Diocesi di Milano
STORIA
I - Le origini
Il primo vescovo attestato dalla tradizione sarebbe Anatalo (o Anatalone o Anatolio), secondo alcune fonti discepolo di san Barnaba, secondo altre di san Pietro.Successore di Anatalo sarebbe stato Caio, a sua volta discepolo di san Paolo.
È evidente il desiderio di porre un fondamento petrino o almeno apostolico alla diocesi.
I ritrovamenti archeologici, d’altra parte, attestano al III . l’esistenza di una domus Philippi presso l’attuale basilica di Sant’Ambrogio, che custodisce anche l’epigrafe di Armenius, cristiano, databile al 244.
Pare certo, dunque, che il cristianesimo sia giunto a Milano non oltre la metà del III sec., portato da commercianti e/o dagli stanziamenti militari, tra i quali erano numerosi i cristiani.
Ciò spiegherebbe anche i nomi degli altri primi vescovi: Castriziano, Calimero e Mona, dei quali conosciamo solo la lunghissima durata degli episcopati, tale da poter «portare» l’episcopato di Anatalo al I . I nomi di questi primi vescovi potrebbero scandire l’evoluzione della prima comunità cristiana: Anatalo indicherebbe la regione d’origine dei primi missionari (Anatolia); Caio potrebbe segnalare il rapido radicarsi della comunità cristiana tra gli autoctoni di cultura e lingua latina; Castriziano ricorderebbe l’ambiente militare (il castrum), che caratterizzava Mediolanum e che fu tra i motivi per i quali, nel 286, la città fu scelta come una delle capitali dell’Occidente.
Da qui – non a caso – Costantino e Licino nei primi mesi del 313 emanarono l’editto di tolleranza o editto di Milano.
Proprio in questo anno abbiamo il primo nome sicuro di un vescovo milanese: Mirocle, morto nel 316, è presente al sinodo convocato a Roma da papa Milziade (1-2 ottobre 313), come anche al concilio di Arles del 314.
Da allora la cronotassi episcopale si fa più precisa e la vita della Chiesa milanese risente delle vicende coeve, in particolare delle tensioni successive al concilio di Nicea (325), aggravate dagli interventi della corte imperiale.
Così al vescovo Eustorgio (344-349 ca), che Ambrogio definisce «confessore», succede Dionigi (349-360), deposto nel 355 insieme a Eusebio di Vercelli e Lucifero di Cagliari, per essersi rifiutato di condannare Atanasio, secondo l’ordine dell’imperatore filoariano Costanzo.
Dionigi fu sostituito dal filoariano Aussenzio (355-374), definito «usurpatore », anche se tenne la sede episcopale per 19 anni.
A lui successe Ambrogio.
II - Sant’Ambrogio
Ambrogio (374-397) portò al massimo prestigio la sede episcopale, al punto che il suo nome venne a individuare la sua Chiesa: ambrosiana.Sappiamo che già nel VII . ci si rivolgeva al vescovo col titolo di «vicarius Ambrosii» e che i vassalli e i militi alle dipendenze del vescovo di Milano erano chiamati vassalli o militi di sant’Ambrogio.
Tuttavia la più antica testimonianza di ambrosianità è in una lettera del febbraio 881, nella quale papa Giovanni VIII si rivolge a un’ambasceria di cittadini milanesi, appellandola «legatio ambrosianae ecclesiae».
Nel 947-948 Lotario II, re d’Italia, concedeva di battere moneta «al beato Ambrogio e a Manasse», suo cugino, che aveva imposto come vescovo (948-962/3).
Milano al tempo di Ambrogio era una città vivace, con circa 120.000 abitanti, ove dimorarono Costanzo II (337-361), Valentiniano I (364-375), Graziano (375- 378), Valentiniano II (378-392) e saltuariamente Teodosio (379-395).
Tra il 380 e il 390 il poeta Ausonio (310-395) la descrive ammirato: «A Milano ogni cosa è degna di ammirazione, vi è profusione di ricchezze e innumerevoli sono le case signorili; la popolazione è di grandi capacità, eloquente e affabile.
La città si è ingrandita ed è circondata da una duplice cerchia di mura: vi sono il circo, dove il popolo gode degli spettacoli, il teatro con le gradinate a cuneo, i templi, il palazzo imperiale, la zecca, il quartiere che prende il nome dalle celebri terme Erculee.
I cortili colonnati sono adorni di statue marmoree; le mura sono circondate da una cintura di argini fortificati.
Le sue costruzioni appaiono una più imponente dell’altra, come se fossero tra sé rivali, e non ne sminuisce la grandezza nemmeno la vicinanza con Roma» (Ordo urbium nobilium, VII).
Ambrogio, nei rapporti tra ambito politico e religioso, coniugò rispetto dell’autorità imperiale e opposizione a ogni ingerenza nell’autonomia della Chiesa: «Ho l’abitudine – diceva – di riconoscere l’autorità imperiale, ma non di piegarmi ai suoi soprusi […] Le cose divine non sono soggette al potere imperiale».
Ambrogio, infatti, si oppose con successo per tre volte (381, 385, 386) all’imperatrice madre, Giustina, la quale pretendeva la consegna di una basilica ai fedeli ariani, ma nel 388 non ottenne da Teodosio la revoca dell’ordine di ricostruire la sinagoga di Callinico (Mesopotamia), distrutta dai cristiani.
Nel 390 ci fu la strage di Tessalonica, autorizzata da Teodosio: Ambrogio con delicatezza e con fermezza informò confidenzialmente l’imperatore che non lo avrebbe ammesso alla comunione eucaristica, se prima non avesse fatto penitenza.
Teodosio accettò ponendo un principio: anche l’imperatore è soggetto alle leggi di Dio ed è chiamato alla temperanza più che alla violenza.
Ne fu conferma l’appello di Ambrogio a Teodosio perché risparmiasse i partigiani di Eugenio (392-394), che aveva tentato di sottrargli il trono imperiale.
La stessa cura Ambrogio ebbe nel coltivare la comunione ecclesiale con i vescovi, privilegiando il rapporto con la Chiesa di Roma: «Ubi Petrus – diceva – ibi Ecclesia».
Il vescovo era l’unico titolare della diocesi, che gli apparteneva in solido: nominava i custodes delle basiliche e a ogni altra carica; amministrava tutti i beni della Chiesa, provvedendo al culto e al mantenimento dei sacerdoti.
Nella vita pastorale Ambrogio curò la formazione del clero, avendone lui stesso bisogno: «Dovetti cominciare a insegnare ciò che non avevo ancora imparato» (De officiis 1).
Frutto di quest’attenzione formativa sono le sue pubblicazioni, che spaziano dal campo esegetico a quello morale e ascetico, da quello dogmatico a quello pastorale: a esse si attinge ancora oggi.
Per quanto riguarda il clero, agli inizi del IV . a Milano accanto al vescovo, ai presbiteri e ai diaconi è certa la presenza di lettori ed esorcisti, mentre non si hanno notizie di accoliti e di suddiaconi (come invece a Roma e Cartagine) e neppure di ostiari, anche se si parla di custodi del sacrario.
Sembra che alcuni membri del clero facessero vita comune con il vescovo, sull’esempio di Agostino a Ippona e di Eusebio a Vercelli.
