Diocèse de Napoli
HISTOIRE
I - Età antica
L’ekkl¯esia - Le origini della Chiesa napoletana sono poco chiare.Le tracce più antiche risalgono alla fine del II sec., tuttavia è probabile che l’ekkl¯esia ebbe presto seguaci.
Tra le fonti letterarie sono da segnalare le Gesta episcoporum neapolitanorum, che riportano notizie fino al IX sec.; l’opera trasmette soprattutto dati biografici e ragguagli sui luoghi di culto, ma rivela scarsi dettagli pastorali.
Interessante è anche il calendario marmoreo dell’VIII sec., ora conservato nei pressi del duomo.
Per le testimonianze monumentali, la più antica viene giudicata una pittura delle catacombe di San Gennaro (fine II-principio III sec.); l’affresco informa dei primi testi che i cristiani di Napoli interpretarono: il libro della Genesi, con il racconto del peccato di Adamo ed Eva, e il Pastore di Erma.
Si crede che il primo vescovo sia stato Aspren, che alcuni racconti indicano come discepolo di Pietro; anche i nomi dei suoi successori non hanno attestazioni certe: Epitimito, Marone, Probo, Paolo, Agrippino, Eustazio, Efebo.
Alla prima metà del IV . risale la sicura notizia dell’episcopato di Fortunato, che prese parte al sinodo contro Ario a Serdica nel 343-344.
Nondimeno è l’azione di Severo (364-410) che segna la definitiva decadenza del paganesimo in città e l’irreversibile affermazione del cristianesimo.
Seguì per quattro anni Orso; poi Giovanni I, che fece traslare il corpo di san Gennaro da Pozzuoli nel cimitero che da lui prese il nome; quindi Nostriano, che si segnalò per l’accoglienza riservata ai profughi africani della persecuzione vandalica di Genserico.
In questo tempo la dignità episcopale fu universalmente riconosciuta non più come quella di un capo di una fazione religiosa, quanto di una personalità di primo piano nella vita sociale e politica della città.
I successori di Nostriano furono Timasio e Felice, poi Sotero (presente a un sinodo romano nel 465), quindi Vittore e Stefano I, vescovo dal 497 al 512-513.
Seguirono gli episcopati di Pomponio, Giovanni II il Mediocre, Vincenzo, Reduce, Demetrio, Fortunato II (il destinatario di molte lettere di papa Gregorio Magno) e di molti altri, fino ad Agnello (672-694).
Infine, le iniziative dei vescovi Sergio, Cosma, Calvo, Paolo II, dal 763 al 767, e Stefano II, vissuto fino all’800, mettono in luce la situazione del tutto particolare nella quale si trovò la Chiesa di Napoli nell’alto Medioevo, per molti secoli stretta fra Roma e Costantinopoli.
Accanto ai vescovi, un ruolo importante fu via via occupato da varie associazioni di sacerdoti, tra le quali il collegio dei canonici, con a capo un «cimiliarca», e il collegio degli «ebdomadari», coordinati da un primicerius.
Sono testimoniati anche gli archipresbiteri, i protolustri, i paramoneri e i canonarchi.
Essenziale fu l’opera dei monaci, che furono in grande numero, considerando la lista notevole di monasteri cittadini, urbani ed extramurari.
Ai vari ordini monastici appartennero i diaconi, radicati e attivi in specifiche diaconie, e l’arcidiacono, introdotto a Napoli almeno dal VI sec., destinato in particolare all’amministrazione dei beni ecclesiastici e investito della custodia dei codici della Chiesa e della vigilanza sul clero inferiore.
Forse a Napoli ci furono anche diaconesse; delle matrone Vitalia e Cerula sono state identificate le sepolture nelle catacombe di San Gennaro: i loro «ritratti» (V-VI sec.) presentano come significativi attributi simbolici i quattro Vangeli e la croce monogrammatica sulla testa.
I santi e la liturgia - Gli antichi dèi patri vennero lentamente soppiantati dal cristianesimo a partire dal IV . e in breve tempo i luoghi del culto pagano furono sostituiti dalle chiese.
Tra i santi venerati vi furono alcuni vescovi della città, come Agrippino e Severo.
Il megalomartire di Napoli fu però san Gennaro; vescovo di Benevento, fu decapitato insieme ad altri a Pozzuoli nel 305.
Nel VI . fu scelto come patrono della città; con lui furono venerati i suoi compagni di martirio: Festo e Desiderio di Benevento, Proculo, Acuzio ed Eutiche( te) di Pozzuoli, Sosso di Miseno.
Altri santi campani nel calendario di Napoli furono Castrese di Castelvolturno, Elpidio di Atella, Felice e Paolino di Nola, Fortunata di Patria, Giuliana e Massimo di Cuma, Adiutore, Nicandro e Prisco di Capua (o di Nocera), Renato di Sorrento, Vitaliano di Caudium.
