Diocesi di Cagliari
STORIA
I - Dalle origini alla fine del Medioevo
La prima notizia di una sede vescovile a Carales, centro principale della Sardegna romana, risale al 314, quando il suo vescovo Quintasio partecipò al concilio di Arles: convocato per dibattere della questione donatista che travagliava la Chiesa d’Africa, forse perché in particolari rapporti con quest’ultima.Cagliari appartiene comunque al numero di quelle città portuali sarde dove, a partire dalla seconda metà del III sec., sembra si siano andate organizzando le prime comunità cristiane.
Ai tempi del concilio di Serdica (343) risale invece la prima attestazione della sua dipendenza dalla metropolia romana.
Al riguardo sono noti gli intensi rapporti intercorsi tra Lucifero e papa Liberio: questi se ne servì come suo legato sia presso l’imperatore Costanzo II (353), sia al concilio di Milano (355), dove egli fu tra i pochi che osarono opporsi alla politica filoariana dell’imperatore, subendo per questo l’esilio, ma non cessando di portare avanti la sua battaglia, stavolta attraverso una serie di scritti dal latino «da contadino », ma pieni di passione; dove tra l’altro attesta di essergli stato sempre leale e gli contesta di averlo sostituito nella sua Chiesa con un vescovo filoariano.
Cessato l’esilio (362), si recò ad Antiochia aggravandone il locale scisma.
Ritiratosi in Sardegna, vi morì attorno al 370.
Non pochi scrittori ecclesiastici lo accusano di una più pesante responsabilità nel cosiddetto «scisma luciferiano», il che è tutt’altro che provato, mentre è forse maggiormente ipotizzabile che una sua tutta personale posizione di intransigenza l’abbia portato a isolarsi nella sua Chiesa.
Un secondo Lucifero ricorre nel 484 quando assieme ad altri vescovi sardi, di cui era già molto probabilmente il metropolita, dovette partecipare al dibattito teologico svoltosi a Cartagine per volere del re vandalo Unnerico, sotto cui stava la Sardegna.
Gli intensi rapporti con l’Africa furono ulteriormente rafforzati dall’arrivo in esilio a Cagliari, all’inizio del VI sec., di numerosi ecclesiastici fra cui parecchi vescovi.
Fra questi ultimi Fulgenzio di Ruspe che, con la sua intensa e multiforme attività culturale-pastorale, fu di grande beneficio anche alla Chiesa locale: irraggiandovi, oltre a una cultura teologica di forte impronta agostiniana, anche l’ideale monastico, fondandovi due cenobi: il secondo nel 518, appoggiato dal vescovo locale Primasio, fu eretto presso la basilica extraurbana del martire Saturno.
Con l’acquisizione della Sardegna alla ecumene bizantina (534), il metropolita di Cagliari, rimasta sede dell’amministrazione civile, fu verosimilmente coinvolto in essa: stando però all’epistolario di Gregorio Magno non sembra gli fossero riservate significative competenze, mentre sono documentate abituali e gravi interferenze dell’autorità politica nella vita della Chiesa.
In stretti rapporti epistolari con Gregorio fu il metropolita Gianuario: nelle ventuno lettere indirizzategli, la sua funzione gerarchica è chiaramente riconosciuta e, talvolta, anche sollecitata, ma sta di fatto che il trattamento a cui lo sottopose fu a dir poco assillante e, in qualche caso, anche particolarmente duro.
Un problema preoccupava il pontefice e di esso anche Gianuario fu ritenuto responsabile: il persistere del paganesimo nelle campagne e financo nei possedimenti della Chiesa.
In crescita invece, sebbene tumultuosa e disordinata, soprattutto il monachesimo femminile.
L’autorevole partecipazione di Diodato al sinodo romano del 649 dice della continuità dei legami con Roma.
Alla loro saldezza non nocquero né alcuni momenti di contrasto né gli intensi rapporti che, a partire dalla seconda metà del VII sec., si andarono sviluppando con il mondo bizantino.
Per i primi: Onorio I (tra 626- 629) convocò a Roma il metropolita e alcuni chierici per rispondervi di vari capi d’accusa; Martino I sospese invece Diodato dal diritto di consacrare il vescovo di Turris (sottraendolo di fatto alla sua giurisdizione).
In seguito fu Giovanni V (685- 686) a contestare questo diritto a Citonato.