Uno stile di vita che Ambrogio descrisse nel De officiis ministrorum, ove emerge il suo ideale di sacerdote: un uomo umanamente completo, armonico, equilibrato, un vir romanus, che si distingue per temperanza e fortezza.
La vita pastorale ruotava intorno all’eucaristia, alla quale era legato il ministero della predicazione, cui tutti potevano assistere.
Da Ambrogio apprendiamo che parlava a un pubblico composito: battezzati e catecumeni, pagani, giudei e ariani.
Ambrogio curò particolarmente il culto dei martiri: dai martiri locali (Vittore, Nabore e Felice; Gervasio e Protasio; Nazaro e Celso) agli apostoli, a chi aveva operato per l’unità della Chiesa, come il suo predecessore, san Dionigi (349-355).
Per favorire questa devozione Ambrogio edificò numerose basiliche, tra le quali ricordiamo la basilica dei Martiri (l’attuale basilica di Sant’Ambrogio) e quella degli Apostoli, arricchita con le reliquie degli apostoli e brandea di Pietro e di Paolo.
Nella città ci si affidava alla testimonianza dei cristiani immersi nel mondo circostante non credente (pagani) o non confessante (ariani).
La solidarietà sociale e la carità erano sentite e ben organizzate: attraverso i diaconi e sotto il controllo del vescovo la Chiesa forniva di dote le ragazze orfane, educava gli orfani e i bambini esposti, ospitava i pellegrini, concedeva denaro a chi era in difficoltà, aiutava i nobili decaduti, visitava ogni giorno i malati e i carcerati, riscattava i prigionieri di guerra: «Niente perde la Chiesa – diceva Ambrogio –, quando guadagna la carità.
E la carità non è mai una perdita, ma la conquista più vera di Cristo» (Ep 82, 9).
Anche se un poeta gallo, Endelechi, alla fine del IV . diceva che «si adora Cristo solo nelle grandi città», non mancava l’impegno per la diffusione della fede nella campagna.
I possessores (i proprietari terrieri, che vivevano in città) erano sollecitati a estirpare dalle loro proprietà rurali il paganesimo e una conferma si ha nel 397 con il martirio di Sisinio, Martirio e Alessandro, tre ecclesiastici, inviati come missionari nella val di Non da Ambrogio dieci anni prima.
Allo stesso periodo risalirebbe il collegio missionario, ritrovato nell’isola di San Giulio d’Orta e raccolto intorno ai santi Giulio e Giuliano, evangelizzatori tra Benaco e Cusio.
La maggioranza della popolazione milanese riceveva il battesimo in età adulta, ma già al tempo di Ambrogio era diffuso il pedo-battesimo.
Lo attesta Paolino da Nola, che, a proposito della salma di Ambrogio esposta nella basilica, scrive: «Molti bambini lo videro venendo dal fonte dove avevano ricevuto il battesimo».
Il battesimo era preceduto dal catecumenato, che durava almeno due anni, e da una più intensa preparazione nella quaresima precedente, quando veniva proposto il digiuno quotidiano, esclusi i sabati e le domeniche.
Pare che la celebrazione eucaristica fosse quotidiana e che Ambrogio invitasse a ricevere ogni giorno la comunione.
Nel commento al Salmo 118 scrive: «Prima si legga la lettura profetica, poi quella dell’apostolo e infine il Vangelo».
Dopo le letture c’era il discorso (o tractatus) del vescovo, cui seguiva la liturgia eucaristica, già ben strutturata: Ambrogio nel De sacramentis riporta il canone, che caratterizzò la liturgia sino alla riforma del Vaticano II e che è tuttora la Preghiera eucaristica I.
La riconciliazione avveniva ancora secondo la rigida normativa del IV sec.: un’unica riconciliazione nel corso della vita, celebrata il giovedì santo, dopo una penitenza di durata talvolta pluriennale.
Ambrogio sottolineò l’indissolubilità del matrimonio, la mutua fedeltà, la pari dignità dei coniugi, l’importanza del mutuo consenso.
Era una proposta di alto profilo, se confrontata con la condotta morale del tempo, e che scaturiva da un sincero ottimismo verso il mondo femminile.
Accanto a questo apprezzamento, però, si poneva il chiaro invito alla castità e alla verginità per il regno, testimoniatagli dalla sorella Marcellina, velata da papa Liberio (352-366) nel Natale del 352, e che gli ispirò almeno quattro opere e alcune preghiere ancora oggi usate per la loro profondità.
Milano aveva alcune peculiarità liturgiche, come la lavanda dei piedi ai neofiti o la data della Pasqua, calcolata secondo il calendario orientale: «Desidero seguire in tutto la Chiesa di Roma – diceva Ambrogio –, ma anche noi, come gli altri uomini, abbiamo il nostro modo di pensare».
Almeno un cenno merita la cura di Ambrogio per la preghiera comunitaria, per animare la quale compose alcuni inni ancora oggi in uso.
Essi, insieme ai salmi, che egli commentò ampiamente, favorivano la preghiera quotidiana al mattino e al tramonto: «Di buon mattino affrettati in chiesa […] come è bello cominciare dagli inni e dai canti, dalle beatitudini che leggi nel Vangelo!» (Ex.
Ps 118).
III - L’evoluzione medioevale
Nel febbraio 402, pochi anni dopo la morte di Ambrogio, i visigoti entrarono in Milano, abbandonata dall’imperatore Onorio (395- 421) rifugiatosi a Ravenna.A difendere la città rimasero il generale Stilicone e il vescovo Venerio (400-408), coadiuvato da un clero vivace, se è vero che alcuni vescovi africani gli chiesero l’invio di alcuni presbiteri milanesi.
Era l’inizio di un periodo faticoso: nel 452 Attila saccheggiò Milano e la guerra greco-gotica (535-553) culminò nel 539 con la distruzione di Milano, già ridotta alla fame.
A ciò si unirono le tensioni ecclesiali, culminate anche per Milano nello scisma dei Tre Capitoli, che indebolì ulteriormente il prestigio di Milano (Como passò sotto Aquileia).
Nel 569 all’arrivo di Alboino, il vescovo Onorato (560-571) si trasferì a Genova, suffraganea di Milano, e da lì governò la diocesi senza scontrarsi con i capi dei longobardi.
Questa lontananza del vescovo da Milano terminò dopo quasi un secolo con il ritorno in città di Giovanni Buono (641-669ca) e lasciò non poche conseguenze.
In primo luogo favorì l’autonomia delle altre Chiese locali: Forlì, Faenza, Imola, Bologna, Modena passarono al vescovo di Ravenna, suffraganeo di Roma.
In secondo luogo, tra il clero si formarono due ordines: il clero cardinale, che accompagnò il vescovo a Genova, e quello decumano, che rimase in città, di più umili condizioni sociali e composto anche – pare – da missionari orientali, i quali avrebbero portato i loro riti e le loro tradizioni.
Se ne troverebbe traccia nella liturgia ambrosiana: nella preghiera eucaristica del Giovedì Santo (la Preghiera Eucaristica V), nel Canto allo spezzare del pane e in quello alla comunione; nella comunione sotto le due specie, che rimase in uso sino al 1400.
Altri influssi orientali si avrebbero nella Liturgia delle Lodi (Antifona «ad crucem») e nella sentita devozione alla Madonna (i numerosissimi santuari).
