Región eclesiástica Sicilia
la Sicilia sacra, dell’abate netino Rocco Pirri, edita nel 1646, con emendazioni del Mongitore e aggiunte dell’Amico riedita nel 1733;
le Vitae Sanctorum Siculorum del gesuita siracusano Ottavio Gaetani, edita postuma nel 1657;
la Storia della Chiesa in Sicilia, del benedettino Domenico Gaspare Lancia di Brolo edita nel 1880, sono testi cui si è fatto abitualmente riferimento per la ricostruzione delle vicende delle diocesi siciliane e la cronotassi dei vescovi, in special modo per i primi secoli. Ad essi hanno attinto in certa misura anche il Gams, per la Series episcoporum Ecclesiae catholicae (1873), e il Lanzoni per Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del sec. VII (1927). Seppur ancora non si ha per la Sicilia una storia delle diocesi, come è accaduto in questi anni per altre regioni italiane, si può nondimeno attingere agli studi di De Gregorio, Longhitano, Magnano, Mammino, Naro, Schirò, Sindoni, Stabile, Zito;
come pure a ricerche e pubblicazioni edite in occasione di particolari ricorrenze: così per gli anniversari di fondazione delle diocesi di Acireale, Caltagirone, Caltanissetta, Mazara del Vallo, Nicosia, Noto. Mentre per i primi cinque secoli del cristianesimo siciliano possiamo ora attingere alla puntuale e articolata disamina di dati storiografici, archeologici ed epigrafici, edita da Francesco Paolo Rizzo (2006), che evidenzia percorsi, acquisizioni e prospettive. Allo stato attuale delle ricerche è ormai assodato che la struttura ecclesiastica della Sicilia non è dovuta all’invio nell’isola di discepoli consacrati vescovi dall’apostolo Pietro. Fondata su un apparato documentario risalente al VII-IX sec., tale opinione ha supporti assai dubbi e appartiene a un preciso genere letterario, elaborato per attribuirsi l’apostolicità della sede episcopale nel confronto con le chiese bizantine e determinare la supremazia della propria sede sulle altre dell’isola. Come pure, non è possibile ricavare dati certi dalla scarna notizia di Luca sulla sosta dell’apostolo Paolo a Siracusa (At 28,12). Nondimeno, se non è possibile delineare con esattezza l’avvio della missione cristiana, non è difficile ipotizzarvi la presenza di comunità già fin dal I sec. L’isola assolveva un ruolo di speciale rilevanza nei rapporti tra Roma, l’Africa settentrionale e il Medio Oriente. E poiché le comunicazioni avvenivano via mare, i porti siciliani costituivano di fatto delle tappe intermedie necessarie, durante le quali si verificava un naturale interscambio di informazioni che ha potuto favorire la conoscenza della predicazione evangelica almeno tra gli abitanti delle principali città marinare. Un avvio di organizzazione ecclesiastica è verosimile che possa datarsi tra la fine del II sec. e la prima metà del III. Periodo per il quale le catacombe siracusane lasciano chiaramente intendere la presenza in città di vescovi residenti, per quanto di loro non si hanno notizie certe sui nomi. La presenza di martiri nel periodo delle persecuzioni permette di attestare comunità cristiane anche per altre città dell’isola: Catania, Taormina, Messina, Lipari, Agrigento. Testimonianze si hanno per Marciano, Lucia, Evodio e fratelli a Siracusa;
Agata ed Euplo a Catania;
Pancrazio ed Evagrio a Taormina;
Agatone, Placido, Eutichio e Vito ma senza precisa indicazione di luogo. Se nessun elemento di certezza si ha sulla loro organizzazione ecclesiastica, è abbastanza verosimile che in queste comunità vi fossero dei vescovi. A sostegno di tale presenza non pare, però, possa addursi la lettera che nel 250 il clero romano invia anche ai siciliani: il riferimento, piuttosto, è da circoscriversi ai cristiani di Lilibeo. A parere di Francesco Paolo Rizzo «può dirsi che le principali città dell’isola ebbero, sì, impianto gerarchico prima dell’età costantiniana, ma assai debole e talvolta allo sboccio. Eccettuata, naturalmente, Siracusa ». Con l’avvento di Costantino la struttura gerarchica delle comunità cristiane si avviò a un progressivo consolidamento. Particolare menzione merita ancora una volta Siracusa che iniziò ad assumere un ruolo di particolare prestigio: il suo vescovo, Cresto, fu invitato dall’imperatore a partecipare al concilio di Arles del 314. Di una organizzazione gerarchica delle comunità dell’isola a metà del IV sec. si ha notizia dalla rievocazione dell’incontro di Serica (343), sollecitato dalla disputa trinitaria, fatta da Atanasio che menziona i vescovi siciliani nel loro insieme. Di episcopato siciliano si parla pure a proposito di assisi sinodali isolane della seconda metà del IV sec. e in una lettera di Basilio ai neocesarensi del 375. A vescovi siciliani fa riferimento Agostino nella Epistola 157 del 414;
il pontefice Innocenzo I in una lettera al vescovo di Gubbio nel 416;
il Chronicon di Idazio per il 440;
due lettere inviate loro da Leone Magno nel 447;
una lettera di Gelasio I nel 494. A Pascasino di Lilibeo papa Leone aveva affidato il compito di rappresentare la sede romana al concilio di Calcedonia del 451. Alcuni vescovi dell’isola presero parte ai sinodi romani contro lo scisma dell’antipapa Lorenzo: nel 501 Severino di Tindari, Rogato di Taormina, Augusto di Lipari;
