Diocesi di Firenze
STORIA
I - Le origini e l’età medievale
La presenza di una comunità cristiana a Firenze è tradizionalmente datata al III sec., epoca in cui la città raggiunse la sua maturità urbanistica e amministrativa, divenendo una delle principali città della Tuscia annonaria.È a questo periodo che l’incerta tradizione agiografica medievale (IX-XI sec.) avrebbe attribuito anche il martirio di san Miniato, perpetuando la memoria di una origine «siriana» della Chiesa cittadina.
Agli inizi del IV . è attestata la presenza di un vescovo cittadino che nel 313 partecipò al primo concilio Romano indetto da papa Melchiade; il tessuto ecclesiale fiorentino si articolò nel corso del IV sec., quando la città fu oggetto dell’attenzione «missionaria» di sant’Ambrogio di Milano che nel 393 consacrò una basilica in onore di san Lorenzo.
Al periodo ambrosiano si sarebbe legata anche la riorganizzazione della comunità ecclesiale cittadina e la sua memoria storica, addensatasi attorno alla figura del santo vescovo Zanobi e al suo ruolo di defensor nel turbolento periodo delle incursioni gotiche.
La ricomposizione del dominio bizantino nel VI . trovò la città spossata dalle scorrerie che avevano devastato la regione per tutto il secolo precedente, determinando una congiuntura recessiva che Firenze condivise con molti altri centri urbani.
La sua area abitativa si contrasse entro un piccolo spazio fortificato che aveva al proprio centro il foro: qui l’antico capitolium pagano fu consacrato a favore di una dedicazione tipicamente bizantina, Santa Maria Odigitria, oggi scomparsa, al pari di altri edifici di culto pagani cittadini convertiti in chiese cristiane; nuove costruzioni, come Sant’Apollinare, indicano una residua capacità edilizia mantenutasi in città alla vigilia della «crisi» longobarda, maturatasi sul volgere del VI . La lunga convivenza conflittuale tra le aree di occupazione longobarda e quelle bizantine dovette interferire anche nella organizzazione religiosa dell’area extraurbana, penalizzando la giurisdizione spirituale fiorentina nei confronti, ad esempio, di quella di Fiesole, la cui eccezionale vocazione difensiva rese la città collinare più idonea alle esigenze strategiche dei nuovi occupanti.
Con la nuova distrettualizzazione imposta dall’organizzazione del regno longobardo e poi con la cristianizzazione, l’amministrazione religiosa si aprì agli influssi culturali esercitati da un episcopato di origine germanica al quale con ogni probabilità si dovette la diffusione di nuovi culti nell’area fiorentina e fiesolana.
È tuttavia molto difficile identificare il sedimento longobardo al di sotto dell’assetto carolingio-ottoniano del IX-X sec., quando si andarono elaborando anche buona parte delle leggende agiografiche che contestualizzarono in Firenze e nei suoi dintorni culti giunti in riva d’Arno in epoche imprecisate.
Probabilmente già dall’età longobarda, ma certamente in epoca carolingia, i territori dei due ex municipi costituirono un’unica realtà amministrativa e giudiziaria: avendo lungamente rappresentato un’area di confine con la zona bizantina, i due distretti erano stati accorpati, giustificando la singolare morfologia dei confini delle due diocesi che convivevano nell’unico comitatus.
Questa contiguità non produsse situazioni conflittuali fin tanto che gli equilibri imposti dall’evoluzione del marca di Tuscia limitarono l’espansione di entrambe le città, che comunque a partire dal X . conobbero un momento di rinascenza.
In questo periodo la Chiesa fiorentina ridefinì le proprie strutture promuovendo un restauro della sua vecchia cattedrale e affidando al dinamismo politico di suoi vescovi quei gemellaggi con Lucca, capitale della Marca, che introdussero il culto di santa Reparata, già titolare insieme a san Giovanni della cattedrale lucchese, e con ogni probabilità anche quello per san Miniato.
La crescita di potere dei vescovi fiorentini e la loro progressiva infiltrazione nell’amministrazione della vicina sede fiesolana indusse una conflittualità con il territorio contermine che dai primi anni dell’XI . fino al primo quarto del successivo (1125) portò a una serie di azioni militari dalle quali Fiesole uscì sconfitta, con grave pregiudizio anche per l’autonomia dei suoi vescovi.
È infatti all’indomani della prima «debellazione» fiesolana, agli inizi dell’XI sec., che il presule fiorentino Ildebrando iniziava la costruzione di una grande basilica e di un monastero – entrambi dedicati a san Miniato – sul monte che dominava la città, con l’intenzione di crearvi una acropoli vescovile idonea a suffragare le sue ambizioni signorili.
Questo progetto, nel quale era inclusa anche l’intenzione di incasellare, traslandola, la pieve cittadina di San Giovanni, si scontrò però con il nuovo clima indotto dalla riforma che, potenziando il ruolo del clero metropolitano e del capitolo della chiesa cattedrale, finì per limitare o ridurre l’autonomia episcopale sia sul piano della gestione patrimoniale sia su quello politico.