Molti altri furono «adottati», nel senso che furono considerati dei concittadini: Quodvultdeus di Cartagine, Gaudioso di Abitine e i suoi compagni, l’abate Habetdeus, Adriano e Patrizia, Severino del Norico e l’africana Restituta, le cui spoglie furono traslate in città da Ischia alla fine del V . Ovviamente si ebbe molta devozione anche per i santi della Chiesa universale: Pietro, Paolo, Lorenzo, Stefano, Giovanni il Battista, Agostino, Cipriano, Filippo e Giacomo, Andrea e gli evangelisti, Mauro e Policarpo.
Riguardo alla liturgia, malgrado le cerimonie cristiane abbiano sostituito presto anche a Napoli i culti antichi, non esistono per i primi cinque secoli fonti dirette per riprodurre la struttura delle funzioni, così la definizione degli usi liturgici risulta molto frammentaria.
Solo agli inizi del VII . risalgono alcuni capitularia evangeliorum contenuti nell’evangeliario di Lindisfarne e in quello di Burckhard di Würzburg.
Queste fonti permettono di ricostruire consuetudini oramai mature; la liturgia napoletana appare conforme a quella che si celebrava ai tempi di Gregorio Magno e presenta corrispondenze con gli altri riti italiani, con il gallicano e con l’ispanico (o mozarabico).
Certe particolari usanze cultuali sembrano invece attestate in città fino a epoca tarda; tra esse quelle dell’incubazione e del refrigerium.
La prima fu messa in pratica nel VII . presso la tomba e il cubicolo di san Gennaro e nell’oratorio di Sant’Agrippino, ma forse anche in prossimità del sepolcro di san Severo, della tomba di san Gaudioso e nel recinto di altre chiese importanti all’interno delle mura.
Il refrigerium ha prove sicure (V-VI sec.) nei diversi cimiteri della città.
Eresie - Alle soglie del IV . il paganesimo sopravviveva in città soltanto nelle sue forme esteriori e formali, dunque il cristianesimo poté affermare e diffondere i suoi insegnamenti senza ostacoli.
Non pare che si siano mai avuti riflessi significativi delle più antiche questioni dottrinali, come lo gnosticismo e il montanismo.
Forse la comunità napoletana manifestò «autonomia» teologica solo nella disputa sulla poenitentia secunda, come dimostra la scena ispirata al Pastore di Erma riprodotta nelle catacombe di San Gennaro.
Se la questione donatista non ebbe in città nessuna eco rilevante, mentre è noto che prima Costantino, poi papa Milziade (e dopo di lui Silvestro) sollecitarono direttamente l’intervento nella polemica ecclesiastica dei vescovi campani Proterio di Capua e Teofilo di Benevento, invitandoli al concilio Lateranense del 313, l’episcopato napoletano non rimase estraneo alle contese ariane, alle quali presero parte anche le Chiese di Capua e Benevento, oltre a vari altri vescovi di sedi campane rimaste senza nome o ipotetiche, come Calepodio, Marcello, Desiderio, Massimo, Rufinino.
Anche il pelagianesimo ebbe una certa diffusione.
In Campania Giuliano, vescovo di Aeclanum (oggi Mirabella Eclano), si era rifiutato di sottoscrivere contro questi eretici la condanna preparata a Roma da papa Zosimo e, prima di essere esiliato, aveva approfondito sul piano etico il principio base della teologia di Pelagio: la natura e la bontà della sensibilità e quindi del matrimonio.
Qualche decennio più tardi un altro esule aveva diffuso nella regione le sue idee, Floro.
Allora il vescovo di Napoli Nostriano, preoccupato della situazione e sollecitato da Quodvultdeus, mandò il proprio fratello e un gruppo di altri preti della città a smascherare l’eretico.
Nell’opera Promesse e predizioni di Dio il presule cartaginese, che a seguito delle persecuzioni vandaliche era profugo a Napoli, diede una precisa narrazione degli avvenimenti.
L’iconoclastia, infine, ebbe forti risonanze sulla Chiesa di Napoli.
Secondo le precise e un poco concitate affermazioni delle Gesta, già durante l’episcopato di Calvo (morto nel 762) vi erano stati tentativi di imporre in città la disposizione bizantina che proibiva le immagini.
La risoluzione, che permetteva senza compromessi l’adesione di Napoli alla politica orientale o a quella romana, fu nuovamente messa in opera, questa volta con successo, durante l’episcopato di Paolo II (762-766); egli fu confinato nelle catacombe di San Gennaro per due anni.
Tuttavia, dopo che fu riammesso in città, la Chiesa di Roma non ebbe altre difficoltà ad affermare il suo primato sulla Chiesa napoletana.
I monumenti antichi - Se il centro della Neapolis greco-romana fu il foro, il fulcro della vita cittadina dal IV . in poi divenne la sede del vescovo, o meglio, il complesso di edifici che formavano l’insula episcopalis.
Tra di essi vi era la basilica costruita da Costantino, che le fonti menzionano con diversa dedica al Salvatore o agli Apostoli, e dedicata dall’VIII-IX . a santa Restituta.
Una seconda basilica fu fondata da Stefano I alla fine del V sec.; intitolata al Salvatore, dal nome del suo committente fu chiamata «Stefania».
Faceva parte del complesso degli edifici anche il battistero di San Giovanni in Fonte; ideato nell’età costantiniana, fu costruito da Severo che ne abbellì la volta con splendidi mosaici.