nel 502 Eulalio di Siracusa, Eucarpo di Messina, oltre ai ricordati Severino e Augusto. Elementi tutti che evidenziano una costante nell’episcopato siciliano: sintonia con la dottrina ufficiale e comunione con Roma. Una fisionomia certa e meglio delineata della gerarchica ecclesiastica dell’isola ci è consegnata dal registro delle lettere di Gregorio Magno. Tra il 590 e il 604, gli anni del suo pontificato, sono attestate le diocesi di: Agrigento, Carini, Catania, Lentini, Lilibeo, Lipari, Messina, Palermo, Siracusa, Taormina, Tindari, Triocala (nei pressi di Caltabellotta). Di esse l’epistolario riporta i nomi dei rispettivi vescovi. A loro Gregorio Magno si rivolse per sostenerli nei contrasti con il pretore e combattere eresie, idolatria e magia;
per rinnovare l’episcopato e ristabilire la disciplina ecclesiastica;
per governare con giustizia e amministrare con equità i beni della Chiesa. Ma il pontefice non tralasciò di intervenire anche sulla disciplina monastica;
per la difesa dei poveri e degli oppressi;
per sostenere le opere di carità e vigilare sulla loro gestione;
per il decoro dei luoghi sacri e del culto. Nel VII sec. sono attestate pure le diocesi di Termini Imerese e Milazzo: i loro vescovi apposero la firma agli atti di due sinodi romani nel 649 e nel 680. Sono i decenni in cui, anche per la presenza a Siracusa della corte imperiale con Costante II, la Sicilia entrò sempre più nell’orbita della Chiesa bizantina, finché nel 732 venne ufficialmente sottoposta alla giurisdizione ecclesiastica del patriarca di Costantinopoli. In questo periodo si ha notizia di altre tre sedi episcopali: Alesa (nei pressi di Tusa), Cefalù e Trapani. Le sedi di Carini, Lentini, Lilibeo e Triocala sono attestate sino alla fine dell’VIII sec.: i rispettivi vescovi parteciparono al concilio di Nicea del 787. Siracusa assurse a sede metropolitana per tutta l’isola e uno dei suoi vescovi, Metodio, divenne patriarca di Costantinopoli (843-847). L’altra diocesi cui fu assegnato un ruolo di prestigio è Catania, che acquisì il titolo arcivescovile senza assegnazione, però, di sedi suffraganee. Dall’827 iniziò la conquista musulmana dell’isola che rimase sotto il dominio degli arabi fino ai primi decenni dell’XI sec. L’organizzazione ecclesiastica venne demolita ma i cristiani poterono continuare a professare la loro fede versando la tassa prescritta. In questo periodo, Taormina ebbe il suo ultimo vescovo, san Procopio, morto nel 902 durante il saccheggio saraceno della città;
e scomparvero definitivamente pure le sedi di Alesa e Termini Imerese. La struttura ecclesiastica e la gerarchia furono ricostituite dai normanni dopo la vittoria sui musulmani. L’operazione, come si sa, fu il risultato degli accordi stipulati al concilio di Melfi nel 1059 tra papa Nicolò II e il normanno Roberto il Guiscardo d’Altavilla. Il pontefice lo riconobbe vassallo della Chiesa e gli concesse il titolo di duca di Puglia, Calabria e, in caso di conquista, di Sicilia: per la Sede apostolica l’isola apparteneva al Patrimonio di San Pietro. Che la Sicilia, poi, stesse particolarmente a cuore ai pontefici romani è attestato pure dal titolo di archiepiscopus Siciliensis assegnato nel 1050, durante il pontificato di Leone IX, a Umberto, poi vescovo di Silvacandida: evidente espressione di antagonismo verso il patriarcato di Costantinopoli per i diritti vantati sull’isola dal papato romano. L’unico vescovo di cui si ha notizia per gli anni della conquista è l’archiepiscopellus greco Nicodemo che nel 1072 i normanni trovarono a Palermo al loro ingresso in città: restituito alla pienezza delle sue funzioni e reinsediato nella cattedrale, in precedenza trasformata in moschea dai musulmani, Nicodemo venne confermato da papa Alessandro II. Sebbene le fonti segnalino soltanto questo caso, i normanni avranno certo trovato altri greci membri del clero e della gerarchia, con i quali adottarono identico criterio: reintegrazione e libero esercizio delle funzioni ecclesiastiche. Accanto a loro man mano venne inserendosi il clero latino giunto al seguito dei normanni: l’insediamento di una gerarchia latina rispondeva tanto agli interessi dei pontefici che dei normanni. Nel 1061 Ruggero d’Altavilla celebrò nella roccaforte di Troina, sede del suo quartier generale e in seguito eletta a capitale (1080), il suo primo Natale nell’isola. Ed è proprio da Troina che egli ricominciò, un ventennio dopo, la ricostituzione delle diocesi all’interno dei complessi e non sempre sereni rapporti tra i normanni e il papato. Prima ancora di riportare la vittoria definitiva sui musulmani (1091), senza consultare il pontefice, nel 1080 Ruggero nominò vescovo l’italus Roberto (1080-1106), forse della cerchia della sua parentela, certo uomo di sua fiducia. Gregorio VII, con lettera databile prima del 4 febbraio 1081, pur osservando che l’elezione doveva essere subordinata al suo consenso, al fine di evitare uno scontro con il normanno si vide costretto a concedere la consacrazione. A seguito di tale riconoscimento, a Roberto venne assegnata da Ruggero, e non dal pontefice, una circoscrizione diocesana, con sede a Troina, e relativa dotazione patrimoniale. Nel 1096 gli venne assegnata pure la nuova diocesi di Messina, assumendo così il doppio titolo di vescovo di Troina e Messina. Nei decenni successivi, specialmente dopo il lungo episcopato di Roberto, all’ascesa di Messina fa riscontro il progressivo decadimento della sede di Troina, al punto che già in due documenti del 1113 e del 1119 il vescovo Goffredo si sottoscrisse soltanto vescovo di Messina. Il definitivo abbandono del titolo troinese, e accorpamento di Troina a Messina, si ha con la erezione a metropolitana di questa sede, con relativa provincia ecclesiastica, da parte dell’antipapa Anacleto II, il 14 settembre 1131. Il territorio assegnato da Ruggero alla sede di Troina, a seguito della istituzione ufficiale della provincia ecclesiastica di Messina da parte del pontefice Alessandro III, venne definitivamente ripartito tra questa sede e le due suffraganee Cefalù e Lipari-Patti. Dopo Troina e Messina, ancora una volta autonomamente da Roma, Ruggero provvide a ricostituire o fondare nuove sedi episcopali. Alla fine dell’XI sec. erano ricostituite Agrigento (1092), Catania (1092) e Siracusa (1093), sedi episcopali del primo millennio, alle quali assegnò vescovi latini;