I presuli fiorentini di questo periodo, emanazione diretta del potere marchionale e adusi alla conferma dei privilegi goduti dalla loro Chiesa da parte degli imperatori, si presentarono sovente, agli occhi dei riformatori, come simoniaci e concubinari, attirando critiche sempre più intransigenti.
Giovanni Gualberto, formatosi tra le mura del monastero vescovile di San Miniato, fu tra i portavoce di queste accuse negli anni in cui Firenze si accingeva a divenire una delle capitali del partito della riforma poi detta gregoriana.
Fu in questo periodo che il suo vescovo, il borgognone Gerardo, venne elevato alla cattedra pontificia con il nome di Niccolò II.
Gli influssi di questa stagione riformatrice sull’organizzazione della Chiesa fiorentina furono rilevanti sia per il consolidarsi delle strutture monastiche antiche – come l’abbazia di Santa Maria (Badia fiorentina) fondata nel 978 da Willa, madre del marchese Ugo di Tuscia e divenuta, insieme a San Miniato, una delle più importanti istituzioni religiose della città – sia per il progressivo inurbamento compiuto dalle congregazioni riformate, come la camaldolese o la vallombrosana.
Quest’ultima in particolare si fece promotrice di una violenta propaganda antisimoniaca – rivolta contro l’alto clero cittadino – che trovò l’appoggio incondizionato del capitolo e dell’aristocrazia intermedia, ostile al potere del marchese e alle sue emanazioni episcopali.
In questo clima conflittuale i vallombrosani organizzarono, con l’appoggio della famiglia comitale dei Cadolingi, una campagna di discredito contro il vescovo, Pietro Mezzabarba, accusato di aver comprato la sua carica, che culminò con la prova del fuoco di Settimo, nel marzo del 1068.
In questa occasione un monaco vallombrosano, Pietro Igneo, passò indenne tra i carboni ardenti dimostrando, con un metodo giuridicamente valido, la falsità della posizione del vescovo, che dovette lasciare la città.
Con la creazione del capitolo andarono definendosi sia il patrimonio sia le funzioni del clero addetto alla cura dell’unica plebs urbana; in questo processo anche l’antica unitarietà del complesso cattedrale si frammentò nelle due porzioni che da quel momento divennero edifici semi-indipendenti: il battistero di San Giovanni, che rimase domus episcopi, e l’antica aula cultuale, che dal nome dell’altare principale, dedicato a santa Reparata, avrebbe derivato il suo titolo, e il ruolo di plebs cittadina.
In antagonismo simbolico con il vescovo, i canonici ordinarono anche la costruzione di un ospedale posto sotto l’invocazione di san Giovanni Evangelista, opposto, nel ciclo liturgico dell’anno, al Battista patrono dell’episcopio.
Già da tempo i vescovi avevano un proprio palatium nelle cui vicinanze andavano radunandosi anche le dimore di alcune famiglie (i Visdomini) che si sarebbero assicurate l’amministrazione dei beni della Chiesa fiorentina durante le vacanze episcopali.
Anche l’organizzazione del tessuto ecclesiale si perfezionò, mentre l’exploit del numero degli edifici sacri – passato dalla ventina degli anni precedenti al Mille alla sessantina presenti nel XII sec – dimostrava l’accresciuta densità demografica della città.
Ripartite dapprima nei quattro quartieri che ancora evocavano la struttura del castrum, poi nella nuova distribuzione dei sestieri, le parrocchie (populi) divenivano la struttura portante dell’intera sistemazione urbanistica, parte determinante del reticolo sociale, amministrativo, fiscale, militare della città e anche sistema della organizzazione territoriale del suo contado, con le sei curie corrispondenti ai sesti cittadini.
Più tardi, nel 1292, si tornò all’organizzazione per quartieri.
Fu in questo periodo di crescita, segnato dalla forte presenza dell’eresia catara, che si posero, all’inizio del Duecento, le condizioni per la «rivoluzione» religiosa indotta dagli ordini mendicanti.
Sul volgere del XIII . nel quadro del complessivo aggiornamento urbanistico e architettonico della città si pose mano sia ai grandi complessi conventuali delle religiones novae sia alla cattedrale, di cui si predispose il rifacimento che coincise con la reintitolazione, più di un secolo dopo, a Santa Maria del Fiore.
Questo sforzo di rinnovamento del tessuto ecclesiale cittadino proseguì anche nel Trecento, periodo di gravi conflittualità interne e internazionali ma anche di straordinaria espansione politica e territoriale del comune fiorentino.
In questo processo di crescita Firenze avviava quel progetto di adeguamento della suddivisione civile a quella ecclesiastica che si sarebbe mantenuto costante nel tempo a venire.
Questo processo si avviava a partire dal Quattrocento quando, dopo l’acquisto di Pisa, la città otteneva da papa Martino V (1420) la dignità di sede arcivescovile, con la consacrazione di Amerigo Corsini a suo primo arcivescovo.
Pistoia e Fiesole furono le sue prime diocesi suffraganee, Sansepolcro seguirà nel 1510, Colle di Val d’Elsa nel 1592, San Miniato al Tedesco nel 1622.
Nel 1439 Eugenio IV aveva eletto Firenze e la sua nuova grandiosa cattedrale a sede del concilio, trasferitosi da Ferrara, dove si tentò l’unione con la Chiesa greca.