Fu ristrutturato durante l’episcopato di Sotero (465-486).
Altri importanti poli cultuali in città furono la basilica Severiana o di San Giorgio, fondata da Severo quasi al centro della regione furcillense; la chiesa di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta, completamente rifatta nel XVII sec., attribuita all’episcopato di Pomponio (512/513-540); la basilica di San Lorenzo Maggiore, eretta al tempo di Giovanni II (535-555).
Numerosi furono i monasteri; quello fondato nel castrum Lucullanum, nella cittadella sorta intorno alla tomba di San Severino e attiva fino al 902, con l’abate Eugippio raggiunse livelli culturali e intellettuali riconosciuti universalmente.
Nell’area suburbana il complesso cimiteriale di San Gennaro ampliò e collegò piccoli cimiteri privati; raggiunse così una notevole estensione.
Dal V al IX . godette il periodo di maggiore vitalità; tre scale collegavano i due piani e permettevano ai pellegrini l’introitus ad martyres, vale a dire l’accesso alle tombe di san Gennaro e sant’Agrippino e a quelle dei vescovi deposti nel cimitero.
Tagliando un segmento del cimitero fu edificata la basilica di San Gennaro extra-moenia, tra il V e il VI . Infine, nel piano inferiore, già dal IV . era in funzione la basilica di Sant’Agrippino, un raro esempio di chiesa ipogea, cavata nel tufo.
Dalla basilica di Santa Maria della Sanità si accede alla catacomba di San Gaudioso, il secondo cimitero cristiano di Napoli per ampiezza e rilievo.
La catacomba trae il nome da Settimio Celio Gaudioso (V sec.), vescovo di Abitine, una località africana non identificata.
Nella basilica di San Severo alla Sanità, prospiciente la piazza, si trova la catacomba omonima (IV-V sec.).
Dell’edificio non rimane che il titolo, poiché è stata trasformata più volte.
Gennaro A.
Galante, che scavò il cimitero nel 1867, sostenne che l’abside della chiesa fu costruita direttamente in corrispondenza della tomba del vescovo.
Diversamente dalle altre, la catacomba di Sant’Eufebio, o Efebo, (V sec.) fu scavata sul versante di Capodichino, alle pendici del monte Lanzata, in una zona a cavaliere tra gli Ottocalli e il pendio di Santa Maria degli Angeli alle Croci.
Fu ritrovata da Antonio Bellucci nel 1931, ma rimane poco dei vani cimiteriali antichi; il suo ingresso è dall’attuale chiesa di Sant’Eframo o della Immacolata Concezione.
II - Età medievale
Notevole e significativa appare la continuità della diocesi napoletana durante l’alto Medioevo, pur nella contemporanea crisi dell’organizzazione urbana tardo-antica delle Chiese del Mezzogiorno, nonostante cioè quei fenomeni profondi e diffusi di decremento demografico e di dissesto delle strutture istituzionali, sociali e religiose facenti capo alle città, che la storiografia ecclesiale spesso ancora riconduce esclusivamente agli effetti della guerra greco-gotica (535-553) e dell’invasione dei longobardi (568), ma di cui gli studi medievistici oggi hanno individuato già in precedenza la natura in realtà «interna» a gran parte del mondo romano d’Occidente.Diversamente dalle regioni a dominazione longobarda e a prevalente cultura latino-germanica, appunto, le aree bizantine meridionali – e Napoli fra queste – mostrano, piuttosto, la persistenza relativamente stabile della forma tardoantica di ordinamento episcopale monarchico e cittadino delle chiese: eletti dal clero e dal popolo diocesani, i vescovi in ogni caso si rivelano espressione delle famiglie urbane dominanti, nonché direttamente soggetti al controllo dei rappresentanti di Costantinopoli; quand’anche la diocesi non sia governata, anzi, da membri di quegli stessi gruppi parentali da cui provengono i duchi imperiali.
È del resto una solidarietà di ruoli civili e religiosi, all’interno delle istituzioni cittadine, che non manca di riflettersi, nel lungo periodo, pure su piani differenti quali quello economico e/o militare e che, perciò, richiede necessariamente una «comprensione » storiografica non anacronistica ma, in primo luogo, di tipo «globale».
Così, secondo il tardivo autore anonimo (metà IX sec.) della prima parte del cosiddetto Liber pontificalis della Chiesa di Napoli (che gli editori sette-ottocenteschi hanno intitolato nell’insieme Chronicon episcoporum ecclesiae Neapolitanae o Gesta episcoporum Neapolitanorum), quando Giovanni I, duca di Napoli, verso il 716 si accinse al recupero armato del castrum di Cuma, sottrattogli «a tradimento» dal duca di Benevento, l’allora presbitero e futuro vescovo Sergio «si presentò a benedire le truppe.
Ascoltate le preghiere, il duca, mentre era in cammino, fece questo voto: “Se con l’aiuto di Dio condurrò a termine favorevolmente l’impresa rioccupando il castro, e sarò ancora in vita, alla morte del pontefice di Napoli ordinerò vescovo quel prete”» ciò che puntualmente si verificò di lì a poco.