sedi e vescovi ratificati da Urbano II. Mazara del Vallo fu scelta come sede episcopale al posto di Lilibeo- Marsala (1093) probabilmente con il preciso intento di cristianizzare quella parte dell’isola dove persisteva un vasto strato di popolazione musulmana. Per Palermo, poi, non pare si sia trattato di una vera e propria rifondazione. Dopo Nicodemo venne nominato vescovo il latino Alcherio (1083-1094), al quale il 16 aprile 1083 Gregorio VII concesse il pallio. Questi pare che fosse d’accordo con la curia romana per assumere un ruolo di preminenza e di guida della gerarchia ecclesiastica dell’isola. Il progetto fu invalidato da Ruggero che non intendeva cedere il diritto di patronato sulle diocesi, di nomina e controllo sui vescovi, secondo il modello bizantino. La politica ecclesiastica perseguita da Ruggero, anche per le strutture ecclesiastiche e le nomine dei vescovi, fu continuata dai suoi successori, divenendo motivo di ulteriori scontri. Il figlio Ruggero II (1130-1154) seppe approfittare del momento di crisi del papato e per l’appoggio prestato all’antipapa Anacleto II ottenne da questi il titolo di re di Sicilia (coronato a Palermo nel 1130) e l’istituzione di nuove diocesi. Nel 1131 rifondò la diocesi di Cefalù ed elevò a sede episcopale le due abbazie unite di Lipari e Patti, sottoponendole alla giurisdizione metropolitana dell’arcivescovo di Messina. Concessione confermata nel 1166 da Alessandro III con il riconoscimento della provincia ecclesiastica di Messina. All’interno della diocesi messinese incuneò, poi, l’archimandritato del Santissimo Salvatore in lingua phari con i tratti dei monasteri imperiali bizantini: posto sotto la sua protezione, con proprio territorio, sottomesso all’autorità dell’archimandrita e libero dalla giurisdizione episcopale. A seguito della soppressione degli ordini religiosi (1866) il territorio dell’archimandritato e il titolo furono assegnati stabilmente all’arcivescovo di Messina (1883). A Guglielmo II il Buono (1166-1189) si deve la fondazione del vescovado di Monreale nel 1176, in un territorio dove persisteva salda una considerevole presenza di musulmani. Per favorire la cristianizzazione di questa ampia zona fondò una imponente abbazia benedettina, con annessa la ben nota mirabile chiesa (il duomo), dotandola di vasti possedimenti e assegnando all’abate-arcivescovo ampi poteri. Monreale, così come in precedenza Catania, Cefalù e Lipari-Patti, venne fondata come diocesi monastica: l’abate è il vescovo, i monaci costituiscono il capitolo della cattedrale, e questa è la chiesa dell’abbazia;
a Catania il capitolo venne assegnato al clero secolare nel 1568 mentre a Monreale soltanto nel 1918. L’opzione dei normanni a favore del monachesimo benedettino non significava, però, un netto ripudio del monachesimo basiliano: entrambi vennero, per ragioni diverse, favoriti. Ma verso i benedettini vi è stata una predilezione, che ne ha determinato la progressiva rilevante espansione, sia perché considerati di assoluta fiducia dai normanni anche per controllare il territorio, sia per orientare l’isola al rito latino e alla completa sottomissione alla Chiesa romana. Ai benedettini e, dalla fine del XIII sec. in poi, agli ordini mendicanti si deve la ricristianizzazione dell’isola dove, agli inizi del secolo successivo, si rifugiarono pure alcuni gruppi di spirituali francescani. Nella definizione delle circoscrizioni ecclesiastiche è evidente che i normanni non hanno seguito il criterio della collocazione delle sedi episcopali nei centri dove si trovavano nel primo millennio. Vennero rifondate le antiche sedi di Agrigento, Catania, Cefalù, Lipari, Messina, Palermo e Siracusa, centri che tra le altre ragioni bene rispondevano al loro progetto politico ed ecclesiastico per la Sicilia. Non furono ricostituite invece le diocesi di Alesa, Carini, Lentini, Lilibeo, Milazzo, Taormina, Termini Imerese, Tindari, Triocala. Se si escludono Alesa, Milazzo e Triocala, delle altre la memoria è legata al loro inserimento tra le sedi titolari solitamente conferite dalla Santa Sede. Nuove, invece, sono state le diocesi di Mazara del Vallo, Monreale, Patti, Troina e dell’archimandritato-diocesi del Santissimo Salvatore. Di queste, come già ricordato, Troina è scomparsa ed è stata inserita tra le sedi titolari. È emerso fin qui come i rapporti tra i normanni e la Sede apostolica, dopo l’avvio della conquista dell’isola, non siano stati pacifici. Il momento di maggiore conflittualità si ebbe quando Urbano II, senza aver consultato o informato previamente il conte Ruggero, anzi per controllarne la politica ecclesiastica arginando l’autonomia da Roma nelle decisioni assunte e l’abituale intrusione nella Chiesa siciliana, nel 1098 nominò Roberto, vescovo di Troina, legato