Si coronava con questo evento il ruolo nazionale e internazionale giocato da Firenze nel Quattrocento; stimolato in età laurenziana, pur nel prevalere degli interventi di edilizia privata, questo fervore investì più o meno direttamente l’ormai imponente patrimonio ecclesiale cittadino, forte, intorno agli anni settanta del Quattrocento, di ben 108 chiese, secondo i conteggi del cronista Benedetto Dei.
Nel lungo periodo che si era snodato dalle origini del comune alla signoria medicea il ruolo dei vescovi – e poi arcivescovi – fiorentini era andato decrescendo in maniera inversamente proporzionale al consolidarsi delle organizzazioni civili nella città e nel suo territorio, mentre anche l’antica autonomia della Chiesa locale era stata progressivamente erosa nel processo di centralizzazione romana delle nomine episcopali.
Schiacciato nelle dinamiche di questi rapporti di forza l’episcopato fiorentino aveva vissuto un inesorabile declino fino dai primi decenni del Trecento e ancor di più in età medicea – salvo poche eccezioni, come quella costituita dal governo spirituale di sant’Antonino Pierozzi, pur nella vivacissima temperie spirituale dell’Umanesimo «cristiano» – quando sia le lunghe vacanze episcopali, sia la sistematica scelta di vescovi forestieri sancirono l’avvenuta marginalizzazione della Chiesa e dei suoi rappresentanti nel disegno della vicenda cittadina.
II - L’età moderna
Se dagli inizi del Quattrocento Firenze dominava tutto il Valdarno fino al mare, con il principato il territorio soggetto allo stato mediceo comprese anche la maggior parte della Toscana meridionale; questa evoluzione statuale impose la necessità di un adeguamento delle circoscrizioni ecclesiastiche a quelle civili, che fu perseguito tenacemente fino all’età lorenese; così se nel 1592 la diocesi perse il pievanato di Poggibonsi, che fu annesso a quella di Colle di Val d’Elsa, nel 1785 fu modificato e ampliato il suo confine sull’Appennino tosco-emiliano con l’acquisto di tre parrocchie dalla diocesi di Bologna (Bruscoli, Pietramala e Cavrenno) e di una da quella di Imola (Piancaldoli).Questo controllo si espresse anche nel reclutamento dell’episcopato nel territorio granducale, che rimase saldamente in mano agli ecclesiastici fiorentini; così anche se la rendita della mensa vescovile di San Giovanni non fu tra le più ricche della regione (oscillava intorno ai cinquemila scudi l’anno, quindi meno di quella pisana), tuttavia il prestigio politico-ecclesiastico della sua cattedra si accrebbe e fu spesso accompagnato dal berretto cardinalizio.
Nel 1560 papa Pio IV istituì a Firenze la nunziatura apostolica, concedendo al nunzio le ampie facoltà di un legato a latere in tema di dispense canoniche e di foro, facoltà che vennero poi in parte ridotte da Sisto V.
I sudditi di Firenze potevano così ricorrere a una corte ecclesiastica d’appello con minori spese rispetto agli alti costi di un ricorso presso i tribunali della curia romana e il governo poteva controllare più facilmente l’operato di un giudice che solo formalmente era identificabile con l’ambasciatore del papa.
Infatti, queste cause venivano istruite e discusse dagli «auditori» della nunziatura, che erano scelti dallo stesso principe fra gli ecclesiastici di sua fiducia: esperti in discipline giuridiche, ma al contempo canonici del duomo fiorentino o della basilica laurenziana, che talora venivano premiati per la loro fedeltà al potere politico con l’inclusione nelle liste ducali per la promozione a un episcopato.
Da parte sua, il nunzio a Firenze aveva notoriamente una limitata libertà d’azione in campo giurisdizionale, vuoi proprio per suoi compiti di rappresentanza politica, vuoi per le fitte aderenze che legavano i Medici al collegio dei cardinali e alla curia romana.
Quando, in età leopoldina, fu soppresso il tribunale della nunziatura e i suoi compiti furono demandati ai tre arcivescovi toscani, già da tempo era stato eliminato in gran parte il fenomeno dei ricorsi alla Santa Sede, a tutto vantaggio dell’autorità dell’episcopato locale, o meglio dei suoi più alti rappresentanti.
Nel Cinquecento a Firenze, come a Siena, si verificò una grave e prolungata assenza dell’arcivescovo, dovuta soprattutto a ragioni politiche.
Dal 1524 era arcivescovo il cardinale Niccolò Ridolfi, nipote di papa Leone X e tipico esponente dell’alto clero rinascimentale: oltre alla cattedra fiorentina cumulava anche quelle di Vicenza, Forlì, Viterbo, Imola e Salerno, facendone mercato.
Dopo averle godute per un po’, le cedeva ad altri, non senza conservarsi parte delle rendite e dei diritti, nonché la possibilità di riprendersele in caso di vacanza (diritto di «regresso»): così fece con la diocesi di Firenze, che cedette una prima volta nel 1536 al canonico fiorentino Andrea Buondelmonti e nel 1548 ad Antonio Altoviti.
