Diocese of Grosseto
HISTORY
I - Origini ed epoca medievale
La diocesi ebbe la sua prima sede nell’antica città etrusca e poi romana di Roselle: la più antica notizia della Chiesa rosellana risale al 1° marzo 499, allorché il vescovo Vitaliano partecipò al sinodo romano.Per quanto riguarda i confini del territorio diocesano, sembra ipotizzabile che essi coincidessero con quelli della circoscrizione civile fino all’epoca longobarda, allorché una parte dell’area nordorientale (tra Casenovole e Monteverdi) passò alla diocesi di Siena.
Un tentativo di modificare i limiti diocesani si registrò tra il X e l’XI . a opera del vescovo di Populonia, ma la questione fu definitivamente risolta a favore di Roselle dal papa Gregorio VII nel 1076.
I confini così fissati si mantennero inalterati fino alla creazione, nel 1462, della nuova diocesi di Montalcino, alla quale passarono le circoscrizioni pievane di Camigliano, Argiano, Poggio alle Mura, Porrona e Cinigiano.
Nel 1138 il papa Innocenzo II sancì il trasferimento, voluto dal vescovo Rolando, della sede della diocesi da Roselle, ormai ridotta a piccolo centro, a Grosseto.
Numericamente limitata appare in età medievale la presenza monastica testimoniata, prevalentemente dopo il Mille, da cenobi benedettini autonomi poi passati ad altri ordini.
Così nel XIII . s’insediarono i camaldolesi a San Lorenzo al Lanzo nel 1204, i vallombrosani nella badia di Calvello nel 1232, gli agostiniani a San Bartolomeo di Sestinga nel 1258, i cisterciensi di San Galgano a San Salvatore di Giugnano nel 1209.
A Malavalle presso Castiglione della Pescaia sorse intorno al 1160 l’ordine eremitico dei guglielmiti ad opera di Alberto da Siena, discepolo di san Guglielmo, cavaliere francese vissuto come eremita in quel luogo.
Malavalle rimase la casa madre per tutto il Medioevo dell’ordine, presto diffusosi in Italia e Oltralpe.
I guglielmiti, malgrado i tentativi dei papi Innocenzo IV e Alessandro IV d’inserirli nel nuovo ordine agostiniano, riuscirono a conservare la loro indipendenza.
All’ordine guglielmita passò alla metà del XII . il monastero di San Pancrazio al Fango.
Dalla solenne concessione, con cui il 12 aprile 1188 Clemente III confermava a Gualfredo l’insieme dei diritti vescovili sulla città di Grosseto, possiamo ricostruire il quadro delle competenze diocesane a questo periodo.
Afferivano alla diocesi plebati anticamente attestati, come quello di San Giovanni a Castiglione della Pescaia – che tuttavia era soggetta al monastero di Sant’Antimo – o quello di Santa Maria di Grosseto, dal quale, assai prima della translatio diocesana da Roselle, dipendevano molte altre chiese, come quella di San Giorgio, antica pertinenza dei vescovi di Lucca che già dai primi del IX . ne avevano concesso l’uso a Ildebrando I degli Aldobrandeschi, alle origini della presenza di questo casato comitale nella diocesi rosellana.
Ne facevano parte almeno dall’XI . anche il distretto battesimale della pieve di Campagnatico (San Giovanni), dell’antico San Donato di Morrano, che nel corso del XII . perse le sue prerogative battesimali a favore di Santa Maria di Scarlino, di San Giovanni Battista di Tabbiano e di Sant’Ippolito di Martura, antiche proprietà del monastero femminile senese di Sant’Ambrogio di Montecelso, la pieve di Giuncarico (intitolata ai santi Giusto e Giovanni Battista), di Caminino (San Feriolo).
Al novero delle chiese di più antica memoria il privilegio pontificio aggiungeva la menzione di altre tredici pievi (Gavorrano, Buriano, Capalbio, Alma, Tatti, Palude – nei pressi di Castiglione della Pescaia – Lattaia, Sticciano, Fornoli – nei pressi di Roccastrada – Torniella, Bagnolo, Pogna – di incerta identificazione – e Civita – poi denominata come Moscona nel XIII sec.), indizio di una crescita nel popolamento della zona che sembra raggiungere il suo apice proprio a cavallo del XII sec.: l’assetto ecclesiastico del territorio «fotografato » dalle pur incomplete rationes delle raccolte decimarie della fine del Duecento e degli inizi del Trecento rivela per la diocesi di Roselle-Grosseto il solo incremento delle due pievi di Montepescali e di Montemassi.