apostolico in Sicilia. Probabilmente, per non irritare Ruggero ma volendo in ogni caso mettergli a fianco un rappresentante della Sede apostolica costituito in dignità ecclesiastica, il pontefice ritenne opportuno nominare Roberto e non altri perché della cerchia e di particolare fiducia del conte. Il provvedimento irritò talmente Ruggero che dispose la carcerazione di Roberto: non per l’obbedienza di questi al papa, quanto piuttosto perché in quella nomina vedeva una chiara riduzione della propria autorità e delle sue prerogative sull’isola. Lo scontro si chiuse con l’annullamento della nomina di Roberto, rimesso in libertà, e l’impegno del papa a non designare più legati per la Sicilia. Nell’incontro di Salerno Urbano II, con la bolla Quia propter prudentiam tuam (5 luglio 1098), accordò al conte Ruggero la legazia apostolica per la Sicilia. Il privilegio ratificava la politica ecclesiastica di Ruggero e ne sanciva la validità per il futuro. Questi e i suoi successori venivano costituiti legati della Santa Sede nell’isola e, per il futuro, senza il consenso del sovrano, il pontefice non avrebbe potuto inviarvi propri legati;
inoltre, in occasione di concili convocati dal papa fuori dell’isola, sarebbe stato il sovrano a decidere quali vescovi dovevano parteciparvi, in modo da evitare possibili disservizi nelle rispettive diocesi. Dopo il XII sec., dalla documentazione finora nota, la politica ecclesiastica dei sovrani successivi alla dinastia normanna fino al XV sec. pare comunque sia stata determinata più dai tratti generali delle relazioni con il papato che dal privilegio della legazia apostolica. In questi secoli le vicende delle diocesi e dei vescovi seguirono l’alternarsi delle vicissitudini politiche dell’isola. Durante il regno di Federico II (1197-1250), nel 1206, venne istituita la prelatura nullius di Santa Lucia de plano Milatii, che assunse la denominazione del Mela nel 1877, dal nome del fiume che scorre nei pressi e che dà l’appellativo ad altri comuni, Pace del Mela e San Filippo del Mela. Federico aveva scelto la località come luogo di villeggiatura e gli volle conferire autonomia dal vescovo di Lipari-Patti: assegnò il territorio e la giurisdizione sulle chiese al cappellano maggiore del regno, istituito da Ruggero II nel 1132. La resistenza dei vescovi di Patti alla riduzione della diocesi venne superata con compensi in denaro e in benefici. Il prelato di Santa Lucia, in quanto cappellano maggiore, aveva il diritto di sedere all’undicesimo posto nel parlamento del regno. Dalla fondazione si sono avuti sessantasei prelati ordinari, diversi dei quali trasferiti poi al governo di diocesi dell’isola. Con la riorganizzazione delle diocesi italiane, nel 1986, la prelatura e il titolo sono stati definitivamente assegnati all’arcivescovo di Messina. Il diritto avanzato dal papato di considerare la Sicilia patrimonio della Sede apostolica e, di conseguenza, di poterne concedere liberamente l’investitura feudale fu causa di conflitti con dinastie e sovrani. L’avversione mostrata nei confronti dell’Impero germanico che, ricevendo l’isola per successione, avrebbe esteso il suo territorio dal Nord Europa al Mediterraneo, indusse i pontefici a favorire l’insediamento nell’Italia meridionale e nell’isola della dinastia d’Angiò. La decisione di costoro di trasferire a Napoli la capitale del Regno contribuì a determinare la ribellione della Sicilia nel 1282, passata alla storia come «guerra dei Vespri». In diverse diocesi dell’isola l’avversione ai francesi si tramutò in avversione anche contro i vescovi fedeli al pontefice. Ma soprattutto la lotta aperta contro la Chiesa di Roma provocò lunghi anni di interdetto ecclesiastico sull’isola. Con la pace di Caltabellotta (1302) i siciliani riebbero l’autonomia di regno e passarono alla dinastia aragonese, da loro chiamata in aiuto contro i francesi. I nuovi sovrani non tennero molto in conto la reservatio papalis sulla nomina dei vescovi sancita da Innocenzo IV nel 1251. Federico III, infatti, si considerò libero da ogni vincolo con Roma per la nomina degli arcivescovi di Palermo e designò in successione due suoi parenti: Bartolomeno di Antiochia (1305-1311) e il fratello di lui Francesco di Antiochia (1311-1320). Negli anni della residenza avignonese il papato tornò a sostenere ancora gli angioini e a colpire con la scomunica re Federico e con l’interdetto l’isola. Il trattato di pace di Catania (1347) tra angioini e aragonesi non venne però ratificato da papa Clemente VI che non vi trovò un sufficiente e inequivocabile riconoscimento dei diritti della Sede apostolica. Gregorio XI, per ratificare il successivo trattato del 1372, pretese l’omaggio e il giuramento di fedeltà del sovrano dell’isola e la piena reintegrazione dei diritti feudali della Chiesa romana. Questo precario equilibrio di rapporti istituzionali ebbe pesanti conseguenze sulla vita della Chiesa siciliana. Da parte di signori feudali e baroni nel corso del XIV sec. si ebbero non solo indebite usurpazioni di beni ecclesiastici ma pure pesanti ingerenze nelle nomine ecclesiastiche, anche per vescovi delle principali diocesi. Momenti difficili e di incertezza si ebbero anche in Sicilia negli anni dello scisma d’Occidente. Urbano VI riuscì a mantenere l’isola nell’orbita della sua obbedienza ed estirpare l’adesione al suo avversario Clemente VII. Ne pagarono le conseguenze, tra gli altri, il vescovo di Catania, Elia (1376-1378), e l’arcivescovo di Monreale, Guglielmo Mostri (1362-1379), che vennero deposti per la loro obbedienza clementina. A seguito dello sbarco dei Martini (1392) la situazione religiosa dell’isola divenne complessa e confusa, conseguenza del contrasto tra gli aragonesi e il papa romano Bonifacio IX. Gli arcivescovi di Palermo e Monreale e i vescovi di Agrigento, Catania e Lipari-Patti si opposero a Martino il Vecchio;