Quest’ultimo era figlio di quel Bindo che proprio allora si era palesato aperto avversario del duca Cosimo I: la conseguenza fu il bando politico, che per una ventina d’anni impedì all’Altoviti di prendere possesso personalmente della sua diocesi.
Del resto, negli stessi anni Cosimo I ebbe gravi problemi anche con gli irriducibili seguaci del Savonarola (costoro continuavano a predire sciagure per la famiglia regnante), tanto che nel 1548 giunse a far cacciare dal convento di San Marco i frati domenicani, colpevoli di annunciare la prossima fine del suo principato, salvo poi a farli rientrare in seguito alle pressioni di papa Paolo III.
Soltanto il 15 maggio 1567 l’arcivescovo fece il suo ingresso in Firenze e dette inizio a una cauta azione di riforma disciplinare, cercando di operare in accordo con i corpi principali della Chiesa fiorentina.
Alla sua morte, nel 1573, gli successe Alessandro de’ Medici, già vescovo di Pistoia e futuro pontefice (con il nome di Leone XI).
Il nuovo presule s’impegnò nell’attuazione della riforma della disciplina ecclesiastica e, nonostante le sue assenze dalla diocesi fiorentina per adempiere a incarichi diplomatici, non mancarono i risultati, soprattutto per quanto riguardava l’obbligo – troppo spesso disatteso – della residenza dei curati nelle loro sedi.
Tuttavia, la sua comprovata abilità nel mantenere rapporti di collaborazione tanto con Francesco I, quanto con suo fratello Ferdinando I, non evitò al Medici accesi scontri con il capitolo dei canonici di Santa Maria del Fiore: anche a Firenze, come nelle altre cattedrali italiane, il tentativo dei vescovi di limitare i privilegi dei corpi ecclesiastici entrò in aperto conflitto con tradizioni giuridicamente consolidate, che trovavano un forte sostegno negli enti pubblici e nelle famiglie dei ceti dirigenti.
Inoltre, come nelle altre diocesi italiane, anche a Firenze ci furono non poche difficoltà per imporre la disciplina controriformista nei monasteri femminili: qui, in particolare, il già complesso intreccio fra strutture della Chiesa secolare e pertinenze regolari era complicato dall’annoso problema dell’uso quanto meno disinvolto dei monasteri femminili (più di sessanta con circa seimila monache) come serbatoio per un gran numero di ragazze prive di doti matrimoniali, senza tener conto della potenzialità delle rendite dei patrimoni monastici, sì da rendere assai problematica la stessa sopravvivenza di molte monache prive di mezzi per il proprio sostentamento.
Per l’educazione dell’aristocrazia, nonostante la diffidenza di Cosimo I, i gesuiti riuscirono a insediarsi a Firenze in San Giovannino nel 1551, come fecero anche i barnabiti, che si rivolgevano piuttosto alla borghesia urbana.
Poi, per gli strati sociali più umili, arrivarono anche gli scolopi, che aprirono a Firenze una prima scuola per i fanciulli poveri nel 1630.
Critiche e ostacoli non mancarono da parte di chi avversava, come socialmente pericolosa, qualsiasi forma d’istruzione popolare, ma il loro istituto mise solide radici grazie anche alla protezione dei Medici, che non si mostrarono insensibili alle motivazioni addotte in difesa dell’educazione dei giovani di bassa estrazione sociale: opera di carità, ma soprattutto incremento delle capacità economiche e crescita della fedeltà nei confronti del principe.
Anzi, grazie al successo di quest’iniziativa, i discepoli del Calasanzio furono in grado otto anni dopo di dar vita anche a una «Classe dei Nobili» – detta anche Accademia degli Sviluppati – per i figli dei ceti più elevati: un’istituzione che sopravvisse fino agli inizi dell’Ottocento, superando la crisi dell’ordine, nel 1646-1656.
Non dimentichiamo, infine, la persistente tradizione toscana di apostoli laici.
Per esempio, a Firenze, fra l’ultimo quarto del Cinquecento e i primi decenni del Seicento fu attivissimo Ippolito Galantini, con la sua congregazione di san Francesco della dottrina cristiana, detta dei «Vanchetoni» o «Bacchettoni»: il suo fu l’apostolato di un laico, che s’impegnò nell’istruzione catechistica dei ragazzi e degli adulti, ottenendo dall’arcivescovo Alessandro Medici l’incarico di capo e governatore di tutte le compagnie fiorentine della dottrina cristiana, ma incontrando anche non poche difficoltà e diffidenze (soprattutto per il ricorso a manifestazioni e processioni pubbliche, che potevano apparire perturbatrici dell’ordine).
Nel 1632 fu fondata a Firenze, in San Sebastiano, una piccola comunità oratoriana, che poteva contare anche sui legami di Filippo Neri con esponenti del clero locale e della società cittadina, sensibili ai motivi di una più rigorosa riforma religiosa, non senza reminiscenze savonaroliane.
Eccessi nel rigorismo ascetico e nell’esaltazione devozionale, nonché alcune stramberie del fondatore (padre Pietro Bini), misero in forse il successo dell’iniziativa, che però in seguito riuscì ad attecchire, trovando dal 1640 una sede stabile e più adeguata presso la chiesa parrocchiale di San Firenze, che gli venne concessa dall’arcivescovo Niccolini.