Al tempo di Carlo Magno, che dopo la sconfitta di Desiderio si proclamò re dei longobardi, i tentativi di unificazione liturgica provocarono a una resistenza, che fece sentire ancor più peculiare la liturgia e la tradizione ambrosiana.
Sono di questo periodo (777) il primo documento che attribuisce il titolo di arcivescovo a Tomaso (755-783) e il titolo di Ambrosiana Ecclesia usato da papa Giovanni VIII (881).
In quest’epoca, inoltre, si assiste a una maggiore diffusione del monachesimo, favorito in particolare da Angilberto II (824- 859) per il suo potenziale di riforma spirituale e, forse, per arginare la progressiva autonomia delle pievi, che in un sinodo romano dell’826 (confermato da un sinodo di Pavia nell’850) vennero sottoposte all’autorità dei vescovi, i quali vi avrebbero nominato degli arcipreti.
In questo modo fu ben chiaro che solo le pievi erano ecclesiae publicae sub regimine et potestate episcopi, mentre le numerose cappelle o chiese di proprietà privata, pur ottenendo vari diritti (di cimitero, di messa pubblica, di decima) e diventando (dal XII sec.) parrocchie, mai ottennero il diritto di battezzare, riservato alla chiesa pievana.
La situazione dovette degenerare ben presto, se in un sinodo milanese (864) si presero provvedimenti affinché i beni delle chiese o degli xenodochia non fossero stornati dalla loro finalità originaria.
Per arginare il fenomeno, si cominciò ad affidare ai monaci le chiese più importanti: Sant’Ambrogio, San Simpliciano, San Dionigi, San Vittore al Corpo, Sant’Eustorgio.
Ma con il tempo la presenza dei grandi cenobi e l’estendersi dei loro possedimenti patrimoniali provocò talora forti tensioni, come avvenne tra il monastero di Sant’Ambrogio in Milano e il vescovo di Como, Eliberto (874 ca-880) per il possesso delle chiese del territorio di Campione d’Italia.
La successiva piaga dell’assegnazione delle pievi a laici – iniziata da Landolfo II (979-998) – contribuì alla crisi delle chiese pievane e ridusse in povertà il clero addetto alla chiesa battesimale.
Non fu, però, del tutto un male: l’assegnazione ai laici, divenuta ben presto ereditaria, assicurò stabilità alle pievi e permise loro di sussistere oltre le fasi dell’incastellamento (X-XI sec.) e dello sviluppo dei borghi (XII-XIII sec.).
Proprio quest’attiva partecipazione del popolo condusse alle tensioni e al desiderio di riforma morale del X-XI . È il fenomeno complesso della Pataria, che caratterizzò la diocesi di Milano e che troviamo diffuso in altre città, non solo lombarde: Cremona, Brescia, Piacenza, Asti, Cambrai, Firenze.
Nella Pataria si fondono desiderio di riforma e tensioni tra le classi sociali emergenti, tra clero e laici, tra riformisti fedeli a Roma e custodi delle peculiarità ambrosiane.
Va ricordato che da Ansperto (868- 881) ad Ariberto d’Intimiano (1018-1045), due tra i più grandi vescovi medioevali, su sedici arcivescovi solo due non erano diocesani.
Il vescovo, pertanto, esprimeva lo spirito del comune e non a caso la lotta contro l’imperatore Corrado il Salico (1024-1039) si coagulò intorno al Carroccio, custodito nella chiesa cattedrale.
Per placare queste tensioni l’imperatore Enrico III (1039-1056) scelse come successore di Ariberto un membro del clero rurale anche se di famiglia nobile, Guido da Velate (1045-1071), inviso ai riformatori, sia laici (Erlembardo e Landolfo Cotta) sia ecclesiastici (il diacono e martire Arialdo e Nazario).
In particolare essi continuarono la lotta – già iniziata da Ariberto – contro la simonia e il nicolaitismo del clero, che spesso aveva agito in buona fede, appellandosi al cosiddetto «privilegio ambrosiano », un retaggio della presenza di clero orientale.
Dopo l’elezione di papa Alessandro II (1061-1073), originario di Milano (Baggio) e convinto riformatore, l’arcivescovo Guido, scoraggiato dai continui disordini, nel 1070 si dimise nelle mani dell’imperatore, Enrico IV (1056-1105), che nominò Goffredo, il quale fu scomunicato dal papa e rifiutato dai milanesi, mentre Erlembardo prendeva sotto custodia i beni della Chiesa, per consegnarli al vero arcivescovo, Atto (o Attone: 1072-1075), creato dal papa cardinale (primo dei vescovi milanesi).
Questi fu insediato, subito aggredito e costretto alle dimissioni, mentre Enrico IV ordinava ai vescovi suffraganei di consacrare Goffredo.
Alessandro II morì poco dopo (21 aprile 1073), lasciando il problema a Ildebrando, papa Gregorio VII (1073-1085): l’elezione dell’arcivescovo di Milano fu l’occasione di quello scontro, che va sotto il nome di «lotta per le investiture ».
Frutto della Pataria fu la radicale riforma del clero, un più intenso legame con il papato romano – consolidato con l’elezione di Uberto Crivelli (1185-1187) a papa Urbano III –, l’affermarsi della forma di vita canonicale in tutte le chiese maggiori della diocesi, il rinnovamento monastico favorito dai legami con Cluny (dal 1080) e dai nuovi ordini religiosi riformatori: i cisterciensi, presenti a Morimondo e Chiaravalle, i templari in Milano, i vallombrosani al Gratosoglio.
Accanto a essi vanno ricordati gli umiliati, già fiorenti nella seconda metà del XII sec., che nella loro scelta di povertà furono da alcuni accostati ai catari, da altri visti come antesignani degli ordini mendicanti, dei domenicani (presenti dal 1220), dei francescani (già numerosi nel 1230), dei carmelitani (1250 ca) e dei serviti, giunti negli stessi anni.
Autoctoni furono anche gli ambrosiani (o Fratelli di Sant’Ambrogio ad Nemus), dediti alla vita eremitica, sorti nel XIV sec., che poi si estinsero nel ramo maschile ma continuarono nelle romite ambrosiane, ancora esistenti (Santa Maria del Monte sopra Varese).
La presenza di fenomeni ereticali tipici del XII-XIII . è confermata da un cronista inglese, Matteo Parsi, per il quale Milano era «omnium hereticorum […] refugium et receptaculum».
La lotta contro la corruzione e l’eresia fu decisa, e vide il martirio dell’inquisitore pontificio, il domenicano Pietro da Verona (1252), seguito da quello del francescano Pietro de Arcagnago (1254).
Segno del perdurante coinvolgimento della Chiesa nella vita civile è l’arcivescovo Oberto (1146-1166), che sostenne la resistenza del comune contro Federico I Barbarossa (1121-1190), il quale punì la città radendola al suolo (1162).
La cosa si ripeté con la battaglia di Legnano (1176).
La carità continuò a essere un elemento caratteristico della diocesi nel Medioevo.
Il Versum de Mediolano civitate (739 ca) recita: «Ugualmente perdura nel popolo una generosa carità: tutti si affrettano zelanti alla chiesa di Dio, offrendo i propri doni devoti sull’altare.
[...] Qui gli ignudi sono rivestiti con generosa carità, mentre i poveri e i pellegrini vi sono saziati».