mentre l’arcivescovo di Messina e i vescovi di Siracusa, Mazara e Cefalù, benché di nomina romana, non avversarono gli aragonesi e collaborarono con essi. Di obbedienza avignonese e quasi tutti catalani furono gli amministratori ecclesiastici delle sedi di Monreale, Catania e Lipari-Patti, e i vescovi imposti all’elezione dei capitoli cattedrali di Palermo e Agrigento. È in questo periodo che man mano si pervenne alla suddivisione in due sedi del vescovado di Lipari-Patti. Le difficoltà di comunicazione dovute alla distanza dei luoghi e il passaggio dell’arcipelago eoliano ai sovrani napoletani (1340) indussero papa Bonifacio IX nel 1399, con il consenso di re Martino, a ripartire il vescovado in due sedi episcopali distinte. Patti divenne diocesi autonoma e immediatamente soggetta a Roma;
le fu assegnato il territorio di Patti, Gioiosa, Librizzi, Montagnareale e Sorrentini, e metà della terra di San Salvatore di Fitalia;
il capitolo della cattedrale venne composto da monaci benedettini. I conflitti di giurisdizione tra papato e corona sulla vita delle diocesi e soprattutto per le nomine episcopali e per i benefici maggiori continuarono a segnare il XV sec., tanto con i Martini quanto dal 1412 con la dinastia di Aragona e Castiglia. L’apice dello scontro, che inasprì la politica ecclesiastica della corona di Sicilia, prese le mosse dall’opera del giurista siciliano Giovan Luca Barberi. Alla compilazione dei Capibrevi del Regno di Sicilia, nel 1508, allegò il trattato De Regia Monarchia, in cui mise in risalto la bolla di Urbano II Propter prudentiam tuam allo scopo di dimostrare che il sovrano di Sicilia, in quanto legato nato, sulla Chiesa dell’isola godeva di tutti i poteri del romano pontefice. Già dalla fine del Quattrocento la politica ecclesiastica di Ferdinando II si connotava per alcuni privilegi ottenuti dai pontefici: la libertà di scelta degli inquisitori concessagli da Sisto IV (1471-1484), la facoltà di nomina dei vescovi e dei prelati ottenuta da Innocenzo VIII (1484-1492). Condizioni che assicuravano al sovrano un’ampia giurisdizione sulla vita della Chiesa nei territori soggetti alla sua autorità. A fronte, poi, dei tentativi romani di limitare il diritto di nomina dei vescovi, il re cattolico nel 1507 vietò sia di chiedere le nomine al pontefice, sia l’esecuzione di quelle effettuate autonomamente da Roma. Il sovrano non intendeva rendersi autonomo dal papa, non era in gioco la sua deferenza verso di lui, passava bensì in secondo piano là dove poteva paventarsi un’incrinatura degli interessi e dei privilegi della corona. In questo clima, l’opera di Giovan Luca Barberi ebbe una doppia conseguenza: avvalorò il diritto di regio patronato su tutti i benefici ecclesiastici dell’isola e consegnò alla corona spagnola una fonte autorevole e imprescindibile anche per dirimere tutte le questioni inerenti il diritto ecclesiastico per la Sicilia;
riesumò, in special modo, il privilegio della legazia apostolica come indiscutibile origine delle prerogative regie in materia ecclesiastica. La corona spagnola ricevette, così, uno stabile e singolare privilegio che ha determinato rapporti unici, intricati e litigiosi tra il potere statale e il potere ecclesiastico, qualunque sia stata la dinastia che abbia cinto la corona di Sicilia fino all’indomani dell’unità d’Italia, con un’innegabile condizione di subordinazione degli ecclesiastici al sovrano, prima e ancor più che al papa. Mentre nel sistema di societas christiana degli altri Stati vigeva una situazione di diarchia, in Sicilia il sistema era rigido e sbilanciato a favore del sovrano per il diritto di monarchia: il re governava ed esercitava pieno potere in ambito civile jure suo e in ambito ecclesiastico jure legationis, per nascita e non per nomina ad personam, in perpetuo e non a tempo limitato. Il tema della «monarchia sicula» fu oggetto di aspre discussioni anche nell’ultima sessione del concilio di Trento. Ai vescovi siciliani che, nell’autorità del concilio, cercavano appoggio per liberarsi dalla mediazione del sovrano nelle relazioni con il pontefice e per la difesa della pienezza di giurisdizione ecclesiastica, si contrappose l’episcopato francese, preoccupato di mantenere integri i privilegi gallicani. Il concilio divenne, così, cassa di risonanza europea per la questione, sulla quale intervennero in seguito personaggi come Baronio e Bellarmino. Anche per l’applicazione in Sicilia dei decreti tridentini fu necessario sottoporre questi alla previa approvazione regia. E Filippo II, nel concedere il regio exequatur, appose delle clausole per impedire l’esecuzione di quei decreti che intaccavano l’integrità delle prerogative connesse con la legazia apostolica. Per tale ragione la riforma tridentina nell’isola ebbe non poche difficoltà ad impiantarsi, a maggior ragione dopo l’istituzione del tribunale di regia monarchia, nel 1579, ad opera del viceré Marco Antonio Colonna. Tre esemplificazioni, in tal senso, sono sufficienti. Il vescovo di Catania, Nicola Maria Caracciolo, si vide impossibilitato