Quando però la documentazione sui rapporti tra le due Chiese riprende più corposa e continua, come tra l’847 e l’873, il loro legame riappare in tutta la sua saldezza, come evidenziano l’ordine impartito da Leone IV all’episcopus Sardiniae Giovanni di edificare un nuovo altare al posto di quello a suo tempo consacrato dall’eretico arcivescovo Arsenio e i parimenti decisi interventi di Niccolò I (864) e Giovanni VIII (873).
Dei rapporti con il mondo bizantino, così intensi che si può parlare di un processo di «bizantinizzazione », limitatamente al culto, sono segni indicativi la partecipazione di Citonato al Costantinopolitano III (680-681) che condannò il monotelismo e quella indiretta di Tommaso al Niceno II (787) che, invece, autorizzò il culto delle immagini.
Al riguardo della questione monotelita ha una sua importanza la presenza a Cagliari, nella seconda metà del VII sec., di un monastero grecofono su posizioni antimonotelite.
Dell’ulteriore coinvolgimento della Chiesa di Cagliari nella questione iconoclasta, sembrano testimoniare non solo le vicende dei due arcivescovi dal nome greco di Arsenio, il primo forse iconoclasta, l’altro sicuramente iconodulo, ma anche l’abortito tentativo di infiltrazione operato, a questo riguardo, da alcuni monaci greci discepoli di Gregorio Asbestas, arcivescovo di Siracusa e amico di Fozio.
Nel frattempo l’isola, ormai ai margini dell’Impero bizantino e sempre più sola di fronte alle ricorrenti scorrerie saracene, iniziate ai primi dell’VIII sec., andò elaborando strutture autonome di governo.
In questa situazione il sito dell’antica Cagliari, ormai non più sicuro, fu abbandonato per riparare dietro la vicina cintura degli stagni di Santa Igia (o Gilla).
La fine del dominio bizantino portò all’intensificarsi dei rapporti con la cristianità latina, specie con le repubbliche di Pisa e Genova, ma a giovarsene furono anche le relazioni con la Santa Sede.
Fu proprio un suo intervento, probabilmente sotto Alessandro II (1061-1073), a operare la nuova ripartizione diocesana: le sedi metropolitane furono portate a tre, mentre quella di Cagliari si riduceva entro i confini dell’omonimo giudicato.
Con Gregorio VII, che volle personalmente consacrare il nuovo arcivescovo Giacomo, questi rapporti, tesi a far trionfare la riforma della Chiesa, sì da coinvolgervi anche l’autorità giudicale (1080), conobbero una svolta decisiva.
La stessa richiesta dei monaci di San Vittore di Marsiglia obbediva a questo fine.
La loro presenza, positiva per il rinnovamento della Chiesa, si configurò però in forme di vero e proprio monopolio, e s’accrebbe così largamente da dare occasione a numerosi conflitti con il clero locale: l’arcivescovo Guglielmo, già a pochi decenni dal loro arrivo (1118) ebbe a lamentarsene con Gelasio II.
Tra le donazioni loro fatte: la stessa basilica di San Saturno (1089), da cui il loro priorato prese nome e che essi ristrutturarono in forme romanico-provenzali.
A essere fatta oggetto di numerose donazioni fu anche la Chiesa locale.
La sua notevole ricchezza la espose però alle ingerenze del potere politico.
L’operato dei papi: da Urbano II, che motivato da chiari intenti di riforma insignì il presule di Pisa dell’ufficio di suo legato in Sardegna (1099), ad Alessandro II e Alessandro III (1178), che gli concessero altri privilegi, finì di fatto per favorire la sempre più invasiva politica di Pisa, benché gli opposti interessi di Genova siano valsi a limitare comunque l’azione dei legati e il loro ruolo di primazia sulla provincia di Cagliari.
Furono proprio gli ambiziosi progetti politici di Pisa a portare al ribaltamento della politica perseguita dalla Santa Sede fin dai tempi di Gregorio VII.
In questo senso vanno letti gli interventi di Innocenzo III e di Onorio III, volti a ridimensionare ruolo e poteri dei presuli pisani nell’isola.
L’occupazione pisana del giudicato nel 1257, con la distruzione di Santa Igia (= Santa Cecilia, titolare della chiesa cattedrale), portò il trasferimento della sede episcopale nel pisano Kastrum Karalis, a Santa Maria di Castello.