Al proposito possiamo ricordare l’opera dei preti decumani fra VI e VII . e in particolare il brefotrofio fondato nel 787 da Dateo, arciprete della cattedrale, per raccogliere sino alla piena autosufficienza (sette anni) i bambini esposti, che non dovevano essere ridotti in schiavitù, come invece permetteva il diritto a proposito dei pueri collecti.
Inoltre Dateo, per proteggerlo da ogni ingerenza laica, pose il brefotrofio sotto la proprietà di sant’Ambrogio, in analogia con i possedimenti di san Pietro.
Così il vicario di Ambrogio, l’arcivescovo pro tempore, ne risultava il custode e protettore.
Era un’istituzione rivoluzionaria e divenne esemplare: l’arcivescovo Ansperto (869- 881) nell’876 stabilì che gli edifici di sua proprietà presso San Satiro divenissero un ospedale per i poveri e i pellegrini; Ariberto (1018-1045) fondò l’hospitale di San Dionigi per i poveri e dotò il monastero di Sant’Ambrogio di beni sufficienti a sfamare più di mille poveri l’anno.
Si dovrebbero citare molti altri ospedali: quello presso San Simpliciano, fondato nel 1091 da Lanfranco della Pila, quello di San Barnaba al Brolo, fondato nel 1145 da Goffredo da Bussero, presso porta Orientale; mentre al XIV . appartengono gli hospitali della Colombetta, presso porta Ticinese, di San Giacomo presso porta Vercellina, delle Quattro Marie, nell’attuale arcivescovato.
Bonvesin de la Riva (1240ca–1315), nel suo De magnalibus urbis Mediolani (1288) conta 200.000 abitanti in città, 12.500 case, 200 chiese, 115 parrocchie, 60 conventi, 10 ospedali.
A questi ultimi vanno aggiunti i 15 ospedali esistenti nel contado, come quelli di San Biagio e San Gerardo a Monza.
L’impegno di carità ebbe anche le sue vittime e i suoi santi: l’arcivescovo Oberto, mentre faceva la carità alla porta del duomo, fu ucciso dai suoi vassalli che contestavano la difesa dei poveri, fino ad allora sfruttati dai potenti.
Galdino (1166-1176), l’unico vescovo santo del Medioevo, era noto per la sua carità e mitezza: convertì Buonaccorso, maestro dei catari, diffusi anche in diocesi, e organizzò il sostentamento di tutti i carcerati (pane di san Galdino).
Oltre a questi vescovi, potremmo citare alcune figure di presbiteri: Giovanni Boffa, autore del Beroldus novus, Goffredo da Bussero, autore del Liber notitiae Sanctorum Mediolani, Bonvesin de la Riva, già ricordato.
Tutti mostrano zelo sacerdotale, cultura raffinata e forte spiritualità.
Progressivamente, accanto all’impegno caritativo della Chiesa, si sviluppò quello del potere civile, favorendo numerosissime confraternite e luoghi pii, vivacissime strutture assistenziali e ospedaliere, che nel Quattrocento si concretarono nell’istituzione della Ca’ Granda, ove la volontà del signore, Francesco Sforza, si coniugò con quella di suo fratello, Gabriele Sforza, arcivescovo di Milano tra il 1454 e il 1457.
Tra le confraternite vanno ricordate quelle di San Giovanni decollato e dei Protettori dei carcerati.
La prima assisteva i condannati nei momenti precedenti l’esecuzione; la seconda vigilava sulle condizioni di vita nelle carceri, sull’igiene, sul vitto e perché non ci fossero sevizie o estorsioni, i processi fossero equi e le condanne non esagerate.
I monti di pietà, che offrivano prestiti senza interesse ai poveri, si diffusero per la predicazione di Bernardino da Siena e di fra Michele Carcano, nativo di Milano (Broletto).
Le cose peggiorarono con l’avanzare del XIII sec.: alcuni vescovi vennero «contestati », altri appartennero alla stessa famiglia dei signori di Milano o furono contemporaneamente vescovo e signore, come Giovanni Visconti (1339-1354), che «in omnibus gloriosus temporalem gubernationem optime tenuit»: fu buon amministratore della diocesi, ma pare abbia celebrato una sola messa.
I suoi successori non risiedettero in diocesi sino ai due Ippolito d’Este: il primo, eletto a diciotto anni nel 1497, rinunciò all’episcopato nel 1519 in favore del nipote decenne, Ippolito II, il quale «affittò» l’episcopato a Carlo Borromeo, cui infine lo cedette (1560- 1584).
Ad arginare la situazione concorsero i vicari, che erano solitamente scelti tra i vescovi più virtuosi.
IV - San Carlo Borromeo
Le conseguenze pastorali sono facilmente immaginabili: era nota la licenziosità durante il carnevale ambrosiano, che finiva la notte della prima domenica di quaresima e attirava gente da tutte le parti; del clero si denunciava lo scarso spirito di obbedienza e l’ignoranza, tanto che il biografo di san Carlo, Giussani, riferisce: «et molte altre miserie deplorande si vedevano pubblicamente nello stato clericale, che lo rendevano vilissimo e quasi abominevole appresso i laici; onde n’era venuto questo comune proverbio: Se vuoi andare all’inferno fatti prete».In realtà, all’arrivo di san Carlo luci e ombre si mescolavano: era normale la prima comunione a dieci anni ed era raccomandata quella settimanale.
Partecipate le devozioni popolari, in particolare le Quarantore, che già la prima volta videro presenti all’ultima predica (18 aprile 1527) 40.000 persone.
Lo stesso accadeva per il Corpus Domini (prime notizie nel 1318 a Chiaravalle), tanto che nel 1626 il cardinale Federico Borromeo richiamò a una maggiore sobrietà.
Ai già numerosi ordini religiosi presenti si aggiunsero i cappuccini, gli olivetani, i minimi, i somaschi, gli oratoriani, i barnabiti (il vicario generale di san Carlo, padre Ormaneto, era un barnabita), i teatini, i gesuiti, dei quali san Carlo era cardinale protettore.
San Carlo attuò un governo fortemente centralizzato, convocando sei sinodi provinciali e undici sinodi diocesani.
Ne scaturì una radicale riforma amministrativa con la divisione della diocesi in dodici circoscrizioni, sei per la città (le Porte) e sei per il forese (le Regioni), ove si raggruppavano le settantacinque pievi.
I sinodi richiamarono costantemente all’obbligo della residenza, al decoro del portamento e dell’abito (san Carlo per primo rinunciò a baffi e barba), a una dignitosa conservazione delle suppellettili sacre, alla pulizia delle chiese e degli altari, a evitare l’esosità nei cosiddetti «diritti di stola», a curare la celebrazione della messa e dei sacramenti.
Le resistenze del clero non si limitarono ai mugugni: l’attentato a san Carlo la sera del 26 ottobre 1569 da parte di un membro della congregazione degli umiliati esprimeva anche l’esasperazione per l’ansia riformatrice dell’arcivescovo.
Il seminario fu un’occasione privilegiata di riforma.
San Carlo fu tra i primi ad istituirlo (10 dicembre 1564), affidandone la direzione ai gesuiti, sostituiti ben presto dagli oblati, a causa delle rimostranze del clero diocesano, che non accettò di vedere formare i suoi sacerdoti da chi non conosceva la tradizione ambrosiana.