Non è, questo, solo il documento della consapevolezza culturale di un’interazione strettissima fra sacerdotium e potere, e l’attestazione di quanto – come ha scritto Nicola Cilento – «ogni spedizione militare si avviasse con il crisma della benedizione sacerdotale impartita alle milizie combattenti»: in realtà vi si svela anche l’orizzonte ideale e pratico del condizionamento che ne conseguiva per la vita interna della Chiesa locale e per l’organizzazione cittadina della cura d’anime, vale a dire il limite fino al quale, a Napoli, il titolare dell’autorità ducale potesse o effettivamente «si fosse arrogato la prerogativa di designare la persona del vescovo ».
Tali peculiari dimensioni ancora urbane della Chiesa partenopea, pur durante i secoli centrali del Medioevo italiano, fanno sì che essa non risulti né una semplice manifestazione locale della «Chiesa dell’impero », come avviene per gli episcopati d’Oriente, e neppure la posta in gioco particolaristica di mere «lotte domestiche», come appare per le diocesi dei vicini principati longobardi, dove prevale invece il «sistema» ecclesiale della privatizzazione (Eigenkirche), specie considerando il «sorgere di un gran numero di oratori di fondazione laicale, nati dall’esigenza di garantire alle popolazioni rurali una qualche forma di assistenza religiosa, ma sottratti alla dipendenza sia della chiesa battesimale sia dello stesso vescovo» (Vitolo).
A Napoli, viceversa, l’esercizio e il prestigio della funzione episcopale restarono pressoché ininterrotti, grazie anche agli efficaci e costanti rapporti mantenuti con la popolazione urbana: soprattutto dopo la scomparsa delle istituzioni curiali romane, infatti, la società napoletana «esprime, attraverso la partecipazione alle vicende della Chiesa cittadina, la sua autocoscienza » (ivi), complicando di conseguenza in modo decisivo la «dialettica» fra vescovi e duchi.
Come si vede, in particolare, al tempo della coincidenza di tali due cariche, dal 766, nella persona di Stefano (non l’unico caso di questo tipo, lungo la storia diocesana alto-medievale): alla morte di costui, la duchessa figlia (!) fu costretta proprio dalle ineludibili sollecitazioni del clero e della cittadinanza a designare (!), per l’elezione e la consacrazione canoniche successive, un nuovo vescovo, stavolta però privo di qualunque mansione politico-amministrativa o militare.
Siffatta continuità della vita cittadina e delle connesse istituzioni ecclesiali, malgrado i problemi strutturali che investono l’Occidente, cui si sovrappongono invasioni ed eventi bellici del V-VI sec., ha modo di rendersi evidente, a Napoli, anche sul versante delle espressioni locali del monachesimo.
È possibile anzi affermare che, in quest’ambito, la diocesi ducale mostri senz’altro particolarità ancor più marcate, rispetto invece alla crisi profonda delle antiche forme cenobitiche pre-benedettine registrabile pressoché ovunque, in Italia meridionale – già durante il pontificato di Gregorio Magno, e poi soprattutto nel VII . –, variamente sostituite a quel tempo da esperienze di tipo anacoretico-eremitico.
All’opposto, negli stessi decenni, Napoli si segnala innanzitutto per l’alto numero documentabile di monasteri (secondo solo a Roma), presenti a lungo tanto nell’area interna alle mura, quanto nelle zone extra-urbane più vicine e nelle isole circostanti (Nisida, l’antica Megaride poi intitolata al Salvatore e oggi Castel dell’Ovo, San Vincenzo ora inglobata nel porto).
Si tratta di manifestazioni di vita religiosa talvolta piccole e, comunque, ancora estremamente diversificate durante il VII sec., regolate da una pluralità di normative non sempre poste per iscritto (ma si ricordino le origini della Regula Magistri e la testimonianza di Cassiodoro circa quella cosiddetta di Eugippio), includendo inoltre esperienze di forma eremitica e lavriotica accanto pur sempre a quelle cenobitiche – destinate però queste ultime ad affermarsi definitivamente solo in seguito, per il richiamo esercitato dalla Regula monachorum benedettina, ma anche con il concorso decisivo del papato e delle politiche carolinge.
Soprattutto, una parte molto ampia ricoprirono i nuclei di ascendenza linguistica e liturgica orientale: com’era naturale, del resto, in una città in cui i vari versanti del mondo mediterraneo interagivano durevolmente da vicino, nonostante le numerose, precoci e stratificate ragioni di differenziazione o di conflitto; nel mentre che, osservata senza anacronismi retrospettivi, ovunque nel Mezzogiorno «la stessa vita religiosa in tutte le sue componenti istituzionali e spirituali conservava un carattere tendenzialmente ecumenico, sia pure già pervaso da tensioni sempre più forti» (Vitolo).
La contrazione di tale pluralità di caratteri del monachesimo napoletano, principalmente in termini di rafforzamento del cenobitismo latino e italogreco, nonché la localizzazione in specie urbana degli insediamenti – con l’esaurirsi o il trasferimento dei nuclei più piccoli dalle aree circonvicine – si verificarono poi, in misura significativa, all’incirca dalla fine del X sec.; ciò, tuttavia, non solo per effetto delle incursioni dei saraceni (come spesso affermato dalla tradizione storiografica), bensì anche in conseguenza di processi «interni» quali il venir meno delle vocazioni o gli accorpamenti fra monasteri, fenomeni peraltro di cui si conosce qualche esempio fin dal pontificato di Gregorio Magno.