Entrata nell’orbita della influenza politica senese, Grosseto fu assediata e conquistata dalle truppe senesi della Balzana nel 1224, e in questa occasione se ne abbatterono le mura.
Dominio della famiglia Abati del Malìa dal 1312 al 1334, anno in cui Siena tornò a imporsi sulla città, conobbe a partire dal XIV . un periodo di decadenza demografica ed economica che tuttavia non inficiò l’importanza strategica che essa continuò a rivestire per la repubblica di Siena, che vi inviò maestranze e artisti per la realizzazione sia di opere difensive sia dei più significativi edifici pubblici, a partire dalla cattedrale i cui lavori di edificazione, avviati nel 1294-1295, furono poi ripresi tra il terzo e il quarto decennio del Trecento; qui si conservò l’immagine della Madonna Assunta detta la Madonna delle Grazie, raffinata tavola del pittore senese Matteo di Giovanni, oggetto di una devozione particolare fin dal XV . e considerata la particolare patrona della città.
Tra le chiese cittadine è degna di nota San Pietro, ricordata per la prima volta nella bolla papale del 1188 tra i beni confermati al vescovo Gualfredo, chiesa sede dal XIV . di una omonima confraternita laicale.
Funzioni di strada aveva assolto la mansio gerosolimitana di San Leonardo, ricordata nel 1163.
Legata alla dominazione senese fu la presenza dei francescani a Grosseto, insediati nell’edificio benedettino di San Fortunato che nel 1289 fu restaurato e dedicato a San Francesco.
La caduta di Siena nel 1555 trascinò con sé anche Grosseto, che divenne parte del Granducato di Toscana nel 1557.
II - L’età moderna
L’11 febbraio del 1576 Francesco Bossi, vescovo di Perugia, dette inizio alla visita apostolica della diocesi di Grosseto, secondo l’incarico affidatogli da papa Gregorio XIII.In sei settimane Bossi attraversò e ispezionò da cima a fondo la Chiesa grossetana, che non conobbe mutamenti per il resto dell’età moderna: oltre alla città i pievanati di Montepescali, Batignano, Compagnatico, Roccastrada, Gavorrano, Scarlino, Castiglione della Pescaia, Istia, Montorsaio, Sticciano, Buriano, Colonna, Ravi, Giuncarico, Montemassi, Sassofortino, Roccatederigi, Tatti, Boccheggiano, Torniella, fino a Sasso d’Ombrone, senza tralasciare villaggi minori, come il Castello di Lattaia, Caldana, Belagaio, Casale e Colle Massari.
Ancora in quegli anni la diocesi grossetana presentava, insieme con i timori insuperati nei confronti del pericolo d’incursioni barbaresche sulle coste, i segni visibili della lunga stagione di guerre, che si erano concluse con la fine della Repubblica di Siena.
Non faceva eccezione la stessa Grosseto, che anzi può essere presa a esempio: sul posto della chiesa curata urbana di Santa Lucia, andata distrutta durante la guerra, il granduca stava costruendo la grande fortezza tuttora esistente, e dai medesimi eventi bellici era stato causato l’abbattimento di molte chiese.
Il risultato fu che la cura d’anime della città era ridotta alla sola cattedrale, mentre in epoca precedente sul territorio urbano operavano altri due parroci; e, dopo i danni subiti dal vecchio chiostro, anche il nuovo monastero di clarisse, introdotto solo grazie al contributo dell’Opera del duomo, visse sempre in modo stentato, al limite della mendicità, nonostante l’imposizione delle regola della più stretta clausura.