San Carlo ebbe particolarmente a cuore le istituzioni culturali.
Dobbiamo a lui il Collegio di Brera, il Collegio dei nobili, il Collegio elvetico, il Collegio della Guastalla, per l’educazione delle ragazze.
Forse, però, la più importante realtà educativa di san Carlo sono le Scuole della dottrina cristiana: «Non so vedere – disse – qual altra cosa abbia fatto tanto frutto in questa mia diocesi, quanto questa».
San Carlo ne coordinò l’azione e precisò i contenuti formativi, custodendone l’originaria caratteristica laicale: laici furono sempre i collaboratori sia nel ramo maschile che in quello femminile.
Le Scuole della dottrina cristiana furono anche il luogo d’esercizio della particolare figura di sacerdoti, che san Carlo fondò (1578): gli oblati (oggi: oblati dei santi Ambrogio e Carlo) liberi da ogni attaccamento mondano; dediti solo al servizio delle anime nella collaborazione fraterna con i confratelli e con il vescovo, cui facevano formale voto di obbedienza.
Ciò li rese sempre disponibili a incarichi di frontiera, dalla formazione dei futuri preti nei seminari a quella dei ragazzi nelle Scuole della dottrina cristiana all’animazione spirituale delle confraternite.
Quando, poi, si affermarono le missioni al popolo e gli esercizi spirituali, soprattutto per il clero, parve naturale che alcuni oblati si dedicassero totalmente a questi compiti e nel 1721 il cardinale Benedetto Erba Odescalchi (1712-1737; 1740) fondò la Famiglia degli oblati missionari di Rho, che ancora oggi vive e serve la Chiesa ambrosiana.
Nel XIX sec., quando il governo ostacolava l’assegnazione delle parrocchie, Luigi Nazari di Calabiana (1867-1893) fondò gli oblati vicari (1875), che avrebbero provveduto alla vita delle comunità, pronti a lasciarle appena il governo approvava la nomina del pastore legittimo.
Dell’importanza dell’opera di riforma di san Carlo sono testimonianza le cifre, contenute negli Acta Ecclesiae Mediolanensis, relative agli ultimi anni della sua vita: la diocesi contava 560.000 abitanti, raccolti in 46 collegiate, 753 parrocchie, 1421 chiese sussidiarie, 926 cappellanie; 3352 sacerdoti secolari, 2114 religiosi, 3400 religiose; 740 Scuole della dottrina cristiana, con 40.098 alunni; 886 confraternite, tra cui 556 del Santissimo Sacramento, 133 dei disciplinati e 130 dedicate alla Madonna.
In diocesi si contavano, inoltre, 24 associazioni benefiche, che sostentavano circa 100.000 poveri; 32 istituzioni per ogni genere di bisognosi: dalle ragazze pericolanti alle donne perdute, dagli orfani agli anziani, dai malati ai mendicanti, dai pellegrini ai poveri.
V - Da san Carlo alla Rivoluzione francese
I successori di san Carlo, inevitabilmente, si misero «alla sua ombra», tanto più dopo la sua canonizzazione (1610).Sia l’immediato successore, Gaspare Visconti (1584-1594), sia Federico Borromeo (1595-1631), cugino del santo, mantennero viva l’esperienza sinodale: il primo celebrò sei sinodi, il secondo quattordici.
Federico, inoltre, precisò le riforme del cugino, rimaste ancora sperimentali.
Dettò per il seminario regole che rimasero valide sino al XX sec.; stabilì gli statuti delle Scuole della dottrina cristiana e favorì tutto lo sviluppo artistico e culturale della diocesi.
A lui si deve la prestigiosa biblioteca Ambrosiana, cui destinò uno speciale collegio di dottori, sacerdoti dediti alla ricerca scientifica.
Dopo Federico le figure episcopali si fanno più tenui, anche per il controllo sulla loro elezione, esercitato dai sovrani.
Sono vescovi che sembrano voler salvare lo statu quo, lasciando una larga autonomia al clero e ai religiosi, limitandosi quasi a evitare gli eccessi, soprattutto verso le istituzioni di carità o i conventi femminili.
Stretti tra i potenti, gli arcivescovi prediligono la visita pastorale, per accostare personalmente le popolazioni, e forme di governo più agili, come i sinodi minori, abbandonando progressivamente i sinodi diocesani: Cesare Monti (1632-1650) ne convocò tre, Alfonso Litta (1652-1679) due e Federico Visconti (1681-1693) nel 1687 tenne l’ultimo, prima di quello del cardinale Ferrari (1902).
Non ci furono molte novità pastorali e la Chiesa apparve quasi la responsabile della cultura e dell’arte, rispettata (e controllata) dai sovrani, onorata dal papa con il cardinalato, concesso a quasi tutti gli arcivescovi dal 1484, con quattro eccezioni: Filippo Visconti (1783-1801), travolto dal giuseppinismo e dalla Rivoluzione francese, e i tre arcivescovi del Risorgimento italiano: Bartolomeo Carlo Romilli (1847- 1859), Paolo Angelo Ballerini (1859-1867), Luigi Nazari di Calabiana (1867-1893).
Tra i vescovi del XVIII . spicca Giuseppe Pozzobonelli (1743-1783), patrizio milanese: cercò di essere vicino al popolo, stremato dalla fame e dalle guerre tra Austria e Spagna per il controllo del Milanese; si preoccupò di mantenere alta la formazione del clero e del popolo, rinnovando il catechismo.
Un elogio del clero fu fatto da Kaunitz, cancelliere di Giuseppe II, che a proposito dei parroci di Milano, nel 1786 scrisse: «(Sono) rispettabili per la loro condotta, hanno la riputazione di prestare con particolare bontà e sollecitudine la loro assistenza agli ammalati […] Sono mediatori nelle frequenti discordie dei cittadini; impediscono le risse, prevengono alterchi e liti con la loro autorità, vigilando, per quanto possono, alla condotta morale dei loro parrocchiani».
Vennero, però, le riforme di Maria Teresa e di Giuseppe II.
L’Inquisizione fu soppressa e l’indice dei libri proibiti fu affidato a un ufficio centrale con sede a Vienna.
Furono costituite pie fondazioni, per il controllo dell’assistenza e della beneficenza.
Abolite le immunità giuridiche e amministrative del clero, fu costituita una giunta economale, la sola autorizzata a emettere i necessari placet ed exequatur.
Il clero fu sottoposto al pagamento delle tasse, dovendo anch’esso «concorrere al pagamento delle pubbliche spese in modo, forma e qualità uguali a quelle dei laici».
Giuseppe II ridusse drasticamente il numero delle parrocchie, che sarebbero state assegnate attraverso concorsi fissati dal governo.
Eresse (1784) un nuovo seminario generale per la Lombardia a Pavia, presso l’università, il solo che avrebbe potuto conferire titoli accademici e l’abilitazione all’ordinazione sacerdotale da parte dei vescovi.
Questo seminario generale non sopravvisse a Giuseppe II, ma lasciò non poche lacerazioni.
Lo stesso rigido controllo si ebbe sia nei confronti dei religiosi (i conventi passarono da 290 nel 1768 a 145 nel 1781) sia verso la pietà popolare: Giuseppe II ridusse le feste di precetto e cercò di abolire novene, ottave, tridui, pellegrinaggi.