ad erigere canonicamente le parrocchie in diocesi, per l’opposizione dell’aristocrazia cittadina avanzata al sovrano. Il vescovo di Mazara, Bernardo Gasco, nel 1584 lamentò che per ben due volte aveva dovuto rinunziare alla celebrazione del sinodo diocesano per il divieto oppostogli dal sovrano. Ludovico Torres, arcivescovo di Monreale, nel 1594 fece presente alla curia romana che, né lui né gli altri due arcivescovi dell’isola (Palermo e Messina), avevano potuto convocare il concilio provinciale per le pretese connesse con la legazia apostolica. Tanto per la convocazione di sinodi e concili provinciali che per l’attuazione dei decreti da loro emanati necessitava, infatti, l’approvazione regia. In tale contesto fu la riforma della vita del clero e dei religiosi che in special modo ne soffrì. Per molti ecclesiastici era agevole sfuggire alla giurisdizione episcopale, o dei legittimi superiori, grazie ai ricorsi presentati al giudice della regia monarchia avverso le rispettive ingiunzioni, spesso ribaltate a favore dei ricorrenti. Così, mentre il sinodo diocesano e il concilio provinciale diventavano per la cattolicità lo strumento principe per l’ortodossia e la morale, in Sicilia si compiva un percorso inverso, che mortificò la stagione sinodale proprio quando essa, anche nell’isola, tendeva a stabilizzarsi: il numero rilevante di sinodi diocesani celebrati nel XVI sec. divenne esiguo nei secoli successivi. Si ebbe così una duplice conseguenza: il pesante ridimensionamento del modello episcopale tridentino, identificabile nel sinodo diocesano e nella visita pastorale;
l’assoggettamento del vescovo al potere regio, dalla nomina all’esercizio della giurisdizione ecclesiastica. Venne vanificato in tal modo uno dei capisaldi della riforma tridentina: tutelare la centralità pastorale e giuridica del vescovo nella sua diocesi. Eventuali interventi di riforma vennero determinati, in assoluta autonomia, dal monarca legato apostolico, sovrano dell’isola, il quale esercitava pure il diritto di ispezione straordinaria sulle diocesi, nel temporale e nello spirituale, con le Sacre regie visite, delle quali quattordici su ventidue si ebbero nel XVI sec. Di esse è edita soltanto quella di monsignor Giovanni Angelo De Ciocchis compiuta negli anni 1741-1743;
l’ultima è del 1804. Inoltre, nelle solenni celebrazioni delle cappelle reali, momento di massima espressione della magnificenza religiosa, il viceré vi assisteva a capo coperto, con il trono posto dal lato dell’altare dove si proclamava il Vangelo e tre gradini più in alto della cattedra episcopale, fosse pure un arcivescovo cardinale. Nel tempo le competenze del Tribunale di regia monarchia vennero ampliate fino al punto da: impedire il ricorso alla Santa Sede per la gran parte delle cause ecclesiastiche, sia del clero diocesano come dei regolari, esercitando su di essi un’ampia giurisdizione;
annullare le vestizioni religiose;
cassare i provvedimenti delle autorità ecclesiastiche su istanza delle parti interessate;
giudicare gli ecclesiastici esenti, potendo così trattare anche cause relative alle persone dei vescovi;
giudicare i reati contro i regolari, commessi fuori dai conventi;
avocare a sé cause ecclesiastiche;
fungere da appello per le sentenze emesse da vescovi e arcivescovi: sia nelle cause civili, penali e disciplinari degli ecclesiastici, come nelle cause di matrimonio, di concessione di benefici, di diritto di asilo, dei reati di misto foro (usura, simonia ecc.);
concedere la dispensa da impedimenti matrimoniali;
vigilare sulla disciplina di conventi e monasteri;
ratificare o annullare la nomina di superiori religiosi e abbadesse;
trasferire religiosi da un convento a un altro;
invalidare, su richiesta degli interessati, le punizioni disciplinari;
assolvere dalle censure ecclesiastiche;
sospendere e dichiarare nulle le scomuniche. L’apice della conflittualità si registrò all’inizio del Settecento con la cosiddetta controversia liparitana (1711-1728). Originata da un banale incidente verificatosi a Lipari tra le guardie annonarie e il vescovo, la lite fu portata davanti al tribunale della monarchia, che invalidò la scomunica pronunciata dal prelato contro il capitano delle guardie. Ritenendo lese le proprie prerogative, il vescovo fece ricorso a Roma, sostenuto da altri vescovi dell’isola. La curia romana, a sua volta, ribadì l’incompetenza del tribunale ad assolvere dalle scomuniche maggiori, riservate al pontefice, e dispose che tale ordinanza venisse pubblicata in tutte le diocesi dell’isola. Tra i vescovi che condivisero l’intervento romano e più di altri si opposero al potere laico vi furono quelli di Agrigento e Catania: per ordine del viceré vennero espulsi dalla Sicilia e ripararono a Roma. Ma prima di lasciare le rispettive sedi episcopali emisero la scomunica contro gli esecutori del provvedimento e l’interdetto per tutto il territorio della diocesi;
