Diocesi di Volterra
STORIA
I - Origini ed epoca medievale
Una pia tradizione sviluppatasi nel XVI . fa risalire la prima predicazione del cristianesimo ai tempi apostolici: san Lino, successore di san Pietro, sarebbe stato volterrano, e nella città avrebbe predicato san Romolo, inviato dal Principe degli apostoli.L’affermazione del cristianesimo appare invece posteriore al 313, e solo agli ultimi decenni del V . risalgono le prime notizie sui suoi vescovi, allorché in lettere del papa Gelasio I degli anni 495 e 496 viene nominato il vescovo Eucaristo con i suoi predecessori Eumazio e Opilione.
Almeno dall’età longobarda erano venerati a Volterra i tre santi Giusto, Clemente e Ottaviano, laici eremiti locali vissuti probabilmente nel VI sec., trasformati dalla tradizione in africani fuggiti dalla persecuzione dei vandali.
In seguito san Giusto da semplice confessore è stato venerato come vescovo, e così è rappresentato dal XIV . Al loro culto si aggiunse quello di presunte martiri locali, Attinia e Greciniana, attribuite all’epoca di Diocleziano, i cui resti furono ritrovati nel 1140.
Il territorio diocesano, che coincideva inizialmente con il municipium romano, subì una drastica ridefinizione quando i longobardi, affacciatisi sul territorio italiano nel 569, intrapresero la conquista della Tuscia.
Volterra, rimasta fino all’inizio del VII . indenne dall’invasione, pagò l’autonomia con l’amputazione di ampie porzioni del territorio.
Del ducato e della diocesi di Lucca entrarono a far parte a nord le valli inferiori degli affluenti di sinistra dell’Arno (a settentrione di Pèccioli e Barbialla), tra l’Era, già confine con Pisa, e l’Elsa; a ovest la diocesi di Populonia inglobò la fascia costiera tra Bolgheri e San Vincenzo; Siena ottenne a est l’area sulla destra della Merse tra Sovicille e San Lorenzo a Merse e, a sud di Tocchi, quella tra la Farma e la Merse fino alla loro confluenza.
A ovest invece divenne pisano il lembo di terra tra i fiumi Fine e Cecina.
Sotto la dominazione franca, iniziata nel 774, a Volterra non fece capo un comitatus e il relativo vuoto di potere creatosi con la mancanza di un alto ufficio civile residente fu colmato dai vescovi che, grazie anche ai molti privilegi loro indirizzati dai sovrani, assunsero un ruolo sempre più importante nella vita cittadina, divenendone il vero fulcro e il punto di riferimento fondamentale.
Tra i vescovi del primo millennio meritano di essere ricordati Andrea (845-851), sotto il cui episcopato venne istituita la vita comune dei canonici presso la cattedrale, Gaugino (874-882), già cancelliere dell’imperatore Ludovico II, e Adalardo (918- 944), sotto cui fu sancita l’autonomia patrimoniale dei canonici della cattedrale.
Al novarese Gunfredo (1016-1039) si deve nel 1034 la prima fondazione monastica vescovile della diocesi, il monastero benedettino maschile extraurbano (l’attuale Badia) dedicato al Salvatore e ai santi Giusto e Clemente.
Dall’episcopato del suo successore Guido (1044-1061) iniziò il progressivo rafforzamento delle prerogative e del ruolo del vescovo in Volterra a scapito degli ufficiali pubblici, del resto ormai praticamente scomparsi dalla città, con uno sviluppo in senso spiccatamente signorile territoriale attraverso l’acquisizione di diritti e di giurisdizioni pubbliche.
Questo processo condusse all’affermazione della signoria vescovile nella città e in alcuni importanti castelli del territorio.
Gli ideali di riforma trovarono una prima espressione con Ermanno (1064-1073), che nel sinodo del 1073 riorganizzò la vita comune dei canonici della cattedrale e affidò ai camaldolesi il monastero di Fonte Pinzaria (Badia Elmi) sulla riva sinistra dell’Elsa di fronte a Certaldo.
Particolarmente importante fu l’episcopato di Ruggero (1103-1132), appartenente all’illustre casata lombarda dei Gisalbertini conti di Bergamo, che mostrò forti vincoli con il papato e con gli ideali di riforma: probabilmente a lui si dovette l’introduzione dei camaldolesi nel monastero dei Santi Giusto e Clemente di Volterra.
Durante il suo episcopato fu portata a compimento la ricostruzione della cattedrale di Santa Maria, consacrata il 20 maggio 1120 dal papa Callisto II.