Il rapporto con Pisa fu benefico sotto molti aspetti, compreso quello culturale-religioso: dall’interscambio di culti e devozioni (reliquie di sant’Efisio e compagni martiri a Pisa), all’introduzione dei nuovi ordini mendicanti.
I frati minori, presenti a Cagliari già prima del 1230, presero in quell’anno ufficialmente possesso di Santa Maria de Portu Gruttis, per poi passare nel 1275 a San Francesco di Stampace; mentre i domenicani, presenti già dal 1254, vi si stabilizzarono dal 1284.
I loro complessi conventuali vi operarono non solo come centri di vita religiosa ma anche di notevole attività artistica.
La conquista aragonese, pur ponendo fine a ogni interferenza pisana nella vita della Chiesa cagliaritana, l’apriva però agli influssi provenienti dalle terre del nuovo signore, tanto più che i nuovi dominatori cercarono di ostacolare le relazioni con l’Italia non spagnola.
Nel 1326 il Kastrum Karalis, sgombrato da pisani e sardi, diventa il Castell de Caller.
Si ebbe un processo di «catalanizzazione» che coinvolse anche i titolari della sede cagliaritana, in gran parte originari delle terre di Aragona, mentre ebbe meno fortuna, se si eccettuano i mercedari, arrivati nel 1336, con gli ordini mendicanti.
Al primo parlamento sardo, convocato a Cagliari nel 1355, partecipò, tra i membri del ramo ecclesiastico, anche il presule cagliaritano.
A creare problemi, più che l’estensione del sistema centralistico e fiscale pontificio, fu l’ordinamento feudale messo in atto dopo la conquista: si abbatté come scure su i Vittorini già in decadenza sì da portare alla fine della loro presenza, ma ebbe a interessare anche la Chiesa locale riducendone i beni.
Altri problemi alla vita della Chiesa provennero dalla situazione di guerra endemica con il giudicato di Arborea e soprattutto dalle successive ondate di peste e carestia col conseguente calo demografico: ne furono colpite l’organizzazione ecclesiastica, la cura animarum e la stessa pratica religiosa.
Lo scisma d’Occidente vide la sede di Cagliari, come del resto gli altri episcopati della corona d’Aragona, seguire l’obbedienza avignonese.
Nel 1420 il suo territorio crebbe sensibilmente con l’incorporazione della impoverita e decaduta diocesi di Suelli.
Nello stesso anno arrivarono a Cagliari gli agostiniani, cui si aggiunsero nel 1479 i minori osservanti.
II - L’età moderna e contemporanea
Tra il 1496 e il 1514 alla diocesi di Cagliari furono unite le diocesi di Galtellì, Dolia e Iglesias (120 parrocchie, più di un terzo del totale, e oltre due quinti dell’intera superficie dell’isola).Intanto stava crescendo il ruolo politico della città – sede del governo viceregio e dei suoi organi – dove si celebrava di solito il parlamento, la cui convocazione era ripresa con cadenza quasi decennale; vi intervenivano i rappresentanti delle componenti costituzionali del regno (gli stati o «stamenti» di clero, nobiltà e città regie), per discuterne col viceré i problemi più urgenti e presentare al sovrano le opportune «petizioni» al fine di porvi rimedio; con la parte regia si contrattava l’ammontare del «donativo», l’equivalente dell’imposta diretta dovuta al fisco, e la sua ripartizione tra le tre componenti; nel parlamento, l’arcivescovo di Cagliari era anche «prima voce» dello stamento ecclesiastico.
Se la ridistribuzione territoriale delle diocesi sarde voluta da Ferdinando il Cattolico (1503) aveva reso quella di Cagliari impossibile da visitare tutti gli anni secondo i decreti tridentini (la malaria, infatti, ne rendeva pericoloso l’attraversamento tra fine maggio e fine novembre mentre, causa l’inesistente viabilità, essa era intransitabile durante l’inverno: non restavano al vescovo che i mesi della primavera, durante i quali però importanti incombenze liturgiche lo attendevano nel centro della diocesi), essa ne aveva risolto alla grande i problemi economici: le sue entrate annue, che agli inizi del XVI . ammontavano a 550 ducati, raggiunsero i 1500 nel 1560, i circa 4000 nel 1592 e forse i 14.000 verso il 1625, con forti irregolarità nei decenni seguenti.