ambedue i provvedimenti però vennero annullati dal tribunale della monarchia. Mentre il clero diocesano e i religiosi, con la minaccia dell’esilio, venivano obbligati dal viceré a celebrare il culto e ad amministrare i sacramenti, in modo così da rendere vano l’interdetto, la Santa Sede scomunicò il giudice del tribunale di regia monarchia, proibì agli ecclesiastici di pagare i tributi e Clemente XI dichiarò soppressa la legazia apostolica, con tutte le prerogative a essa connesse (1715). Lo scontro perdurava nonostante in quegli anni, dopo il trattato di Utrecht (1713), la Sicilia passasse ai Savoia (1713-1718), all'Austria (1718-1734) e a Carlo di Borbone dopo la pace di Vienna (1738). Alla pacificazione si pervenne nel 1728 con la bolla Fideli di Benedetto XIII, nota come «concordia benedettina», che riaffermava l’antico privilegio della legazia, pur se con qualche marginale limitazione e il disciplinamento delle competenze del giudice di regia monarchia. La concordia, come è facile immaginare, non pose fine alle polemiche tra curialisti e regalisti e nel 1750 il sovrano Carlo di Borbone sancì i privilegi di cui godeva nella sfera ecclesiastica e la peculiarità dell’isola definendo la regia monarchia «la gemma più preziosa della Sicula Corona». Per le diocesi siciliane, nondimeno, il Settecento è stato un periodo di intensa evangelizzazione e catechesi, segnato da numerose missioni popolari predicate da gesuiti, francescani e redentoristi ma anche dall’opera di alcuni vescovi dalle simpatie illuministe e gianseniste, legati ai circoli riformisti napoletani: Cusani e Filangeri a Palermo, Testa a Monreale, Ventimiglia a Catania, Di Blasi a Messina, Lucchesi Palli ad Agrigento. Diversi di loro stilarono pure un testo catechistico in siciliano a uso della propria diocesi. Nel secondo Settecento sulle diocesi incisero la politica giurisdizionalista di Bernardo Tanucci e il riformismo più laico dei viceré Caracciolo e Fogliani. Il tribunale della regia monarchia fu considerato strumento funzionale all’affermazione dell’assolutismo regio: alla riduzione dei casi di intervento del giudice in materia di foro ecclesiastico, si accompagnò un più rigido controllo soprattutto sulla vita dei religiosi. È in questo clima che il 5 aprile 1778 il parlamento di Sicilia presentava a Ferdinando III la richiesta di erigere nuove diocesi nell’isola, motivata dall’incremento della popolazione, cresciuta nei decenni precedenti del 34,74 per cento, ripartita anche in decine di nuovi centri abitati sorti per lo più nell’entroterra dell’isola tra la fine del XVI e gli inizi del XVIII sec., e da conseguenti esigenze pastorali. Alle diocesi di età normanna mancava Monreale: per decurtare i più pingui benefici ecclesiastici, e in particolare quelli delle mense vescovili, nel 1776 era stata unita a Palermo. Il ripristino dell’autonomia, chiesta proprio nel parlamento del 1778, venne concesso da Pio VII nel 1802 con la bolla Imbecillitas humanae mentis. La richiesta del parlamento fu accolta dal re, cui competeva per la legazia la fondazione di nuove sedi episcopali, che affidò l’indagine conoscitiva alla deputazione del Regno per un riesame complessivo delle circoscrizioni ecclesiastiche dell’isola. La notizia fece sorgere o risvegliò il desiderio di assurgere a sede episcopale in città che lo erano state o che in passato lo avevano chiesto: Caltagirone, Castrogiovanni, Lentini, Nicosia, Noto, Piazza Armerina, Taormina, Trapani, Troina. A esse si opponevano le diocesi che vedevano a rischio l’integrità del loro territorio. L’agitazione provocata e le vicende sollevate dalla rivoluzione francese costrinsero a rinviare il progetto che venne ripresentato nel parlamento del 1802. Il momento politico però non era ancora favorevole: nel 1806 Ferdinando III dovette lasciare Napoli ai francesi e rifugiarsi a Palermo fino al 1815. Da qui il sovrano chiese a Pio VII l’erezione delle diocesi di Caltagirone, Nicosia e Piazza Armerina, smembrandole da Catania, Siracusa e Messina. Ne ottenne le bolle dopo il congresso di Vienna e il suo rientro in Napoli: nel 1816 per Caltagirone e nel 1817 per Nicosia e Piazza Armerina. Tutte e tre di patronato regio;
Caltagirone e Piazza suffraganee di Monreale, Nicosia di Messina. Il progetto generale di nuove diocesi non si ritenne completato e se ne inserì l’opportunità nel concordato di Terracina (1818). Così, mentre nella parte continentale del Regno venivano accorpate, nell’isola le diocesi venivano accresciute. Dopo i moti del 1820 e lo scontro tra i baroni e la corona, favorevole agli aneliti demaniali delle nuove classi sociali, per la designazione delle nuove sedi vescovili, oltre che per la nomina dei nuovi vescovi, furono determinanti gli eventi connessi con i moti rivoluzionari del 1837. Le bolle per le nuove diocesi vennero pubblicate tra maggio e giugno 1844: il governo volle punire Catania e Siracusa, sedi di rivolta, decurtando il loro territorio, e premiare Acireale (inizierà la sua vita autonoma solo nel 1872) e Noto, città fedeli alla corona. Con esse vennero istituite pure le diocesi di Caltanissetta e Trapani. Tutta la geografia ecclesiastica dell’isola acquisiva ora una fisionomia nuova, sancita da decreto reale in quanto tutte le diocesi erano considerate di regio patronato: Siracusa elevata a sede arcivescovile e metropolitana;
Catania a sede arcivescovile, immediatamente soggetta alla Santa Sede ma non metropolitana (1859), per l’opposizione di Acireale che ottenne di essere anch’essa immediatamente soggetta;
non venne riconosciuta la dignità di sede arcivescovile per Agrigento;
vennero ridefiniti i confini della diocesi di Patti, ampliata già nel 1822 a scapito di Messina;