Verso il 1122 Ruggero fu eletto arcivescovo di Pisa, ma non lasciò l’ufficio episcopale di Volterra.
All’epoca del vescovo Galgano (1150- 1170) risalgono le prime attestazioni dell’autonomia comunale, sviluppatasi sotto l’egida vescovile ma pronta a liberarsene.
Allorché verso il 1162 il presule si schierò dalla parte dell’imperatore Federico I e del suo antipapa Vittore V – ricompensato dal sovrano con la concessione della giurisdizione sulla città di Volterra e sui castelli della diocesi – i volterrani scelsero le parti del pontefice Alessandro III e verso il 1170 giunsero a uccidere il vescovo, fidando nella comprensione pontificia.
Gli episcopati di Ildebrando (1185-1211), della famiglia dei conti Pannocchieschi, e del nipote Pagano (1212-1239) furono contrassegnati da continue lotte con il comune cittadino, intervallate da tregue più o meno lunghe.
Alla fine i presuli dovettero accettare il nuovo stato delle cose.
Il ruolo del comune si era fatto così dominante che i vescovi, ormai privi di ogni potere sulla città e anzi residenti spesso lontano per motivi politici o economici, alla metà del Duecento preferirono trasferirsi nell’area del Piano di Castello, corrispondente all’antica acropoli etrusco- romana.
Le più antiche testimonianze di monachesimo cenobitico, maschile e femminile, risalgono alla fioritura monastica qui verificatasi dall’inizio dell’XI sec., cui si possono ascrivere le origini di una dozzina di enti monastici, molti poi divenuti camaldolesi o vallombrosani.
La diocesi di Volterra fu la prima in Toscana a ospitare i cisterciensi, cui nel 1201 fu concesso San Galgano.
Gli olivetani s’insediarono nel 1339 in Sant’Andrea a Postierla di Volterra.
Nel territorio della diocesi si contarono dal XIII . otto tra magioni e ospedali degli ospitalieri e dei templari.
Il Duecento vide anche la presenza degli ordini mendicanti nei centri principali: in particolare i francescani sono attestati a Volterra dal 1238, le clarisse nel 1244 mentre gli agostiniani eressero il loro convento cittadino nel 1279.
II - Età moderna
In epoca moderna, Volterra poteva essere ritenuta una sede episcopale di buon richiamo nell’assetto diocesano toscano: secondo i registri fiscali della curia romana, la sua mensa rendeva una discreta somma oscillante fra i duemilacinquecento e i duemila scudi l’anno.Falcidiato dalle spese per restaurare gli edifici danneggiati dalle guerre (a partire dal saccheggio subito durante la rivolta antilaurenziana del 1472), oberato dalle pensioni a favore di curiali o di vescovi dimissionari (come l’Alamanni), nel corso del Seicento il patrimonio della mensa episcopale cominciò a mostrare i segni di una situazione di difficoltà per l’emergere di nuovi soggetti imprenditoriali e per la crescita dei costi connessi alle antiche forme di gestione.
Dal 1530, in poco più di quarant’anni si succedettero sei vescovi, tipici esponenti della Chiesa tardo-rinascimentale: il cardinale Giovanni Salviati (amministratore apostolico dal 1530 al 1532), Giovanni Matteo Sartori (vescovo dal 1532 al 1545), Benedetto Nerli (1545-1565), Alessandro Strozzi (1566-1568), Ludovico Antinori (1568-1573) e Marco Saraceni (dal gennaio al novembre del 1574).
Con i loro successori, a partire dal fiorentino Guido Serguidi (1574-1598), il quadro mutò e divenne sempre più rilevante la carriera costruita sull’impegno diretto e sull’esperienza maturata quotidianamente negli uffici.
Dopo l’episcopato ventennale di Luca Alamanni, un nobile fiorentino già vescovo di Mâcon in Francia, fu la volta finalmente di un volterrano, di famiglia tradizionalmente filo-medicea: il nobile Bernardo Inghirami, già professore universitario di diritto a Pisa, auditore a Siena e infine collaboratore del cardinale Alessandro Orsini a Roma.
Ma dopo di lui riprese la sfilata dei fiorentini, con qualche interruzione: il lombardo Carlo Filippo Sfrondati (1677- 1680) e il patrizio pisano Ludovico Maria Pandolfini (1716-1746).