L’inventiva dei milanesi non venne meno: si fecero novene a singhiozzo, sospese per un giorno ogni tre.
La Rivoluzione francese prostrò e umiliò la diocesi.
Alle province lombarde furono richiesti venti milioni di lire tornesi; confiscati tutti i beni dei conventi, compresi i rivestimenti in rame delle cupole e i materassi; saccheggiata la pinacoteca Ambrosiana: portati a Parigi le Madonne di Luini, di Rubens, di Bruegel, il cartone della Scuola di Atene di Raffaello, tredici volumi di disegni e scritture di Leonardo (uno solo fu restituito nel 1816).
Quando la popolazione cominciò a ribellarsi, Napoleone ne accusò il clero: il 30 giugno 1796 venne fucilato don Giuseppe PacciaPacciarini, parroco anziano del duomo, e Filippo Visconti (1783-1801) fu costretto a pubblicare una lettera pastorale sull’obbedienza, che irritò la popolazione, la quale, sentitasi tradita, uccise l’arciprete della sede metropolitana e costrinse l’arcivescovo a rifugiarsi a Gorla Minore.
La situazione pastorale si aggravò con l’estensione alla Repubblica cisalpina delle norme ecclesiastiche francesi: si stabilì che i parroci fossero eletti dai cittadini; si vietò la raccolta di offerte e la celebrazione di atti di culto fuori delle chiese.
Si ordinò che il viatico fosse portato in incognito; che fossero coperte con calce tutte le immagini sacre dipinte sui muri esterni delle case; che fosse scalpellato dalla facciata del duomo lo stemma di Pio VI e che fossero distrutte le insegne dei sepolcri dei cardinali milanesi.
Nel 1798 furono soppressi i capitoli del duomo e di tutte le collegiate; requisiti il seminario, i conventi e i monasteri.
La situazione peggiorò con Giovanni Battista Montecuccoli Caprara (1802-1810), una «creatura» di Napoleone, che accettò un’ulteriore riduzione delle parrocchie; ordinò di adottare il catechismo napoleonico; impose ai professori del seminario di prestare giuramento di fedeltà all’impero; soppresse le confraternite (tranne quelle del Santissimo Sacramento); proibì la predicazione agli oblati missionari di Rho e li soppresse (1810) insieme a tutti gli altri ordini religiosi non dediti alla cura degli infermi negli ospedali.
VI - Il XIX sec.
Dopo la morte del Caprara passarono otto anni prima della nomina di un nuovo arcivescovo: Gaetano Gaisruck (1818-1846), che realizzò un’intelligente autonomia nei confronti del governo austriaco in nome della tradizione ambrosiana o meglio carolina: con lui i vescovi spesso assumono il nome di Carlo, per sottolineare il legame a un preciso modello pastorale.Gaisruck rinnovò la formazione dei seminaristi sia concentrando gli alunni in tre grandi sedi, corrispondenti alle tappe formative, sia proponendo il programma di studi delle scuole di Stato e delle Facoltà teologiche austriache, sia puntando su sacerdoti di alto profilo culturale e spirituale.
Tra essi Nazaro Vitali (1806-1886), riformatore degli studi filosofici e ideatore delle scuole serali per i ragazzi poveri, e il beato Luigi Biraghi (1801-1879), insegnante, direttore spirituale e fondatore delle suore Marcelline, dedite alla formazione delle ragazze della borghesia.
Accanto a simili preti operarono laici di notevoli capacità, che si impegnarono nelle nuove forme di pastorale, soprattutto nel campo giovanile.
A uomini come il conte Giacomo Mellerio (1777-1847) dobbiamo non solo la prima Casa delle suore di Carità, le canossiane, a Milano, ma anche le sedi di alcuni prestigiosi oratori, quali il San Carlo e il San Luigi.
L’Ottocento, infatti, è anche il secolo della ripresa degli oratori, la tipica realtà educativa ambrosiana per i ragazzi e i giovani, affidati a laici, tra i quali spiccano l’illustre matematico Gabrio Piola (1794-1850) e Gabrio Casati (1798-1873), che fu podestà di Milano e ministro della Pubblica istruzione italiana.
Tra i religiosi Gaisruck favorì gli istituti di vita attiva, quali i fatebenefratelli e i barnabiti, mentre osteggiò la ricostituzione degli oblati e il ritorno dei gesuiti, dei francescani e dei cappuccini.
Appoggiò con simpatia la diffusione in diocesi delle nuove fondazioni: le canossiane o Serve dei poveri (1823), le orsoline di San Carlo (1824), le marcelline (1838), le suore di Maria Bambina o suore di Carità (1842) e l’istituto del Buon Pastore (1845).
Alla morte di Gaisruck seguì un lungo periodo d’incertezza, legato alle vicende risorgimentali italiane.
Le Cinque giornate di Milano (18-22 marzo 1848) videro anche la partecipazione dei seminaristi (la loro barricata fu tra le più resistenti), cosa che fu pagata cara: Radetzky impose a Bartolomeo Carlo Romilli (1847-1859) di ricostituire gli oblati diocesani (1853) e di affidare loro, legati al voto d’obbedienza, la conduzione del seminario, che fu epurato dai professori «liberali».
A Romilli, in ogni caso, dobbiamo la fondazione, sollecitata da Pio IX, del primo istituto sacerdotale ambrosiano per le missioni ad gentes: nel 1850 fondò il Seminario lombardo per le missioni estere (oggi Pime, Pontificio istituto missioni estere), che ha dato alla diocesi il suo primo sacerdote beato dopo san Carlo, il martire Giovanni Battista Mazzucconi (1826-1855).
Alla morte di Romilli il nuovo arcivescovo, Paolo Angelo Ballerini (1859-1867), non fu accettato dal nuovo governo italiano e per otto anni la diocesi rimase nelle mani di un vicario, Carlo Caccia Dominioni, ritenuto dal governo un vicario capitolare, essendo la sede vacante, mentre Ballerini lo qualificava come suo vicario generale, essendo per lui la sede impedita.
La situazione pastorale si fece drammatica: Ballerini viveva dimessamente a Seregno, Caccia Dominioni nel seminario di Monza, e il blocco delle nomine dei parroci portò ad avere 150 parrocchie vacanti su 775.
La situazione mutò nel 1867 con la promozione di Ballerini a patriarca di Alessandria d’Egitto e la nomina di un uomo mite, Luigi Nazari di Calabiana (1867-1893), che svolse una paziente opera di pacificazione, coltivando il dialogo con tutti, secondo il suo motto episcopale, in italiano: «Ognun mi sente».
Ribadì la tradizionale fedeltà ambrosiana al papa – parafrasando sant’Ambrogio: «Ubi Petrus, ibi Ecclesia Mediolanensis» – e aderì solennemente al dogma dell’infallibilità (8 settembre 1870), che pure non aveva votato, per rispetto dei docenti del Seminario, che sostenevano la «non opportunità in quelle circostanze» della definizione dogmatica.
Smussò i contrasti con le autorità civili, nonostante le numerose provocazioni anticlericali, preferendo dedicarsi alla concordia del clero, nel quale erano presenti diverse tendenze: una più conciliatorista o liberale o rosminiana, e una più intransigente, di cui era voce il quotidiano «L’Osservatore Cattolico» (1864).