furono stabilite le diocesi suffraganee delle quattro sedi metropolitane Palermo, Monreale, Siracusa e Messina. Un radicale rinnovamento si ebbe pure per la gerarchia ecclesiastica dell’isola. Alla fine del 1843 otto diocesi su tredici erano sede vacante: Agrigento, Cefalù, Lipari, Mazara del Vallo, Nicosia, Patti, Piazza Armerina e Siracusa. Il governo fece sapere alla Santa Sede che il re avrebbe designato i rispettivi vescovi solamente dopo la canonica erezione delle sedi episcopali già concordate. Nel 1844, insieme alla nuove diocesi, Ferdinando II ottenne la nomina di ben undici vescovi su sedici, operando in tal modo un radicale ricambio nell’episcopato dell’isola. Di essi, sei erano del continente e cinque siciliani;
cinque erano religiosi e sei provenivano dal clero diocesano;
la loro età media era di cinquantaquattro anni. Dall’inizio dell’Ottocento montavano frattanto le richieste di maggiore libertà, anche di comunicazione con Roma, per l’episcopato, il clero e i religiosi, culminate nella protesta dei vescovi del 1808 e nel dibattito seguito con proposte di riforma della Chiesa. Da parte della Santa Sede ogni occasione era propizia per assegnare ai vescovi maggior prestigio e libertà di giurisdizione sul clero. Solo con l’autorizzazione del sovrano poté tenersi nel 1850 l’unica assemblea dei vescovi siciliani fino al XIX sec. Gli atti, censurati dalla corte di Napoli, vennero editi a distanza di due anni, mentre il testo originale votato dai vescovi non fu possibile renderlo pubblico. Ma con l’arrivo di Garibaldi in Sicilia (1860) la legazia apostolica divenne strumentale alla nuova situazione politica. Segno evidente ne fu il suo intervento, in qualità di rappresentante del nuovo sovrano legato apostolico, Vittorio Emanuele II, alla solenne cappella reale celebrata nel giorno di Santa Rosalia, il 15 luglio 1860, nella cattedrale di Palermo. Al giudice del Tribunale di monarchia le competenze vennero rafforzate per meglio controllare il clero, in particolare i religiosi, e impedire gli influssi della curia romana nel mondo ecclesiastico siciliano. Il nuovo clima politico rese insostenibile il persistere del privilegio e tanto i vescovi quanto il clero zelante vedevano in esso un deleterio strumento di soggezione della Chiesa siciliana al potere politico, un grave impedimento per la libertà, per la purificazione e l’immissione nel flusso ecclesiologico romano. Per di più, il governo italiano si avvaleva anche della legazia per pretendere il diritto di nomina dei vescovi. Dal 1860 al 1872 rimasero vacanti anche per periodi piuttosto lunghi le diocesi di: Agrigento (dodici anni), Caltagirone, Catania, Messina, Monreale, Noto, Piazza Armerina, Siracusa. Pio IX pervenne nella decisione di abolire definitivamente la legazia apostolica di Sicilia e il 28 gennaio 1864 era pronta la bolla Suprema universa dominici gregis. Ma la curia romana ritenne di dover attendere per non inasprire il governo: erano in gioco le nomine dei vescovi di diverse diocesi italiane, ed erano in discussione l’introduzione del matrimonio civile (1866) e le leggi eversive del 1866 e 1867. Raggiunto l’accordo per i nuovi vescovi e consumata la frattura con le leggi eversive, il 12 ottobre 1867 la bolla venne pubblicata. Il governo italiano rinunziò alla legazia con l’art. 15 della legge delle Guarentigie (1871). L’autonomia dal potere politico e la dipendenza esclusiva dalla Sede apostolica poté avviare la definizione di una fisionomia di diocesi e di ministero episcopale pienamente in linea con il modello tridentino mediato ora dalle direttive di Pio IX e di Leone XIII. Oltre ai sinodi diocesani, i vescovi siciliani iniziarono nel 1891 le periodiche conferenze episcopali e nel 1920 e 1952 tennero due concili plenari siculi. L’applicazione della legislazione anticlericale (1866, 1867 e 1890) fu particolarmente deleteria per le diocesi siciliane: scardinò il secolare impianto di conventi e monasteri, sostituiti però da numerose comunità maschili e femminili dei nuovi istituti religiosi, diversi dei quali sorti nell’isola;
impoverì il clero diocesano, anche quello in cura d’anime, che poté riprendersi economicamente per l’applicazione del concordato del 1929;
sgretolò il reticolo di opere pie, cui si sopperì con un maggiore impegno nelle opere sociali, in sintonia con il movimento cattolico. La struttura ecclesiastica dell’isola ha ricevuto un’ulteriore riformulazione nel corso del XX sec. e il suo assetto attuale. Nel 1937 Pio XI ha eretto l’eparchia di Piana dei Greci, denominata poi Piana degli Albanesi, con i paesi cui gli esuli albanesi avevano dato origine tra il 1448 e il 1534. Nel 1950 Pio XII ha istituito la diocesi di Ragusa: unita in un primo tempo a quella di Siracusa, resa autonoma nel 1955. Con la riforma delle diocesi italiane nel 1986 Lipari e Santa Lucia del Mela sono state accorpate a Messina, che ha assunto la denominazione di arcidiocesi di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela. Nel 1994 è stata eretta la regione ecclesiastica siciliana. Acireale, Catania e Piana degli Albanesi, immediatamente soggette alla Santa Sede;
quattro sedi metropolitane: Messina- Lipari-Santa Lucia del Mela, con suffraganee Nicosia e Patti;
Monreale, con Agrigento e Caltanissetta;
Palermo, con Cefalù, Mazara del Vallo e Trapani;
Siracusa con Caltagirone, Noto, Piazza Armerina e Ragusa. Il 2 dicembre 2000 Giovanni Paolo II ha eretto a sede metropolitana Catania, con suffraganee Acireale e Caltagirone, e Agrigento con Caltanissetta e Piazza Armerina;
ha reso Monreale suffraganea di Palermo, lasciandole però il titolo di sede arcivescovile.
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FUENTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.