In epoca lorenese seguirono poi il lorenese Giuseppe Du Mesnil (esiliato a Roma), Alessandro Galletti da Monte San Savino (1768-1782), il volterrano Aloisio Buonamici (1782-1791) e il pisano Ranieri Alliata (1791-1806).
La diocesi era abbastanza ampia, ma dalla fine del Cinquecento perse un sesto del suo territorio in seguito alla nascita della diocesi di Colle di Val d’Elsa: furono scorporati, infatti, i pievanati di San Giusto a Balli, di San Giovanni Battista a Molli, di San Giovanni Battista a Pernina, di San Giovanni Battista a Mensano, di San Giovanni Battista a Scola, di Santa Maria a Castello e dei Santi Ippolito e Cassiano a Conèo, con le rispettive parrocchie.
Inoltre, in virtù di un privilegio concesso da papa Pio II alla comunità di San Gimignano il 13 luglio 1462, il vescovo di Volterra vi doveva deputare un vicario foraneo con un tribunale proprio, fornito di ampi poteri in materia di contenzioso.
Con una bolla del 24 aprile del 1566 papa Pio V confermò i diritti di giurisdizione spirituale appartenenti alla Chiesa di San Gimignano: una Chiesa ben dotata, che in età moderna contava un capitolo nel quale, oltre alla dignità della prepositura, erano incardinati ben dodici canonicati e diciotto cappellani.
I privilegi si estendevano dal conferimento di tutti i benefici posti nel circondario della prepositura (i canonicati, le cappellanie e venti chiese parrocchiali) al tribunale vicariale, goduto dalla metà del Quattrocento.
La presenza di questo tribunale fu causa per tutta l’età moderna di tensioni e di scontri fra il vescovo volterrano e questo vicariato: dalle lamentele fatte pervenire dal prelato alla Santa Sede pare che, accampando la scusa della difficile percorribilità della strada per raggiungere la sede vescovile, tutta la popolazione della campagna preferisse rivolgersi al tribunale di San Gimignano, disertando quello volterrano.
La soluzione fu trovata solo alla fine del Settecento, con dispiacere di ambedue i contendenti: con la bolla Dum nos singuli di papa Pio VI (18 settembre 1782), la cittadina di San Gimignano fu scorporata dalla diocesi di Volterra per essere annessa a quella di Colle.
Agli inizi del Seicento il capitolo dei canonici della cattedrale era composto da quattro dignità e undici canonicati distinti: le loro rendite oscillavano fra i cinquanta e i dieci scudi l’anno, mentre alla più povera ne toccavano appena quattro.
A sua volta la mensa capitolare aveva un reddito annuo totale di circa settecento scudi: le distribuzioni corali arrivavano appena a trenta-quaranta scudi (salite poi a più di cinquanta verso la metà del secolo), per chi era assiduo nella presenza al Coro.
Questo corpo ecclesiastico aveva il diritto di conferire tutte le dignità (arcidiaconato escluso), i canonicati e le cappellanie del duomo (una trentina, quasi tutte di giuspatronato laicale), nonché alcuni benefici curati; e tutti i suoi membri godevano del privilegio – in occasione delle vacanze delle prebende canonicali nei quattro mesi non riservati al pontefice – di optare per le prebende più ricche.
Quando vacavano le prebende più ricche i canonici più vecchi optavano per queste, e altri li seguivano a loro volta sui posti lasciati liberi, sicché rimanevano vacanti le prebende più povere, quelle che non superavano i quattro scudi: solo con queste si potevano remunerare gli uffici di penitenziere e di teologo, ma non si trovava nessuno che volesse addossarsi questi oneri per una rendita così esigua.
Nella cattedrale vi erano anche due luoghi pii, che dovevano provvedere al culto sacro, cioè la sagrestia e l’Opera: in tutti e due gli enti le «pertinenze» laicali impedivano ogni possibile controllo vescovile, poiché nella prima il comune nominava due Operai su quattro (gli altri due erano membri del capitolo...
cioè del ramo ecclesiastico dello stesso gruppo dirigente cittadino!) e nella seconda tutti gli amministratori erano di nomina comunale.
Del resto la gestione laicale diffusa fra gli esponenti dell’oligarchia cittadina come fra i «meglio stanti» del contado da una parte, e il controllo politico governativo dei Nove Conservatori dall’altra, caratterizzavano – a Volterra come nel resto della diocesi – tutti gli enti pii laicali: le innumerevoli confraternite e i tanti ospedali.