Nei difficili inizi dell’istituto aveva giocato un ruolo negativo anche il tentativo, abortito, di dare vita pure a una piccola comunità femminile.
Erano, quelli, gli anni in cui si consumava la vicenda del canonico Pandolfo Ricasoli e di Faustina Mainardi: la loro collaborazione nel governare una comunità femminile si concluse nel 1641 con un processo, che portò alla soppressione della comunità e alla carcerazione perpetua dei due fondatori.
Il clamore di questa storia, con i sospetti e le voci scandalistiche che ne seguirono, danneggiò non solo la comunità filippina, ma anche – seppur solo momentaneamente – le iniziative di Eleonora Ramirez Montalvo.
A costei si deve la nascita di due istituti, che si radicheranno nella vita religiosa fiorentina: le ancelle della Santissima Vergine della Divina Incarnazione, che a partire dagli anni Trenta del XVII . s’impegnarono nell’educazione di fanciulle povere, e le minime ancelle della Santissima Trinità, che dal 1650 si dedicarono all’istruzione delle giovani d’estrazione nobiliare.
Le dimensioni, qualitative e quantitative, della Chiesa fiorentina nell’età moderna possono essere sintetizzate da alcuni dati offerti dalle relationes ad limina inviate alla Sacra Congregazione del concilio alla metà del Settecento.
A quella data ormai le Chiese suffraganee della metropolitana erano salite a cinque: alle due iniziali di Fiesole e Pistoia si erano aggiunte anche le nuove diocesi toscane di Colle di Val d’Elsa, di Borgo San Sepolcro e di San Miniato.
Dopo due secoli di buon governo della dinastia «naturale» dei Medici, la città, capitale del granducato di Toscana, contava circa sessantacinquemila abitanti (la crisi demografica aveva colpito fra il Seicento e il Settecento, riducendo pesantemente la sua popolazione di alcune decine di migliaia di anime) e la cura pastorale era demandata a quarantanove chiese parrocchiali: di queste, quindici erano insignite del titolo di prioria e cinque erano collegiate.
Nella cattedrale vi era il capitolo canonicale composto da cinque dignità (arcidiaconato, arcipretato, decanato, prepositura e sottodecanato) e da trentasette canonicati (in gran parte di giuspatronato dell’Arte della lana), insigniti da Leone X dei privilegi dei protonotari apostolici; a costoro si aggiungevano sessantacinque fra cappellani e beneficiati e cento chierici del ginnasio eretto da papa Eugenio IV (vi s’insegnava grammatica e canto gregoriano).
Dopo il duomo, la chiesa più insigne della città era la basilica di San Lorenzo, di patronato della famiglia Medici, che vi seppelliva i suoi principi: un capitolo di dodici canonici e un corpo di trenta cappellani sotto la guida di un priore «mitrato » assicuravano il culto di questo tempio, in cui sorgeva un altro ginnasio ecclesiastico per una cinquantina di chierici.
La diocesi comprendeva cinquantanove pievi e cinquecentoquarantasette chiese parrocchiali: fra queste erano state elevate a collegiate le chiese madri di Empoli, di Castelfiorentino, di San Casciano e dell’Impruneta.
Quasi cinquanta erano i monasteri e conventi maschili (con centinaia e centinaia di frati e monaci) e oltre sessantaquattro i monasteri femminili: fra gli uni e gli altri non mancavano chiostri di rigorosa osservanza.
A questi, poi, erano da aggiungersi le nuove famiglie regolari e secolari, come l’oratorio di San Filippo Neri con l’annessa casa per i fanciulli (eretta da Filippo Franci nel 1659), e alcune congregazioni cittadine di chierici diocesani.
Innumerevoli erano le confraternite laicali: solo nella città di Firenze superavano il centinaio.
A questi si aggiunga un gran numero di luoghi pii laicali, a partire dalle «opere» o fabbricerie di molte chiese e di alcuni conventi: nella «religione cittadina » fiorentina si distinguevano, per l’assiduità e l’estensione dell’impegno caritativo e assistenziale, la Pia Casa di San Martino (fondata da sant’Antonino) e la confraternita della Misericordia, né mancavano ospedali per i pellegrini, per gli orfani e per i poveri (una sessantina almeno nella diocesi, fra cui la Casa di Santa Maria degli Innocenti e l’ospedale di Santa Maria Nuova) e conservatori per le fanciulle.
III - L’età contemporanea
Tra il Sette e il Novecento la diocesi fiorentina, mentre rimase sostanzialmente stabile sul piano degli assetti istituzionali, vide emergere con più forza il ruolo politico-religioso dell’arcivescovo e la sua capacità di mediazione con il potere civile.Una figura di grande rilievo fu quella dell’arcivescovo Antonio Martini (1781-1810), noto anche per la sua fortunata traduzione della Bibbia, egli incarnò il modello tardosettecentesco del prelato colto, pio, moderato.