Nel XVI sec., inoltre, questa carenza di personale ecclesiastico locale era giunta a un livello tale da consentire una massiccia immigrazione di sacerdoti extradiocesani: a parte i senesi (con in testa il preposito del duomo grossetano, ovvero la massima carica dopo il vescovo), ve ne erano delle vicine diocesi di Massa, di Sovana, di Pienza, di Volterra, di Chiusi, di Arezzo, di Cortona e di Pisa, ma anche di terre poste fuori dai confini del nuovo stato regionale, come Sarzana, Spoleto, Milano, Bologna, Amelia e Città di Castello, e persino dalla Corsica e dalla Francia.
Del resto, gli interrogatori del Bossi coinvolsero appena una sessantina di ecclesiastici, per i cinque sesti sacerdoti secolari: un numero esiguo, neppure sufficiente per coprire gli uffici residenziali, e destinato a mantenersi su livelli bassi anche in epoca successiva, laddove in altre aree della Toscana conobbe un incremento certamente superiore.
Un assortimento assai vario in un numero ridotto di sacerdoti dipendeva dalle più generali condizioni sociali di questa zona, ma aveva anche delle cause specifiche evidenti: in una città, che non poteva fare affidamento né su uno studio pubblico né su scuole tenute da ordini regolari, non solo mancava – e sarebbe mancato anche nei secoli successivi – il seminario per i chierici, ma neppure vi era nel duomo la prebenda teologale, per cui anche l’onere di insegnare i rudimenti indispensabili ai futuri sacerdoti gravava esclusivamente sulle spalle del maestro di grammatica, stipendiato in gran parte dall’Opera del duomo.
Il bagaglio culturale di questi preti non poteva essere altrimenti che deficitario, anzi gravemente deficitario: non mancavano neppure i preti analfabeti.
Una situazione destinata a durare a lungo.
Anche la presenza di mendicanti, dimoranti in conventini o anche fuori di essi, al servizio di sacerdoti secolari o di nobili possidenti, è il segnale più significativo di una condizione di miseria, di marginalità e di disagio, un segnale abbastanza frequente in questa diocesi.
Nel 1606 la cattedrale di San Lorenzo martire, suffraganea dell’arcivescovo di Siena, aveva un capitolo composto solo da una dignità e sei canonicati, che in un secolo aumentarono del doppio.
La sua mensa episcopale rendeva al titolare ufficialmente circa duemila scudi, ma difficilmente se ne ricavavano un migliaio, a causa del peggioramento dell’assetto idrogeologico che colpì la Maremma in epoca moderna e della conseguente caduta dei redditi agrari.
Di fatto, in questi secoli la sua mensa fu appannaggio di chierici appartenenti al patriziato senese, come Fabio e Iacopo Mignanelli (zio e nipote, 1553- 1576), Claudio Borghesi (1576-1590), Clemente Politi (1591-1606), Giulio Sansedoni (1606-1611), Francesco Piccolomini (1611- 1622), Girolamo Tantucci (1622-1637), Ascanio Turamini (1637-1648), Giovanni Battista Gori Pannilini (1648-1662), Cesare Ugolini (1665-1699), Sebastiano Perissi (1700-1701), il domenicano Iacopo Falconetti (1703-1710), Bernardino Pecci (1710- 1736).
A eccezione del Falconetti, che spese tutte le sue energie nel governo pastorale e riuscì ad aprire un seminario diocesano, furono tutti chierici abituati a una dolcezza del vivere cittadino troppo diversa per andare a risiedere stabilmente in un paesone a forma di fortezza, qual era Grosseto in epoca medicea.
Del resto, le pessime condizioni climatiche della Maremma e la collocazione in pianura della città consentivano al suo presule di assentarsi per lunghi periodi, cercando riparo in località più salubri soprattutto nella stagione più calda: quella tradizione dell’«estatatura», che si trascinò fino alla fine del XIX . persino negli uffici pubblici dello Stato nazionale sabaudo.
Il primo vescovo di provenienza locale fu Antonio Maria Franci, da Batignano, che governò la sua Chiesa per tutto il lunghissimo periodo dei granduchi Francesco Stefano e Pietro Leopoldo di Lorena, ma, forse a causa della sua vecchiaia, quest’ultimo lo giudicava un ignorante e un imbecille.
