogo tra le varie componenti della sua Chiesa, che non registrò fenomeni di contestazione analoghi a quelli verificatisi in altre diocesi, anche per la tradizionale obbedienza e sottomissione del clero lucchese.
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Chiesa di San Martino
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SOURCE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.