Diviso, forse, idealmente, il clero ambrosiano era unito pastoralmente sia nella cura dei giovani attraverso gli oratori, sempre più numerosi, sia nell’azione di carità.
Molte opere ancora grandiose si devono all’azione dei preti.
Ricordiamo Luigi Vitali (1836- 1919), fondatore dell’Istituto per i ciechi; il servo di Dio Domenico Pogliani (1838- 1921), fondatore dell’ospizio Sacra Famiglia per gli incurabili di Cesano Boscone; Carlo San Martino (1844-1919), fondatore dell’Istituto per la fanciullezza abbandonata (o Figli della Provvidenza); il servo di Dio Carlo Salerio (1827-1870), fondatore delle Pie signore riparatrici (o suore della Riparazione), per il recupero umano e spirituale e il reinserimento sociale delle ragazze «pericolanti» o «traviate».
La stessa vivacità si ebbe tra i religiosi con nuovi ordini tipicamente ambrosiani, oggi diffusi in tutto il mondo.
Accanto alle già citate marcelline (1838), ricordiamo i Figli dell’Immacolata Concezione (1857), le suore del Preziosissimo Sangue o preziosine (1876); la famiglia del Sacro Cuore di Gesù (1880), le suore misericordine (1891).
Questa vivacità ecclesiale era quanto mai necessaria, e anche sollecitata dalle circostanze.
Basterebbe ricordare che a Milano nacque il primo Partito operaio (1882) e di qui partì il primo deputato socialista eletto al Parlamento, Andrea Costa, e qui si organizzò la Camera del lavoro (1890).
VII - Il XX sec.: un secolo di giganti
Il XX . ha certamente determinato un volto tipico della Chiesa ambrosiana.Glielo hanno dato i grandi vescovi, che lo hanno caratterizzato e ne fanno uno dei secoli più luminosi.
Non a caso, in un solo secolo si contano due arcivescovi beati (Andrea Carlo Ferrari [1893-1921] e Alfredo Ildefonso Schuster [1929-1954]), e due arcivescovi divenuti papi (Achille Ratti, vescovo per sei mesi [1921-1922], poi Pio XI, e il servo di Dio Giovanni Battista Montini [1955-1963], poi Paolo VI), che portano a cinque gli arcivescovi di Milano saliti al Papato romano.
Uomini di grande levatura culturale e spirituale hanno allargato gli orizzonti della diocesi alla dimensione europea e mondiale.
Uomini di profonda spiritualità hanno creato una profonda esigenza di spiritualità sia nel clero che nei laici.
Ne è segno l’esplosione di cause di beatificazione e di canonizzazione che si è avuta in particolare a partire dagli anni Ottanta del XX sec.: sacerdoti (Luigi Talamoni, Luigi Biraghi, Luigi Monza, Carlo Gnocchi, Carlo Sonzini, Mario Ciceri, Carlo Salerio, Clemente Vismara), religiosi (Anna Maria Sala, Riccardo Pampuri, Luigi Monti, Benigno Calvi, Enrichetta Alfieri, Cecilio Cortinovis, Arsenio da Trigolo, Matilde Bucchi, Laura Baraggia), laici (Gianna Beretta Molla, Giuseppe Lazzati, Marcello Candia, Adele Bonolis, Attilio Giordani).
Quando il beato cardinale Andrea Carlo Ferrari giunse a Milano (1894-1921), la diocesi contava 1.592.756 abitanti, di cui 406.000 in città; alla sua morte la popolazione della diocesi era salita a 2.326.102 e quella di Milano era arrivata a 718.800, per passare alla morte di Schuster (1954) a 3.130.679 (diocesi) e 1.285.268 (città) e diventare 5.124.906 in diocesi e 1.693.351 in Milano, quando nel 1980 arrivò il cardinale Carlo Maria Martini (1980-2002).
I problemi pastorali connessi a un tale vertiginoso aumento della popolazione sono facilmente immaginabili: dalle 703 parrocchie del tempo di Ferrari si passò alle 896 all’arrivo di Montini (1955), per arrivare alle 1112 alla venuta di Martini (1980).
Problemi di strutture e di persone: Ferrari, quando arrivò, poté contare sulla collaborazione di 2053 preti, che divennero 2222 alla morte di Schuster, ma rimasero 2292 alla venuta di Martini, che trovò, però, due milioni di fedeli in più.
Un problema, quello del clero, consegnato al cardinale Dionigi Tettamanzi: i seminaristi erano 820 nel 1929 (venuta di Schuster), divennero 949 (ingresso di Montini), salirono a 1517 nell’anno scolastico 1965-1966, per calare a 666 (1980, arrivo di Martini) e precipitare a 128 nel 2004-2005.
Per quanto riguarda le religiose (per i religiosi le statistiche sono difficili) si è passati da più di 13.000 al tempo di Schuster a poco più di 8000 all’arrivo di Tettamanzi.
Con questo manipolo i vescovi del XX . dovettero affrontare vicende titaniche.
Pensiamo alle due guerre mondiali e all’azione coraggiosa di Schuster, che trattò la resa di Mussolini e fu acclamato «salvatore della città» per la sua opera di difesa e di soccorso della popolazione affamata.
Pensiamo al totalitarismo fascista, cui dovette opporsi Eugenio Tosi (1922- 1929), «l’arcivescovo della bontà», che fece il suo ingresso il 23 luglio 1922, tre mesi prima della marcia su Roma (28 ottobre), e morì il 7 gennaio 1929, un mese prima della firma dei patti Lateranensi (11 febbraio), lasciando i momenti di duro scontro tra Chiesa e fascismo al beato Schuster.
A questi toccò gestire il faticoso dopoguerra, accompagnare la rinascita della Lombardia e contrastare il nuovo totalitarismo che si affacciava, quello comunista: non a caso Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, era chiamata la «Stalingrado d’Italia».
Non si era ancora usciti dall’entusiasmo del boom economico e del concilio Vaticano II, quando la bomba di piazza Fontana (12 dicembre 1969) iniziò il tempo sanguinoso del terrorismo: dal 1969 al 1982 si ebbero in Italia 2712 attentati con 760 feriti e 352 morti e proprio mentre arrivava l’arcivescovo Martini venivano assassinati a Milano tre agenti di polizia.
Fu il tempo della contestazione, iniziata nel 1968 proprio nell’Università cattolica di Milano, che trasformò la società italiana, con la legittimazione del divorzio (1970) e dell’aborto (1978) e i loro referendum confermativi (divorzio: 1974, aborto: 1981), caratterizzati da una singolare campagna di menzogne e di aggressione alla vita ecclesiale: il cardinale Giovanni Colombo (1963-1979) fu più volte contestato o assediato in duomo dalle femministe e dai radicali.
Da ultimo, il fenomeno dilagante dell’immigrazione extracomunitaria, che va modificando radicalmente il modo di pensare e di vivere della società lombarda e chiede alla comunità cristiana il coraggio di pensarsi in un contesto multiculturale, razziale, religioso, quasi fosse chiamata a ripartire dai tempi di sant’Ambrogio.
In tutti i vescovi del XX . pare abbia agito una duplice strategia pastorale: custodire le tradizioni ambrosiane e insieme spingere a rispondere alle nuove domande della società.