A Napoli, la stabilità delle istituzioni diocesane e, ancor più, la natura di gran parte della sua vita religiosa secolare o regolare, analogamente a quella di altre aree d’influenza bizantina in Italia, concorrono a spiegare, inoltre, l’aspirazione e i ricorrenti tentativi del patriarcato di Costantinopoli di inserire tale circoscrizione direttamente nell’ambito della propria giurisdizione ecclesiale.
Testimonianza singolare di questo vincolo religioso e politico viene offerta, a suo modo, da un’interpolazione inserita addirittura nel testo del celeberrimo falso noto come Constitutum o Donazione di Costantino (risalente agli ambienti pontifici di metà VIII sec.), aggiunta che risulta però recepita soltanto in alcuni scritti narrativi di area napoletana, quali il cosiddetto «Chronicon» di Santa Maria del Principio o, più tardi, la trecentesca Cronaca di Partenope in lingua volgare: nel IV . l’imperatore Costantino, prima di trasferirsi a Bisanzio per fondarvi la nuova capitale, e nel conferire a papa Silvestro I e ai suoi successori, quindi, ogni autorità civile e religiosa sull’Occidente, avrebbe tuttavia conservato per sé «la cità de Napoli sola, aciò che quando voleva andare in ultra mare et per ritornare a Roma avesse una cità propria, in ne la quale se potesse riposare et stare».
Ma, a fronte delle pretese giurisdizionali bizantine che pure così potevano trovar fondamento, già dagli anni di Gregorio Magno il papato cercò, tuttavia, di conservare il controllo della Chiesa napoletana, in quanto incardinata nella provincia suburbicaria romana, presso il cui metropolita i vescovi suffraganei, una volta eletti, dovevano necessariamente recarsi per riceverne la conferma e la consacrazione sacramentale; prescrizione che però, secondo il menzionato Liber pontificalis di Napoli, solo dalla seconda metà dell’VIII . gli ordinari diocesani di questa città cominciarono a osservare regolarmente, mentre in effetti, nei decenni che precedono l’impero a Oriente di Niceforo Foca (963-969), anche l’episcopato partenopeo risultava, come ricorda Kehr, fra quelli compresi nella giurisdizione patriarcale costantinopolitana.
Perciò, appare evidente che l’istituzione pontificia della metropolia di Napoli – forse già dal 969, e comunque prima del marzo 990 –, cioè a non molti anni di distanza dalla creazione di altre province arciepiscopali sia nei principati longobardi sia nei domini bizantini meridionali, costituiva una misura volta a contenere e controbilanciare l’autorità della Chiesa di Costantinopoli nel Mezzogiorno italiano, rinsaldandovi contemporaneamente la potestà giurisdizionale e sacramentale della Chiesa di Roma sulle diverse diocesi: secondo Giovanni Vitolo, «l’esperienza dei secoli seguenti dimostrerà chiaramente come attraverso i metropoliti il Papato fosse in grado di influenzare le Chiese locali molto più di quanto non potesse fare quando erano formalmente incardinate alla Sede romana, ma sostanzialmente in balia» dei vari gruppi di potere locali.
Infatti, all’istituzione della nuova provincia ecclesiastica si accompagnava, necessariamente, la riorganizzazione non semplice delle diocesi divenutele suffraganee, che alla fine risultano, nel XII sec., quelle di Cuma, Nola, Pozzuoli, Acerra, Ischia e Aversa.
Ma il contenimento effettivo e poi il sostanziale esaurirsi dell’influenza di clero e monachesimo italo-greci, con l’affermazione definitiva del primato ecclesiale romano – a Napoli come nel resto dell’Italia meridionale – saranno, comunque, il risultato di un processo molto più lungo e complesso, da identificare con i mutamenti profondi introdotti nella cristianità occidentale e nelle sue istituzioni a cominciare dall’età della cosiddetta «riforma gregoriana» (rivendicazione della «libertà» della Chiesa, fondazione di nuovi ordini religiosi centralizzati, sviluppo del centralismo monarchico pontificio...).
Ciò che, per l’antica diocesi partenopea, significherà ora farsi carico anche di ruoli, tensioni e conflitti interni ed esterni del tutto nuovi, quelli cioè propri della città che diventa capitale di un Regnum sottoposto in via di diritto, per investitura feudale, alla signoria dello stesso vicarius Christi.
III - Epoca moderna
Il territorio dell’arcidiocesi rimase quello dell’età precedente; non così la sua popolazione, che si moltiplicò a dismisura con l’accrescersi della capitale a partire soprattutto dal Cinquecento.La peste del 1656 fece centinaia di migliaia di vittime, ma la ripresa non tardò a riempire i vuoti.
La crescita riguardò anche i luoghi sacri, un fenomeno che nel Settecento costrinse le autorità ad arrestare l’edilizia conventuale e a sbloccare quella civile.