Un successo non raggiunto in nessun’altra sede, basato soprattutto sulla riscossione meticolosa delle decime sacramentali, di per sé destinate al mantenimento del clero addetto all’amministrazione diretta dei sacramenti, ma che – dopo l’alienazione degli imponenti patrimoni fondiari della mensa episcopale da parte del feudalesimo catalano-aragonese – il presule aveva confiscato in circa quaranta parrocchie dell’arcidiocesi, per garantire l’essenziale delle sue rendite; con ciò stesso, però, lo stesso presule era obbligato a inviarvi un sostituto che vi amministrasse i sacramenti, un onere di cui egli era solito sdebitarsi incaricandone uno che svolgesse comunque quel compito, purché si contentasse di un quinto della rendita decimale: erano i vicarii ad nutum, amovibili cioè «al semplice cenno» del titolare del beneficio, detti anche curas perché erano i manovali della cura animarum, di solito privi sia di preparazione culturale sia di motivazioni morali adeguate a quel compito.
Se, tra fine Cinquecento e prima metà Seicento, questi ultimi due aspetti conobbero importanti miglioramenti in seguito alla crescita dell’istruzione del clero (nel 1616, circa il 50 per cento dei 700 studenti del collegio gesuitico di Cagliari erano ecclesiastici) e all’imposizione delle riforme tridentine, rimase intatto il sistema dei vicarii ad nutum, benché in aperta violazione della – almeno a parole – suprema lex della Chiesa: il bene della anime; persino l’energico tentativo di Pio V (1568, Quantum animarum cura) per trasformarli in vicarii perpetui – e che pure trovò applicazione a Sassari, Alghero, Bosa e Ampurias e Civita – rimase lettera morta per la sorda resistenza dei maggiori interessati, che non erano i soli arcivescovi, ma comprendeva anche i loro canonici, essi pure foraggiati dalle rendite decimali di altre quaranta parrocchie, senza dire che una situazione analoga dominava anche nelle altre due diocesi del Meridione sardo: Oristano e Ales e Terralba; la situazione cambiò solo per merito del ministro sabaudo Bogino coadiuvato da Clemente XIV (1769, Inter multiplices): fu pertanto il potere laico che riuscì a imporre a quei tre vescovi – che però controllavano quasi 250 parrocchie delle circa 350 dell’isola – ciò che le congregazioni romane e i pontefici non erano riusciti a fare in duecento anni; né si trattava di quel solo traguardo: esso coincideva anche con il progressivo smantellamento dell’enorme arcidiocesi cagliaritana dalla quale, nel 1763, era stata staccata la diocesi di Iglesias, nel 1779 lo sarebbe stata quella di Galtellì-Nuoro e nel 1824 sarebbe stata la volta dell’antica diocesi di Suelli, con il titolo di Ogliastra; vent’anni prima, nel 1804, si era proceduto anche al parziale smantellamento di un’altra anomala creazione ferdinandea, la diocesi di Alghero, con il ripristino della diocesi di Bisarcio-Ozieri e l’inizio della disarticolazione di quella di Bosa.
L’arcivescovo di Cagliari, dunque, era il prelato più ricco e più potente dell’isola e tale restava anche se il sovrano poteva disporre tutti gli anni di un quarto della sua rendita nei primi decenni del XVII . e, in seguito, di un terzo e anche più, per elargire pensiones (sorta di appannaggi) a persone che avevano reso servigi alla corona: in tal modo, la puntuale riscossione della decima era diventata un vero «affare di Stato», nel senso che era garantita, ove necessario, dall’intervento del «braccio secolare ».
Era comprensibile che per quella carica ci fossero molti richiedenti presso il sovrano che, godendo del diritto di patronato, era l’unico che poteva presentare i futuri vescovi alla Santa Sede.
Il favore regio era indispensabile anche per un altro motivo: il forte rilievo politico di quella carica, al cui titolare venne talvolta concesso l’incarico di presidente del regno, una specie di interim della carica viceregia, la riservava ai soli sudditi iberici; in effetti, i due soli prelati sardi che ne furono insigniti erano persone che potevano competere alla pari con qualsiasi altro prelato iberico: il primo, l’algherese Ambrogio Machin (1627-1640), mercedario, l’ordine più aragonese che si potesse immaginare e nelle cui fila aveva raggiunto addirittura la carica di superiore generale; il secondo, il sassarese Pietro de Vico (1657-1676), figlio di Francesco Angelo, il primo magistrato sardo chiamato a ricoprire il posto di reggente per la Sardegna nel Supremo consiglio della corona d’Aragona.