Scelto dallo stesso Pietro Leopoldo nella prospettiva di una collaborazione alla sua politica di riforme, di fronte al radicalismo ricciano degli anni Ottanta divenne la figura di riferimento per il partito moderato che, attestato pur senza identificarvisi, su posizioni «romane», sarebbe poi risultato decisivo per il fallimento del progetto sinodale di riforma della Chiesa propugnato dal vescovo di Pistoia.
L’effetto dirompente del sinodo ricciano del 1786, e la sua condanna nel 1794, avrebbero impedito la ripresa di una qualsiasi forma di sinodalità in Toscana fino alla fine dell’Ottocento.
Alla sua morte la nomina, con decreto imperiale, di Antonio Eustachio Osmond, vescovo di Nancy, a Firenze dal 1810 al 1814, aprì un vasto conflitto giurisdizionale tra Roma, Firenze e Parigi.
Infatti Roma si rifiutò di riconoscere canonicamente tale nomina e il capitolo e il clero fiorentino opposero una dura resistenza nei confronti del prelato.
Una parte del capitolo lo accettò come vicario capitolare, mentre altri preferirono trasferirsi in esilio a Pisa dove Ranieri Alliata garantì una significativa protezione.
Il ruolo assunto dalla sede pisana è confermato anche dalla scelta del successore di Osmond, Pier Francesco Morali, pisano e professore di diritto canonico in quell’ateneo, che avrebbe garantito un ritorno a un clima di concordia tra Roma e la casa lorenese.
Un clima confermato dalla scelta del successore, Ferdinando Minucci, già suo vicario, addottoratosi nell’università romana della Sapienza e non più, come avveniva normalmente in precedenza, in Toscana.
Anche la pratica pastorale tornò riprendere la linea tradizionale delle Notificazioni e degli Indulti quaresimali, mentre diminuirono le lettere pastorali dedicate a temi più impegnativi.
In realtà, accanto a una difesa delle posizioni romane da parte dei presuli fiorentini, a Firenze e in Toscana permase il mito di Pietro Leopoldo e delle riforme religiose ed ecclesiali settecentesche.
Questo mito ispirò nel corso dell’Ottocento un riformismo cattolico-liberale che, in particolare negli anni Quaranta, animò un gruppo di intellettuali – Capponi, Lambruschini, Ricasoli – i quali, in rapporto con l’ambiente protestante ginevrino tramite il Vieusseux, potevano contare sulla sensibilità di un vescovo come Gioacchino Limberti (1857-1874); egli, già rettore del collegio Cicognini di Prato, legato al Guasti e agli ambienti savonaroliani e conciliatoristi, si trovò a dover difendere il canonico fiorentino Barsi, reo di aver concesso il Te Deum dopo il plebiscito per le annessioni, che Pio IX avrebbe voluto destituire.
Il Barsi era in rapporto con Lambruschini, che nel 1853 gli aveva scritto per congratularsi della pubblicazione del Nuovo Testamento in italiano come mezzo efficace per combattere il protestantesimo e ravvivare la pietà.
Questo episodio è indicativo di una qualche influenza della cultura cattolico- liberale sul clero.
Pio IX intese appoggiare la linea intransigente – sia sul piano politico sia su quello teologico-religioso – che all’interno del capitolo fiorentino era espressa dal canonico Pedralli; la situazione sarebbe rimasta complessa fino agli anni Sessanta-Settanta, quando, con la ripresa delle soppressioni degli enti religiosi, si determinò quella più ampia crisi della cultura cattolico-liberale che ebbe i suoi riflessi anche in Toscana.
In particolare nel Limberti si accentuò allora una difesa apologetica delle posizioni «romane » e una polemica contro le leggi relative alla libertà di stampa e alla propaganda protestante che si spiega anche per il rilievo assunto dalle Chiese evangeliche a Firenze nella seconda metà dell’Ottocento.
Nella prospettiva della ricostruzione di una «società cristiana» va ricordato il ruolo di un’ampia organizzazione, la San Vincenzo de’ Paoli – che univa agli scopi caritativi la mobilitazione dei giovani – o l’influsso esercitato dal reticolo assistenziale delle confraternite, come la medievale Misericordia, che contavano centinaia di confratelli.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento Firenze fu la sede del periodico «Rassegna nazionale», espressione dei cattolici conciliatoristi, al quale collaborarono alcune figure significative del mondo cattolico, come Tabarrini, Alfani, Pistelli e Giovannozzi, in una linea di continuità con quella tradizione savonaroliana e rosminiana che era una delle caratteristiche della rivista.
In città si pubblicava anche «L’Unità cattolica », organo del cattolicesimo intransigente, noto per la violenza della sua polemica con la società e lo Stato liberale e le prospettive cattolico-liberali.
Una presenza di rilievo sul piano educativo e culturale tra la fine del XIX e l’inizio del XX . fu quella di alcuni scolopi, come i padri Pistelli, Alfani, Catani e Giovannozzi.
In particolare quest’ultimo, collaboratore della «Rassegna nazionale», valorizzava un’antica tradizione galileiana e cercava di sostenere la liceità dell’ipotesi evoluzionistica e della sua conciliabilità con la dottrina cattolica.