Gli arcivescovi di questi tre secoli passarono dalla non residenza del primo Cinquecento a un tipo di vita in cui le decisioni di Trento lasciarono il segno, anche se la presa di coscienza che ne fu alla base non indusse tutti a dare il meglio di sé.
Il percorso fu inaugurato dalla dinastia episcopale dei Carafa.
Il suo primo rappresentante, il cardinal Oliviero, lascerà ai posteri lo splendido succorpo del duomo.
L’arcivescovo Francesco legò invece il suo nome alla preziosa visita pastorale del 1542-1543.
I tempi tridentini saranno infine avviati, a parte i molti lasciti del futuro Paolo IV, dalle incisive iniziative del giovane cardinale Alfonso (visita pastorale e sinodo del 1565) e da quelle dell’arcivescovo Mario (prosecuzione dei sinodi diocesani, concilio provinciale del 1576, fondazione del seminario, riforma dei canonici).
Gli arcivescovi di fine secolo – Paolo Burali d’Arezzo, Annibale di Capua e Alfonso Gesualdo – si occuparono in particolare della riforma dei monasteri di clausura imposta da Sisto V e della ristrutturazione delle parrocchie, la seconda delle quali condotta in porto dal terzo.
Nel Seicento il cardinale Ascanio Filomarino, a parte suoi sette sinodi e la riforma delle monache, dovette misurarsi con la rivoluzione di Masaniello (1647) e la peste del 1656; fu sotto il suo governo che nacquero le Apostoliche missioni, la principale organizzazione missionaria di Napoli.
Innico Caracciolo diede un nuovo impulso alla diocesi con una visita pastorale, due sinodi diocesani e la chiamata in città dei lazzaristi, cui venne affidata la formazione degli ordinandi, tutte iniziative che la parentesi di Antonio Pignatelli (poi Innocenzo XII) saprà valorizzare a dovere.
Giacomo Cantelmo, con il sinodo del 1694, il concilio del 1699 e la nuova ratio studiorum del seminario, infine, pose tutte le premesse per quell’aureo periodo pastorale che Napoli vivrà nel Settecento.
Purtroppo non fu in grado di percepire l’iter della nuova cultura emerso con il processo agli ateisti, il che gli impedì di sbarrare la strada all’incipiente anticurialismo.
L’arcivescovo Francesco Pignatelli (†1734) ebbe il merito di tenere il sinodo diocesano del 1726 che, se operò una salutare revisione della pastorale, non fu in grado di evitare lo scontro con i laici al governo e la sua radicalizzazione, alimentata da quanti si ispiravano a Giannone e alla sua Istoria civile.
L’apice della pastorale sarà raggiunto con le iniziative dell’arcivescovo Giuseppe Spinelli (visita pastorale, direttive ai parroci, incremento dei seminari) e grazie a uomini quali il beato Gennaro Sarnelli e sant’Alfonso de Liguori, nonostante il fatto che il concordato del 1741 restringesse le iniziative della sua curia.
Le dimissioni cui fu costretto apriranno la strada ad Antonino Sersale, cui toccò la non facile gestione della carestia del 1764.
Egli non fu però in grado di incrociare il cammino di un Antonio Genovesi.
Gli successe Serafino Filangieri, cosa non ben accolta da sant’Alfonso.
Giuseppe Capece Zurlo si distinse per le sue iniziative catechetiche, ma dovette misurarsi, quando ormai era già vecchio, con le ripercussioni a Napoli della Rivoluzione francese.
L’arcidiocesi contò molto in questi secoli sul seminario locale, eretto nel 1568.
Inizialmente però le varie difficoltà dell’istituto e l’ospitalità data in esso anche a chi non era incamminato al sacerdozio non facilitarono la preparazione di quel ricambio del clero che gli era stato assegnato.
Il suo primo frutto maturo fu il canonico- teologo Giulio Cesare Mariconda, tamquam oraculum consultus.
A dargli lustro furono nel Seicento Gennaro e Giuseppe Crispino, autore, il secondo, del famoso Trattato della visita pastorale (Roma 1695).
Non meno incisiva fu l’opera di Carlo Maiello, cui era stata affidata la ristrutturazione delle scuole.
Queste, grazie a lui, verranno aperte all’insegnamento laico e permetteranno al seminario di divenire anche un autorevole centro di studi umanistici.
Nel Settecento un suo docente, il capuano Alessio Simmaco Mazzocchi (†1771), divenne il punto di riferimento obbligato della cultura ecclesiastica napoletana del tempo.
Nello stesso secolo l’arcivescovo Spinelli creò il seminario diocesano riservato al clero dei casali, mentre al precedente istituto restò il ruolo di seminario urbano, cui rimase affiancato un prestigioso liceo arcivescovile.
L’arcivescovo Sersale aprì poi un terzo seminario che avrà il nome e il carattere di «convitto».
Le parrocchie si adegueranno con relativa lentezza e alcuni limiti ai grossi cambiamenti che la città avvertì nel corso del Cinquecento.
Quelle urbane, limitate a diciannove fino alla riforma Gesualdo, nel 1597 passarono a trentasette, cifra che nel 1792 fu portata a quaranta.