A partire dagli ultimi decenni del XVI . e fino agli anni Sessanta del Novecento l’arcivescovo di Cagliari si era costantemente autoproclamato «primate di Sardegna e Corsica», con una pertinacia tale che persino la Santa Sede preferì non pronunciarsi su questo specifico argomento, anche perché vi era implicato il contenzioso con Sassari su quale dei due prelati avesse diritto a fregiarsi di quel titolo ampolloso quanto vuoto; fu soprattutto durante il XVII . che ciascuna delle due parti non esitò a fare carte false pur di prevalere sull’altra; l’ultima di queste a cadere (resistette però fino al 1960 e continua a essere utilizzata) fu la presunta lettera di Vittore III a Giacomo arcivescovo di Cagliari (Benevento, 29 agosto 1087), nella quale quest’ultimo veniva indicato, quasi sbadatamente, come «primas dictae [cioè della Sardegna] insulae».
La conseguenza più grave di questo insensato pundonor tra i due presuli – l’iniziativa era però partita da Cagliari – fu quella di avere impedito per secoli ai vescovi sardi di elaborare una pastorale comune per porre rimedio a problemi comuni: solo molto tardi (1876) finirono per riconoscerlo essi stessi.
Come si vede, il ruolo stesso di questo presule non aiutava chi ne era titolare a porsi il problema dell’inculturazione, così come se lo pose, quando giunse direttamente da Trento ad Ales e Terralba nei primi mesi del 1564, l’aragonese Pietro Frago, che non vedeva l’ora di mettere in pratica ciò che si era deciso nel concilio: nel giro di qualche anno egli imparò anche la parlata sarda della zona e di essa si servì col clero e col popolo, lui che in gioventù aveva studiato teologia a Parigi.
Ma Frago era una mosca bianca nel variegato panorama dei vescovi spagnoli inviati in Sardegna.
Loro modello fu piuttosto l’arcivescovo cagliaritano Antonio Parragues de Castillejo (1559-1573), grande signore, colto, amante dei libri (possedeva tra gli altri la monumentale Bibbia complutense) e degli strumenti astronomici, che parlava la lingua «del imperio y del mando», per dirla con Antonio de Nebrija: basta scorrere le sue poche lettere superstiti per percepire, sotto il loro stile terso, vivace e autoironico, il disprezzo per il luogo dove aveva avuto la malasorte di incappare, per le persone tra cui egli avrebbe dovuto vivere e l’ansia di uscirne al più presto...
Davvero c’è da rimpiangere che un episcopato, talvolta di grande spessore culturale, abbia rigorosamente limitato al minimo i propri contatti con la Sardegna, e ciò solo attraverso l’interprete, come faceva durante le visite pastorali.
Eppure, nonostante questi limiti, essi si impegnarono ad applicare buona parte dei decreti di riforma tridentini, coadiuvati in questo da un’organizzazione burocratica che consentiva loro di essere informati di ciò che succedeva in periferia e di trasmettervi gli ordini opportuni con la massima sollecitudine.
Fermo restando quanto si è detto sulla viabilità, sono tutt’altro che rari i casi di villaggi sperduti sulla fascia nordorientale dell’isola distanti da Cagliari fino a circa duecento chilometri, dai quali le notizie potevano giungere al centro diocesi in poco meno di cinque giorni; la stessa cosa accadeva per gli ordini in partenza verso la periferia.
Naturalmente non si trattava delle lente e rade carovane degli arcivescovi in visita pastorale.