Soltanto a Volterra – fra dentro e fuori le mura – vi erano dodici confraternite «Laicorum seu Disciplinatorum» e a San Gimignano ve ne erano altre nove, più tutte quelle che erano erette nelle chiese curate rurali: come le fabbricerie e gli ospedali, anche queste accettavano la visita e il controllo del vescovo solo per gli aspetti meramente liturgico-sacramentali o, tutt’al più, per l’approvazione degli statuti associativi; per tutto il resto, cioè per la quotidiana amministrazione finanziaria e per l’eventuale contenzioso giudiziario con terzi, riconoscevano la dipendenza solo dai Nove Conservatori di Firenze e – quando lo ritenevano conveniente – la competenza dei tribunali civili, anziché di quelli ecclesiastici.
Nella città di Volterra, che contava circa cinquemila abitanti fra centro e sobborghi, la cura d’anime era affidata a sette sole parrocchie, tre dentro le mura e quattro nei sobborghi.
Come in altri centri toscani una di queste era annessa alla cattedrale e anche qui si verificava un abuso assai diffuso: disobbedendo ai decreti del concilio di Trento, i canonici del duomo non avevano nominato un vicario curato inamovibile, e a nulla approdarono le reiterate richieste dei vescovi volterrani per adempiere al dettato conciliare.
Quanto al resto della diocesi, la rete parrocchiale era strutturata su una quarantina di pievi e poco più di un centinaio di chiese curate: fino allo scorcio del Cinquecento vi erano molte chiese parrocchiali non erette formalmente in titolo, per cui i patroni le facevano curare da rettori amovibili, ma grazie all’impegno del vescovo Luca Alamanni già agli inizi del Seicento la maggior parte erano state erette in titolo e avevano un pastore titolare.
Agli inizi del Seicento, dentro la città di Volterra vi erano due monasteri femminili, quello di San Lino dell’ordine di Santa Chiara e quello di San Dalmazio della congregazione benedettina dei cisterciensi; nei sobborghi altri due, quello di San Marco dell’ordine dei camaldolesi e quello di Santa Chiara dell’omonimo ordine: ormai erano tutti sottoposti alla giurisdizione episcopale e lentamente dovettero adattarsi alla clausura.
Nel resto della diocesi sorgevano altri nove monasteri femminili, cioè uno nella terra di Radicondoli, uno fuori il castello di Gambassi, uno a Montaione, uno fuori Castelfiorentino e ben cinque nella cittadina di San Gimignano: Santa Maria Maddalena dell’ordine di Sant’Agostino, Santa Caterina e dell’Assunzione della Vergine dell’ordine di San Benedetto, Santa Chiara dell’ordine delle clarisse, e San Gerolamo dell’ordine di Vallombrosa.
Infine, per quanto riguarda gli ordini regolari, dentro le mura di Volterra sorgevano due conventi, rispettivamente di frati agostiniani e di francescani, e nei suoi sobborghi ve ne erano altri due dell’ordine francescano (osservanti e cappuccini), insieme con due monasteri di camaldolesi e di olivetani.
A San Gimignano vi erano cinque case di regolari e altre otto nel resto della diocesi, ma non sempre questi cenobi erano abitati da famiglie monastiche di giusta dimensione, creando così non pochi problemi sul piano disciplinare.
D’altronde, nell’impossibilità di ottenere dai religiosi degli ordini tradizionali un servizio sacro più raffinato dell’usuale ministero sacramentale e per la necessità inderogabile di elevare il tono culturale e disciplinare del clero e dei cittadini, agli inizi del Settecento la stessa comunità volterrana giudicò opportuno ricorrere ai chierici regolari dei poveri della Madre di Dio delle Scuole pie: così a Volterra, nei locali situati presso la chiesa di San Michele, venne istituito un collegio, nel quale sei padri scolopi si dedicavano all’istruzione dei giovani, portando i frutti di una scelta educazionale di grande modernità.
III - Età contemporanea
I primi anni dell’Ottocento furono caratterizzati dalle riforme instaurate dal governo francese che soppresse moltissimi enti e istituzioni religiose, incamerandone i beni e procedendo alla loro vendita.Dopo le soppressioni avvenute con il governo granducale negli ultimi anni del Settecento, questo fu un ulteriore colpo inferto al patrimonio ecclesiastico toscano, ancora una volta con lo scopo di incamerarne i beni nel demanio pubblico.
In particolare nella città venne soppresso dapprima il monastero di San Giusto, il 15 ottobre 1810, e poche settimane dopo anche gli altri conventi cittadini e corporazioni laicali.