Individuiamo quattro punti nodali.
Tutti, in primo luogo, hanno puntato sulla formazione, soprattutto dei giovani, ma ormai non più solo loro.
Da Ferrari, che ripeteva «catechismo, catechismo» a Schuster, che insisteva sul primato dell’oratorio, a Colombo, che ne ribadì l’insostituibilità, a Martini che, con la Scuola della Parola, rinnovò dal fondo la formazione giovanile, e con la Cattedra dei non credenti rilanciò il dialogo con la società avviato da Ferrari e Tosi con l’Università cattolica (1921-22), ripreso da Schuster con l’Ambrosianeum e il Didascaleion (1948), da Montini con l’Istituto superiore di scienze religiose (1962) e da Colombo con la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale (1968) e l’università della Terza età (1973), senza dimenticare la cura dei mass-media: «L’Italia» fu il glorioso antesignano dell’«Avvenire».
Comune fu anche la promozione dell’apostolato laicale, in linea con la tradizione ambrosiana: sostegno tenace all’Azione cattolica, anche nei momenti drammatici del fascismo, quando Schuster la difese «come un leone ruggente»; promozione delle Acli; libertà di azione lasciata ai movimenti (Comunione e Liberazione nacque per opera di un prete milanese, Luigi Giussani); promozione degli istituti secolari, dei quali Schuster intuì subito l’importanza, e delle nuove forme di consacrazione, come le ausiliarie diocesane, incoraggiate da Montini, o l’ordo virginum del tempo di Carlo M.
Martini.
In terzo luogo, fu custodito il primato della carità, in tutte le forme possibili: dalla costituzione (sotto Ferrari) dei cappellani del lavoro e dei migranti, all’ufficio informazioni con l’invio di pacchi dono ai feriti e prigionieri durante le due guerre mondiali, all’Oscar (Organizzazione di soccorso cattolico agli antifascisti ricercati), nata nel collegio San Carlo di Milano, al sostegno dato da Schuster alle Conferenze di San Vincenzo e alla Caritas, per arrivare ai convegni diocesani di Martini (Farsi prossimo, 1986).
Un’azione di carità, che i vescovi non si sono limitati a promuovere, ma hanno sostenuto attraverso l’appoggio a molti istituti, nati dall’intraprendenza tipica del clero.
Si pensi al Piccolo Cottolengo di san Luigi Orione, a La Nostra Famiglia del beato don Luigi Monza, alla Pro Juventute del venerabile don Carlo Gnocchi, all’Istituto Sacra Famiglia di don Luigi Moneta, alle Ancelle di San Giuseppe di don Carlo Sonzini, al Coe (Centro orientamento educativo) di don Francesco Pedretti.
Si pensi alle mille mense per i poveri, a partire dall’opera San Francesco, fondata nel 1959 dal servo di Dio fra Cecilio Cortinovis, sino alla Casa della Carità (2002), lasciata quasi come testamento da Martini, perché fosse segno della «felice collaborazione tra comunità cristiana e comune».
Un impegno che continua: Tettamanzi vi ha dedicato tutto l’anno pastorale 2005-2006.
In quarto luogo i vescovi del XX . hanno curato la formazione culturale e spirituale del clero, proponendo instancabilmente la santità come stile abituale.
Una santità, quella di Ferrari, caratterizzata da profondo anelito missionario, tanto che volle in Seminario corsi di morale speciale (economica), tenuti da Giuseppe Toniolo e Dalmazio Minoretti.
Una santità «pastorale », come ripeteva Schuster: «La santità sacerdotale: ecco la prima condizione indispensabile », che avesse come paradigma «il cuore stesso di Cristo» (Montini) e realizzasse l’insegnamento di Presbyterorum ordinis (Colombo), caratterizzandosi per uno stile fraterno, che richiamasse l’icona della comunità primitiva (Martini).
Una santità proposta con esigenza nel seminario, che nel 1929, per volontà di Pio XI, fu trasferito lontano dalla città, perché ci si preparasse con «scienza e pietà» al ministero.
Il clero, poi, sarebbe stato sollecitato a un continuo aggiornamento, con l’istituzione del vicariato per la formazione permanente.
Una santità, infine, dalla dimensione missionaria: nel 1961 Montini inviò i primi preti fidei donum a Kariba (Africa).
Comune la meta, personale lo stile.
Ferrari e Schuster presero a modello san Carlo (Ferrari ne assunse anche il nome) con le frequenti visite pastorali (Ferrari ne fece quattro, Schuster cinque), concluse con altrettanti sinodi diocesani (Ferrari ne fece tre più un sinodo provinciale, Schuster ne tenne cinque).
Tosi privilegiò il rapporto diretto e bonario con la gente, difendendo con intelligenza duttile la libertà della Chiesa contro le tentazioni egemoniche del fascismo.
Montini cercò il dialogo con metodi e contenuti nuovi per i tempi e indisse la Missione di Milano (1957), con la quale cercò di raggiungere tutte le categorie (comprese le ballerine e le indossatrici), proponendo non più i classici Novissimi, ma Dio come «Padre».
A Giovanni Colombo toccò applicare il Vaticano II e per questo convocò il XLVI sinodo, che nella sua durata (1966-1972) testimonia il travaglio dell’epoca.
Ne scaturì la decisione di custodire e rinnovare la tradizione: da una parte furono difese l’unità della pur vasta diocesi e la permanenza del rito ambrosiano; dall’altra parte la diocesi fu riorganizzata in zone pastorali e decanati e furono costituiti il consiglio presbiterale diocesano (1969) e il consiglio pastorale diocesano (1973).
Martini pose al centro della spiritualità diocesana l’ascolto della Parola, l’eucaristia, la carità, consolidando la realtà comunionale, come testimonia il XLVII sinodo, per il quale tutte le realtà ecclesiali sono state coinvolte sia nella preparazione che nello svolgimento (663 presenti).
Dal 2002 tutto questo è sulle spalle del cardinale Dionigi Tettamanzi.
Bibliografia
Storia di Milano, Milano 1953-1966, 17 voll. cui sono stati aggiunti tre volumi sulla nostra epoca;Memorie Storiche della Diocesi di Milano, 16 voll., Milano 1954-1969;
Dizionario della Chiesa Ambrosiana, 6 voll., Milano 1987-1994;
Archidiocesi e diocesi, VI, Basilea- Francoforte sul Meno 1989, che presenta le vicende del Canton Ticino, una parte del quale appartenne alla diocesi di Milano sino al 1884;
Diocesi di Milano, a c. di A. Caprioli-A. Rimoldi-L. Vaccaro, 2 voll., Brescia 1990;
Dizionario dei Santi della Chiesa di Milano, a c. di C. Pasini, Milano 1995;
E. Cazzani, Vescovi e Arcivescovi di Milano, Milano 1996;
A. Majo, Storia della Chiesa ambrosiana, Milano 1996;
Dizionario di Liturgia ambrosiana, a c. di M. Navoni, Milano 1996;
Dizionario della stampa cattolica ambrosiana, a c. di G. de Antonellis, Milano 1998;
Archivio Ambrosiano – Ricerche Storiche sulla Chiesa Ambrosiana, collana di studi sempre interessanti.
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Diocesi di Milano
Chiesa di Santa Maria Nascente
Diocesi
FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.