Egli fu anche uno dei promotori della rivista di studi filologico-biblici di Salvatore Minocchi.
La crisi modernista, con i conflitti e le repressioni che la caratterizzarono – che coinvolsero anche Minocchi e in parte lo stesso Giovannozzi – si svolse mentre il governo diocesano era retto da un vescovo scolopio, Alfonso Maria Mistrangelo (1899-1930), che si adoperò in una non facile mediazione tra esigenze romane e «novatori» e si trovò a dover difendere il seminario diocesano dalle severe critiche del visitatore apostolico.
L’azione di governo della diocesi si caratterizzò per una certa moderazione che permise una qualche possibilità di presenza a iniziative culturali e sociali che rischiavano l’estinzione per la repressione antimodernista.
Il movimento cattolico fiorentino nei primi decenni del Novecento si mosse tra legittimismo e conciliatorismo, tra clerico-moderatismo e intransigenza, in un fitto intreccio tra istanze politiche e riflessi ecclesiali e religiosi.
Un periodo di rilievo per la vita della Chiesa locale fu quello dell’episcopato di Elia Dalla Costa (1931-1961), caratterizzato dall’impegno profuso nella cura e nella riorganizzazione pastorale e disciplinare della diocesi.
Basti ricordare la celebrazione del concilio etrusco nel 1933, dei sinodi diocesani nel 1935 e nel 1946, le visite pastorali, la riorganizzazione dei seminari, la costruzione del nuovo seminario e la cura per la vita spirituale del clero.
Gli anni Trenta videro maturarsi il pensiero e l’azione di don Giulio Facibeni a Rifredi, quartiere caratterizzato da una forte presenza operaia, nel quale si concretizzò la sua riflessione sulle modalità dell’impegno sacerdotale e pastorale.
Infatti per il «Padre», come Facibeni veniva chiamato nella città, l’inscindibilità dal contesto parrocchiale dell’Opera Madonnina del Grappa, da lui fondata nel primo dopoguerra all’interno della parrocchia per accogliere numerosi bambini orfani di guerra, serviva a proporre una pastorale «missionaria» che aveva molti punti di contatto con analoghe proposte francesi.
Facibeni rappresentò un punto di riferimento critico e innovativo per una rimeditazione del ruolo sacerdotale che aveva molti punti in comune con l’esperienza del «Prado», mentre Dalla Costa vedeva l’Opera piuttosto come un «istituto» per orfani e fanciulli abbandonati che doveva vivere di una vita propria.
Nel secondo dopoguerra, nel 1955, Dalla Costa, dopo aver diviso la parrocchia, ritenuta troppo ampia, avrebbe anche imposto la separazione definitiva delle due realtà.
Nei confronti del regime fascista Dalla Costa improntò la sua azione a un certo riserbo, connesso al primato dell’impegno pastorale e alla riaffermazione della superiorità della Chiesa rispetto al mondo, secondo la linea «apolitica» voluta da Pio XI per la Chiesa italiana.
In profonda sintonia con l’atteggiamento assunto dal pontefice fu anche la decisione di tenere l’arcivescovato con le porte e le finestre chiuse e senza addobbi in occasione della visita di Hitler a Firenze nel 1938.
Una decisione che si poneva in continuità con la lettera pastorale del febbraio La Chiesa oggi che cosa fa? Che cosa vuole?, uno dei primi documenti della gerarchia ecclesiastica che contengano espressioni di critica verso le leggi razziali.
In questo periodo aveva inizio, anche nella Chiesa fiorentina, una forte azione caritativa verso gli ebrei che si sarebbe intensificata notevolmente negli anni successivi.
C’è una certa continuità tra la linea assunta dal cardinale fiorentino e le posizioni che veniva prendendo La Pira in questo periodo, nel quale egli andava distaccandosi da «Frontespizio», che aveva rappresentato uno dei momenti più significativi dell’adesione cattolica al fascismo e che con Papini riproponeva anche i temi più diffusi di quella vena antigiudaica presente nella tradizione cristiana.
Alla fine degli anni Trenta La Pira elaborava con chiarezza il tema della responsabilità dei cristiani di fronte alla storia e con «Principî» esprimeva, attraverso il ricorso ai Padri e ai Dottori della Chiesa, una denuncia degli errori e delle deviazioni della politica nazista e fascista.
Durante le guerra l’azione di Dalla Costa si ampliò accentuando la dimensione civile connessa alla sua autorità; egli divenne così un importante punto di riferimento sia per l’opera di assistenza sia per le trattative relative al riconoscimento di Firenze come «città aperta».
Nel dopoguerra l’arcivescovo, pur mobilitando il mondo cattolico nell’appoggio alla Democrazia cristiana, mostrò perplessità per la forte politicizzazione della vita religiosa ed ecclesiale.
Da questa consapevolezza ebbe origine il suo tentativo di mitigare e limitare, per quanto possibile, l’applicazione della scomunica ai comunisti.
Anche le sue prese di posizione sui temi sociali si fondavano sul dettato evangelico e in questa prospettiva va collocato l’avallo sempre concesso alle iniziative lapiriane.
Il sostegno dato alla candidatura di La Pira a sindaco nel 1951 fu espressione della molteplicità di rapporti con le istituzioni e le realtà ecclesiali e associative.