Nonostante le proteste dei religiosi molti beni vennero acquistati, a basso costo, soprattutto da pochi speculatori.
Con la caduta dell’impero francese il governo granducale abolì quasi tutte le leggi emanate da Napoleone; molti monasteri ed enti religiosi furono ricostituiti ma solo una parte dei loro beni fu restituita, sì che la Chiesa volterrana si ritrovò impoverita rispetto al secolo precedente.
Nella prima metà dell’Ottocento Volterra godette di un certo prestigio come sede di studi.
Sia il collegio dei padri scolopi sia il seminario vescovile attirarono numerosi studenti anche da altre diocesi e regioni.
Fra gli altri studiò a Volterra, dal 1803 al 1809, Giovanni Maria Mastai Ferretti, il futuro papa Pio IX.
Costui ebbe sempre un piacevole ricordo di Volterra, tanto da concedere al suo vescovo e alla diocesi numerosi privilegi una volta salito al soglio pontificio.
La sede volterrana fino al 1855 dipese direttamente dalla Sede apostolica; in quell’anno, a causa dei mutamenti politici avvenuti in seguito all’erezione del vescovato di Modigliana, divenne suffraganea dell’arcivescovato di Pisa.
Però, con la bolla Ut primum placuit del 10 agosto 1856 il pontefice Pio IX cercò di compensare la perdita gratificando i vescovi volterrani del privilegio del pallio.
Nel 1866 il governo italiano emanò una nuova legge che prevedeva la vendita di numerosi beni ex ecclesiastici appartenenti al demanio religioso.
Negli anni successivi numerosi edifici religiosi vennero trasformati in scuole, ospedali, asili, dopo il loro passaggio ai comuni di pertinenza.
Ma alcuni di essi vennero ceduti anche a privati, come fu il caso di una parte della Badia camaldolese di Volterra.
Anche i quadri e gli oggetti di arte non di uso liturgico furono assegnati ai comuni di pertinenza.
In particolare il comune di Volterra ottenne un consistente nucleo di opere d’arte, soprattutto provenienti dalla Badia camaldolese.
L’applicazione della legge provocò tuttavia un lungo contenzioso fra il comune di Volterra e alcuni parroci cittadini, che durò a lungo e finì in tribunale, terminando con una sentenza che modificò in parte il regolamento attuativo della legge sui beni del demanio ecclesiastico, dando ragione ai parroci che avevano fatto ricorso contro il comune di Volterra.
Nei primi anni del Novecento il vescovo Emanuele Mignone fu il principale fautore della nascita dell’associazionismo cattolico nella diocesi; per sua volontà nacque a Volterra il giornale cattolico, «La Scintilla», espressione delle idee politiche del vescovo, e schierato al fianco del governo in molte circostanze, come nel caso dell’impresa di Libia.
La polemica con la sinistra volterrana portò gli anarchici di quella città ad adottare un curioso sistema di protesta: nel 1910 sulla facciata di un edificio posto in via Roma, di fronte al palazzo vescovile, vennero apposte due grandi targhe ancora esistenti, una in memoria del teorico razionalista Francesco Ferrer, fucilato in Spagna per le sue idee, e l’altra in onore di Giordano Bruno.
Nei primi anni del ventennio fascista la chiesa volterrana era divisa in due fazioni e molti ecclesiastici furono visti con sospetto.
Anche l’allora vescovo di Volterra, il carmelitano Raffaello Rossi, venne sottoposto alla censura pubblica; nel 1923, quando si trasferì a Roma, il giornale volterrano «Il Corazziere», organo di stampa del partito fascista locale, commentò aspramente l’evento.
Nel gennaio 1925, su iniziativa del vescovo Munerati, fu fondato un nuovo giornale cattolico, «L’Araldo», ancora oggi esistente, dalle cui colonne si potevano, in quegli anni di regime, leggere articoli parzialmente contrastanti con la stampa ufficiale, contro la politica tedesca, le leggi razziali e avere informazioni sui processi agli antifascisti.
L’attuale estensione della diocesi di Volterra risale al 1954, quando furono assegnati all’arcivescovato di Siena i vicariati di Chiusdino e Monticiano.
Oggi la diocesi di Volterra è suddivisa in sei vicariati (chiamati anche, secondo l’uso antico, «sesti»): Volterra, Valdelsa, Valdera, Alta Valdicecina, Bassa Valdicecina e Boracifera, che raccolgono novantadue parrocchie.
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Diocesi di Volterra
Chiesa di Santa Maria Assunta
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FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.