La cura dell’area extraurbana, esercitata inizialmente in ventinove chiese raggruppate nei tre terzieri di Torre del Greco, Afragola e Capodimonte – sedi del rispettivo arciprete – fu ripartita in quarantuno parrocchie, richieste soprattutto dai laici della zona vesuviana, la più soggetta a incremento demografico.
Con l’andare degli anni anche il sistema di nomina dei parroci migliorò, passando dalla concezione puramente beneficiale a quella prevalentemente pastorale.
Dallo scorcio del Seicento in poi, inoltre, parroci e sacerdoti inserirono nei loro programmi di vita la direzione spirituale e la meditazione.
Anche le iniziative per l’istruzione elementare e religiosa della popolazione vennero incrementate.
Nel Settecento i curatori d’anime di Napoli raggiunsero una discreta coscienza dei propri compiti, come dimostra il fatto che non si fecero travolgere dagli avvenimenti rivoluzionari del 1794 e del 1799.
I limiti delle parrocchie napoletane post-tridentine vanno ascritti soprattutto al fatto che le loro ristrutturazioni si risolsero spesso in adeguamenti di facciata, ebbero di mira più il controllo dei fedeli che la formazione delle coscienze (come dimostrò poi la scarsa resistenza critica alla diffusione dell’Illuminismo) e non riuscirono a coinvolgere il numeroso clero extraparrocchiale e quello regnicolo formato da emigrati spinti dal bisogno o dall’ambizione, e riottosi a ogni regola.
La cura d’anime era però effettuata anche in certo modo dai regolari, con le loro chiese, le loro confraternite e le loro devozioni.
La situazione è già delineata per l’intera diocesi nei primi anni Ottanta del Cinquecento in un repertorio curiale, peraltro incompleto, che registra novantadue centri conventuali, settanta dei quali maschili, con prevalenza di francescani, benedettini, domenicani e agostiniani (Strazzullo, 98-102).
Da tenere presente che alcune case appartenenti ai regolari erano centri di studi a livello universitario, alimentavano cioè delle vere e proprie facoltà teologiche.
Tra di esse, San Domenico Maggiore, San Lorenzo Maggiore e Sant’Agostino Maggiore continuavano a essere sostenute finanziariamente dallo Stato, mentre i gesuiti si imposero con il Collegio massimo al Gesù Vecchio.
Occorre tenere presente ugualmente che alcuni religiosi di spicco insegnarono nello Studio pubblico o furono utilizzati in curia dagli arcivescovi, mentre altri ricoprirono posti di responsabilità nell’apparato governativo.
I più assicurarono le confessioni nelle proprie chiese e la predicazione nel regno e fuori di esso.
I conventi operavano anche attraverso i terz’ordini e i nuovi gruppi di laici da essi guidati, alcuni dei quali riservati alle diverse categorie sociali o professionali.
Un posto a sé avevano le famiglie religiose maschili più recenti, per esempio i cappuccini e i teatini, fra esse quelle nate nel Sud, quali i Pii operai e i redentoristi.
I numerosi insediamenti femminili non ebbero a che fare con le stesse vicende.
Ad avere più problemi furono quelli di clausura messi a confronto con le riforme tridentine, sottoposti ai tre visitatori inviati da Sisto V, le cui decisioni produrranno frutti solo ai tempi di Clemente VIII, anche se questi pure avranno i loro limiti.
I monasteri di clausura ebbero anche compiti educativi, sia pure sotto la stretta sorveglianza della Congregazione per i vescovi e regolari; tale ruolo era però affidato soprattutto ai conservatori, governati in genere da terziarie viventi in comunità ma non sottoposte a clausura, per lo più dipendenti dai laici.
Va pure aggiunto che l’attività sociale dell’arcidiocesi fu uno dei settori preferiti dai religiosi (camilliani ecc.) e dalle religiose (maestre pie Venerini…).
Non riuscì invece quella avviata con coraggio nel Seicento da Maria Ward e dalle sue dame inglesi.
La metropoli partenopea di questi secoli è infine inimmaginabile senza il frastagliato mondo delle confraternite, da quelle a carattere devozionale della prima età tridentina (quelle del Santissimo Sacramento e le confraternite mariane) a quelle dedite allora e in seguito all’insegnamento catechetico (le confraternite della dottrina cristiana e la confraternita dei catecumeni) e alle opere caritative.
Se ne avvantaggiarono sia la fascia urbana che quella extra urbana della diocesi.
Si pensi alla Compagnia dei Bianchi della Giustizia, specializzata nell’assistenza ai condannati a morte, e alla Compagnia dello Spirito Santo (settemila soci nel 1563).
Si deve alle confraternite se le principali opere assistenziali di Napoli riuscirono a rimanere solide con l’andare del tempo; a parte infatti il caso settecentesco dell’Albergo dei poveri (che però non avrà molta fortuna) e qualche altro esempio secondario, le opere assistenziali rimasero affidate in tutta l’epoca moderna soprattutto al laicato credente organizzato e non furono mai sostenute direttamente dallo Stato o dalla città, che si limitarono a controllarne la gestione.