Anche a Cagliari, dunque, la continuata residenza dei vescovi, la loro determinazione nell’imporre la riforma, la lotta per sradicare il concubinato tra il clero, la tenuta delle riunioni foraniali che costituivano una sorta di formazione permanente per gli ecclesiastici, le visite pastorali – pur con quei limiti – fatte personalmente o tramite vicari incaricati, che si concludevano sempre con precisi decreti di riforma destinati a essere ripresi in mano in occasione della visita seguente, le fondazioni di confraternite in tutte le parrocchie (come nelle altre diocesi del sud, a Cagliari predominavano quelle intitolate al Rosario), le missioni popolari iniziate dai gesuiti e dalla metà del Seicento praticate capillarmente anche dai cappuccini, il controllo anche burocratico dell’osservanza del precetto pasquale e altre iniziative fecero sì che la religiosità popolare, nonostante molte incrostazioni superstiziose, raggiungesse un’intensità fino ad allora sconosciuta, non solo con la partecipazione sempre più generalizzata agli atti di culto obbligatori ma anche attraverso manifestazioni collaterali di carattere più popolare ed emotivamente partecipato (sacre rappresentazioni connesse con le grandi liturgie della settimana santa, solenni funzioni di pacificazione tra famiglie rivali, feste popolari sia nei centri abitati che nelle numerose chiese campestri che conobbero una crescita notevole, composizione di canti in lingua sarda facilmente memorizzabili per trasmettere le conoscenze religiose essenziali, per dare sfogo alla pietà popolare e anche per un’opportuna introduzione alla preghiera personale), nelle quali venivano talvolta assorbiti e riadattati numerosi apporti della religiosità spagnola.
Non si può far a meno di menzionare alcune figure di grandi arcivescovi, a iniziare da Antonio Parragues de Castillejo già ricordato, a Francisco del Vall, Alonso Laso Sedeño e Francisco Desquivel (1587- 1595, 1604-1624), Ambrogio Machin e Bernardo de la Cabra (1627-1640-1655).
A partire dalla seconda metà del Seicento, in concomitanza col periodo di instabilità sociale e politica, di crisi economica e demografica che caratterizzò gli ultimi decenni del periodo spagnolo, si assiste a un esaurimento della spinta riformatrice, alla decadenza dell’istruzione, in parte compensata delle nuove fondazioni degli scolopi, all’abbassamento del livello culturale del clero, del quale invece continuavano a crescere a dismisura gli effettivi sia diocesani che regolari, ciò che moltiplicava le occasioni di conflitto con le autorità civili.
Nel secolo e mezzo che resta dell’ancien régime, la storia della Chiesa in Sardegna presenta tre importanti momenti, in ciascuno dei quali figura come attore non secondario il presule di Cagliari: il primo è Bernardo Cariñena y Ypenza (1699- 1722), l’ultimo arcivescovo spagnolo; egli assistette al succedersi di ben quattro dominazioni sull’isola (partenza degli spagnoli e arrivo degli austriaci nel 1708, ritorno degli spagnoli nel 1717 e inizio della dominazione sabauda il 2 settembre 1720).
Anche in questa occasione, toccò sia a lui – come rappresentante dei tre stamenti e perciò di tutto il regno – sia al viceré in quanto rappresentante del sovrano sabaudo, di scambiarsi le «credenziali » nella cattedrale: dopo che, a nome del re, il viceré ebbe giurato di osservare le costituzioni del regno, l’arcivescovo rispose a nome del regno giurando obbedienza e «prestando omaggio al nostro re e signore, don Vittorio Amedeo I [così] re di Sardegna».
Il secondo è Vittorio Filippo Melano di Portula (1778-1797): alla notizia dell’imminente attacco della città da parte della flotta francese (inizi gennaio 1793), in assenza di qualsiasi reazione politico-militare da parte del viceré, fu il primo a mettere subito a disposizione 12.000 scudi per la difesa del regno sabaudo, dichiarandosi anche pronto a vendere l’argenteria della cattedrale; qualche anno dopo, in seguito alla rivolta del regno che aveva cacciato dall’isola tutti i piemontesi compreso il viceré – ma nessun vescovo –, fu a lui che nel settembre 1795 gli stamenti affidarono la delicata missione di riconciliazione presso il sovrano a Torino.
Il terzo caso – non considero quello del cagliaritano Diego Cadello che, arcivescovo fin dal 1798, venne creato cardinale nel 1803, perché nel frattempo la corte sabauda si era rifugiata in Sardegna è quello di Giovanni Emanuele Marongiu Nurra, sassarese (1844-1866), che nel giro di qualche anno (novembre 1847-settembre 1850) visse drammaticamente la fine dell’ancien régime: da presidente della delegazione del regno per chiedere a Carlo Alberto la «unione perfetta» del regnum Sardiniae con gli Stati di Terraferma a esiliato dal regno perché non aveva voluto ritirare la scomunica contro i funzionari governativi che avevano sequestrato la contadoria diocesana: l’alleanza tra il trono e l’altare era proprio finita.