Il suo impegno sociale, nelle lotte operaie delle fabbriche fiorentine, dalla Pignone alla Galileo dal 1953 al 1958, ottenne l’appoggio di una gran parte della Chiesa fiorentina, che vedeva in primo luogo la sua azione come una «testimonianza cristiana », anche se suscitava non poche polemiche nella Chiesa e nella società italiana.
Del 1958 è anche la pubblicazione, da parte di don Lorenzo Milani, di Esperienze pastorali, poi fatto ritirare dal commercio per ordine del Sant’Ufficio.
La sua riflessione occupa uno spazio autonomo nella Chiesa fiorentina.
Un altro filone, centrale nelle iniziative lapiriane, che creò una sensibilità comune fu quello del pacifismo: i convegni per la «pace e la civiltà cristiana», come quello dei sindaci del 1955, che sottoscriveva un appello contro la guerra nucleare, o i «Colloqui mediterranei » tenuti tra il 1958 e il 1964, in cui si tentava un dialogo tra arabi ed ebrei, produssero una notevole sensibilizzazione, pur evidenziando posizioni diversificate e difficilmente componibili.
Negli anni Sessanta, con la «questione» della legittimità dell’obiezione di coscienza, una parte della Chiesa fiorentina pose all’attenzione italiana il problema della radicalità della scelta evangelica della pace, e della impossibilità di una guerra giusta nell’epoca delle armi nucleari.
I processi per apologia di reato relativi alla liceità dell’obiezione di coscienza a Balducci e a Milani, con la condanna in appello di entrambi nel 1963 e nel 1967, riproposero con forza questi problemi per i quali una gran parte della cultura cattolica risultava impreparata.
Le opposizioni e le critiche alle iniziative lapiriane ebbero temi e momenti comuni sia nella Chiesa e nella società italiana sia in quella fiorentina.
Il governo della diocesi da parte di Ermenegildo Florit, legato a quello che è stato definito il «partito romano», vescovo coadiutore ad sedem dal 1954, amministratore apostolico dal 1961 e arcivescovo dal 1962 al 1977, fu espressione dell’intenzione romana di isolare gli ecclesiastici ritenuti troppo vicini alle iniziative lapiriane.
Il Sant’Ufficio imponeva allora l’allontanamento da Firenze a noti religiosi, come Balducci, Turoldo, Vannucci, mentre monsignor Enrico Bartoletti, rettore del seminario, veniva «rimosso e promosso» vescovo ausiliare di Lucca.
Le preoccupazioni e le prospettive dell’arcivescovo Florit erano ben presenti fin dalle sue prime lettere pastorali nelle quali riecheggiava i contenuti della lettera su Il Laicismo con cui il cardinal Siri, a nome dell’episcopato italiano, si rivolgeva al clero nel 1960.
L’attenzione maggiore nel governo diocesano si spostava allora sui temi della disciplina, dell’obbedienza, di fronte all’emergere delle richieste di una qualche autonomia, in particolare per l’azione laicale e politica.
Alcune tensioni e fratture che nel postconcilio caratterizzavano la Chiesa italiana si evidenziarono anche a Firenze, dove La Pira non veniva ricandidato dalla Dc per le elezioni amministrative del 1966, provocando polemiche e fratture nel mondo cattolico fiorentino in una logica di forte politicizzazione della vita ecclesiale che limitava le modalità di ricezione delle novità conciliari.
In un clima caratterizzato dalla diffidenza scoppiava il «caso» Isolotto.
La dinamica dello scontro superava l’ambito della Chiesa fiorentina per coinvolgere il confronto tra le realtà che venivano definite come «Chiesa istituzionale» e «comunità di base ».
Una parte consistente del clero fiorentino rifiutava la logica della contrapposizione facendo sentire con autorevolezza la propria voce, rifiutando sia una pura difesa del principio di autorità sia la sua contestazione e richiedendo una qualche partecipazione collegiale alle decisioni.
A Firenze le lacerazioni e le incomprensioni sarebbero rimaste a lungo in un clima di rassegnato immobilismo.
L’episcopato di Benelli (1977-1982) fu espressione di una duplicità di linee pastorali che caratterizza la Chiesa italiana; in primo luogo, in continuità con la sua lunga tradizione nella diplomazia vaticana, egli sostenne la necessità di una presenza sociale e politica dei cattolici; offrì un deciso appoggio ecclesiale al Movimento per la vita e alla promozione del referendum per l’abrogazione della legge 194 approvata nel 1978.
In secondo luogo nel suo impegno pastorale introdusse alcuni elementi di novità con una serie di iniziative a vasto raggio sui temi della carità e del volontariato che proposero la visita pastorale come momento di evangelizzazione.
Una ripresa del dialogo interno alla Chiesa fiorentina si è poi dato con una certa ampiezza solo con il sinodo (1988- 1992) voluto dall’arcivescovo Piovanelli (1983-2001), che ha caratterizzato il suo episcopato con uno stile di dialogo, valorizzando una appartenenza ecclesiale di gruppi e realtà che non avevano da tempo attuato un confronto reciproco.
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FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.