La diocesi era pressoché spopolata, come le altre della stessa sub-regione: poche migliaia di abitanti, dei quali circa un migliaio (nel 1737) dimorava nella città.
Qui vi erano un convento maschile di francescani e un monastero femminile.
Come le altre diocesi della Maremma fu luogo di ripetute, intense campagne di missioni da parte di gesuiti e francescani, ma anche dei nuovi padri passionisti, insediati nel vicino monte Argentario.
Questi s’impegnarono a diffondere fra le popolazioni esercizi di pietà e devozioni, come quelle delle Quarantore e della Via Crucis.
Ma nella vita religiosa cattolica della diocesi, oltre alla diffusa ignoranza dei fedeli e degli ecclesiastici, a turbare la tranquillità dei suoi vescovi rimase sempre una presenza estranea: nel castello di Scarlino vivevano alcuni ebrei, che senza remora alcuna, senza alcuna distinzione e separazione, svolgevano le loro attività finanziarie con mercanti e pastori, contadini e bottegai.
Minacce, proclami e sollecitazioni dei vescovi si ripeterono inutilmente per tutta l’età moderna: Scarlino era terra del principe di Piombino, di un signore straniero e residente ben lungi dal porto tirrenico, un signore a cui premevano assai i servizi offerti dagli imprenditori-finanzieri di religione ebraica sui suoi domini.
III - L’età contemporanea
Studiare la diocesi grossetana in epoca contemporanea significa soprattutto analizzare la società maremmana e le sue molteplici mutazioni sia in senso orizzontale che verticale.Per meglio dire, la Chiesa grossetana si rispecchia in maniera particolarmente densa e precipua nella società nella quale è inserita e della quale diventa in qualche modo espressione.
La sua incapacità di cogliere i cambiamenti che anche le popolazioni della Maremma devono affrontare, significa per quella Chiesa segnalare la propria difficoltà a ritrovarsi in quella società, con tutto ciò che questo comporta.
La profonda cultura agricola e pastorale, in tutti i suoi aspetti, la trasformazione di quella costiera e marinara in turistica e vacanziera, la persistente e poi tramontante società mineraria, un vero e proprio microcosmo marginale eppure capace di dimensione identitaria, sono gli ingredienti di quel lento e faticoso cammino di riposizionamento della Chiesa locale dentro le maglie sociali delle diverse popolazioni diocesane.
Vengono così al pettine i problemi lasciati irrisolti dai secoli precedenti: l’ignoranza religiosa, la scarsa per non dire inesistente frequenza dei sacramenti, il «vizio» della bestemmia, l’inosservanza del riposo festivo, in una parola l’indifferentismo, termine col quale si intende alludere all’intero complesso della modernizzazione scomposta e incontrollata che giunge nelle zone periferiche senza alcuna mediazione culturale.
Di qui nasce quella tendenza all’individuazione del male profondo nel socialismo insorgente, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento.
Sono processi abbastanza diffusi nella Toscana meridionale ma che trovano nella Maremma un terreno quasi «naturale» che finirà per segnare profondamente l’atteggiamento di incontro/scontro e di dialogo/ silenzio della Chiesa nei confronti della società.
C’è una sorta di filo rosso che attraversa l’età contemporanea della diocesi grossetana e che riguarda la consapevolezza di non avere gli strumenti adatti per rispondere alla sfida della modernità.
Una delle vie d’uscita dall’impasse viene cercata nella dimensione sopraterritoriale, ricorrendo alla maggiore unità nella metropolia: in questo senso, il seminario interdiocesano, i rapporti con Siena sempre più stretti, il tentativo di stringere reti di collaborazione con le Chiese vicine.
Restano le difficoltà di una pastorale che deve ormai fare i conti con un gradiente di difficoltà che, superando l’ostacolo territoriale, trova davanti a sé problemi di altra natura.
Nel lungo pontificato di Paolo Galeazzi (1932-1964) la lettera pastorale del 1957, dedicata ai problemi della esistenza dei cristiani nel mondo contemporaneo (dalla politica al mondo sociale, da quello morale a quello strettamente religioso) rappresenta il punto di non ritorno di una Chiesa alla ricerca di identità e di stimoli all’azione e alla missione.
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SOURCE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.