Rientrò in sede (marzo 1866) solo per morirvi alcuni mesi dopo.
Il successivo secolo e mezzo non presenta più figure di questo rilievo: molto importanti tuttavia i primi tre che occuparono l’ultimo trentennio dell’Ottocento, piemontesi e oblati di Maria i primi due, Giovanni Antonio Balma (1871-1881), già missionario in Birmania, e Vincenzo Gregorio Berchialla (1881-1892); il terzo fu Paolo Maria Serci (1893-1900) di Nuraminis, un villaggio della diocesi di Cagliari; essi ebbero a occuparsi di problemi drammatici che lasciavano presagire, tra l’altro, un’inarrestabile scomparsa dei quadri organizzativi della Chiesa locale: durante il decennio 1860-1870 si erano contati circa cento decessi di ecclesiastici, ma vi erano stati ordinati soltanto due nuovi sacerdoti e nel triennio 1873-1876 c’erano state appena sette ordinazioni contro cinquantacinque decessi: da notare che tra il 1840 e il 1870 il clero diocesano era già calato da 424 a 227 unità.
Loro compito fu pertanto quello di «rinfrancare i cuori vacillanti» e di «riedificare le rovine antiche ».
Anche gli arcivescovi del Novecento provenivano tutti del Settentrione italiano, salvo il nuorese Ottorino Pietro Alberti (1987-2003), dal 1973 vescovo di Spoleto e Norcia.
Un ruolo di grande rilievo toccò al milanese Ernesto Maria Piovella il cui governo quasi trentennale (1920-1949) si stende dal primo al secondo dopoguerra; in precedenza era già stato vescovo di Alghero (1907-1914) e arcivescovo di Oristano (1914-1920), di cui nei precedenti quattro anni era stato amministratore apostolico: un arco di oltre quarant’anni ai vertici della gerarchia isolana.
La vasta esperienza di governo e il suo carattere affabile gli conferirono autorevolezza anche all’interno del collegio episcopale locale, che conobbe alcuni decenni di inusuale affiatamento.
Durante il suo soggiorno a Cagliari vi si formarono tre congregazioni femminili, alcune in seguito molto attive in Sardegna: le Ancelle della Sacra Famiglia, delle quali egli fu anche ispiratore e che si dedicano soprattutto agli asili d’infanzia, le suore del Buon Pastore fondate dal cagliaritano Virgilio Angioni per aiutare le ragazze in difficoltà e le suore di Cristo Re, per l’adorazione eucaristica e assistenza alle persone anziane.
Già con Piovella era diventato molto impegnativo il lavoro per la costituzione delle nuove parrocchie a favore di una popolazione in costante crescita, soprattutto dopo l’ultimo conflitto e in seguito alla scelta di Cagliari come capitale della Regione autonoma, pur eccessivamente eccentrica: dai 331.056 abitanti nel 1951, la diocesi era passata ai 496.105 nel 1977 e ai 560.503 del 2004; negli stessi anni, le parrocchie crebbero da 70 (12 in città), a 122 (27), a 133 (30); altro elemento di cui tenere conto perché fonte di nuovi problemi anche per il futuro è la tendenza verso l’aumento percentuale della popolazione della diocesi rispetto a quella dell’intera regione: negli anni sopra suindicati, infatti, esso ne espresse, in successione, il 26, il 32 e il 33 per cento del totale; come dire che già un terzo della popolazione sarda si era ormai spostato in diocesi di Cagliari, benché essa rappresentasse soltanto il 16,77 per cento della superficie dell’isola.
Per gli altri problemi che la diocesi di Cagliari condivide a suo modo con il resto delle chiese sarde, si veda nel vol.
I il § X della trattazione sulla regione ecclesiastica della Sardegna (pp.
269-272).
Bibliografia
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Diocesi di Cagliari
Chiesa Santa Maria
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La facciata della cattedrale di Santa Maria Assunta a Cagliari -
Veduta dell’aula dall’ingresso -
Sotto il presbiterio, il santuario dei Martiri o cripta dell’Arcivescovo Francesco Desquivel, 1618.
Diocesi
FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.