Ciò avvenne anche nel caso dell’Annunziata, degli Incurabili, della Redenzione dei Cattivi ecc.
Assimilabili alle confraternite furono i monti e i banchi pii, alcuni dei quali confluiti poi nel Banco di Napoli.
Questo – a parte le corporazioni professionali, esse pure ispirate alla religione – non fu il caso del Pio Monte della Misericordia, sorto ufficialmente nel 1602, che rivestì a lungo, all’interno della nobiltà napoletana, un ruolo trainante con iniziative caritative di varia natura.
L’incertezza nella distinzione dei poteri che caratterizza l’ancien régime produsse anche a Napoli effetti che si tradussero in forzati scambi di ruoli tra Chiesa e Stato, con indebite interferenze reciproche.
Questo nella prima età moderna si avvertì nel netto rifiuto del tribunale inquisitoriale di tipo spagnolo, in seguito nel controllo giurisdizionalistico che lo Stato cercò di imporre su questo o quell’atto della Chiesa.
Alla fine del Seicento il processo agli ateisti fece intravedere che, in materia di controllo delle idee, lo Stato stava prevalendo sulla Chiesa.
I primi macroscopici effetti di un cambiamento di clima si videro agli inizi del Settecento nella reazione laica alla messa all’indice di alcune pubblicazioni, in particolare a quella dell’Istoria di Giannone.
Il resto verrà con l’attacco frontale al sinodo del 1726, l’uso unilaterale del concordato del 1741, la soppressione del Sant’Ufficio locale nel 1746, la traumatica cacciata dei gesuiti nel 1767.
Il governo non seppe però utilizzare al meglio i beni di questi ultimi e le istituzioni da essi lasciate.
Se ci si chiede ora quale fu in età moderna la coscienza cristiana dell’arcidiocesi, non si può che dare una risposta ambivalente: da una parte Napoli presenta tutta una serie di uomini e donne di alto profilo (Maria Carafa, san Gaetano Thiene, sant’Andrea Avellino, Maria Lorenza Longo, Matteo Ripa, Antonio Torres, san Francesco De Geronimo, san Giovanni Giuseppe della Croce, beato Gennaro Sarnelli, sant’Alfonso, santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe ecc.), dall’altra la città colpiva i visitatori per le troppe devozioni, la crassa superstizione, il degrado sociale, compreso il meretricio (una delle industrie più fiorenti e redditizie della città).
Ma allora, ci si chiede, qual era la coscienza cristiana che si aveva? E soprattutto cosa si fece per diradare l’ignoranza e illuminare le coscienze? A Napoli gli sforzi per cambiare le cose non sono mancati.
La catechesi, la predicazione, l’alta cultura religiosa hanno avuto i loro spazi e i loro tempi.
La prima venne messa in programma sia nel sinodo del 1565 che nel concilio del 1576; sarà riorganizzata in seguito alla peste del 1656 e farà un vero salto di qualità, tanto all’epoca di Innico Caracciolo quanto con i catechismi del Settecento.
A specializzarsi in tale settore furono soprattutto le congregazioni sacerdotali, le confraternite, i collegi, le scuole, i conservatori.
Non mancò mai nella capitale la predicazione, sia quella ordinaria che quella dei tempi forti o a carattere missionario, anche se talora ebbe carattere istrionico e insistette troppo sugli aspetti spettacolari e l’ira divina.
Gli studi superiori vennero coltivati sia nei vari Studi generali dei religiosi e nel liceo arcivescovile sia nello Studio pubblico e nelle numerose accademie.
Il fatto è che a far difetto era l’istruzione di base, accanto alla quale si collocavano il provincialismo della cultura e una disarmante apologetica; ciò ovviamente non mette in discussione l’alto livello raggiunto da uomini come Seripando, Genovesi, Mazzocchi, sant’Alfonso ecc.
Napoli ha conosciuto pure forme alternative di religiosità, a cominciare da quella di Juan de Valdés nel Cinquecento a quella che faceva perno sul ripudio della scolastica alla fine del Seicento e a quella che si ispirava al deismo e alla concezione massonica nel Settecento.
Alla variegata coscienza religiosa della città corrisposero atteggiamenti pratici di varia natura nelle diverse componenti della società.
Il clero secolare, tutt’altro che all’altezza del suo compito in base alla visita pastorale del 1542-1543, riuscì, attraverso la formazione seminaristica e le iniziative messe in atto dagli arcivescovi, a raggiungere un livello più che soddisfacente nel Settecento, a parte il clero non in cura d’anime e quello regnicolo; il clero regolare invece – anche se non bisogna dare troppo ascolto alle interessate accuse dei giurisdizionalisti – non riuscì a far emergere tutte le potenzialità di cui sarebbe stato capace.
In parte lo stesso discorso va fatto, pur con eccezioni, per le monache di clausura, le monache di conservatorio e le monache di casa, le cui vocazioni restarono fortemente condizionate dal corto respiro delle riforme attuate tra Cinquecento e Seicento e dalla concezione che si aveva della donna nell’ancien régime.
Quanto al laicato, occorre distinguere tra chi riusciva attraverso alcuni strumenti offerti dall’epoca (visite al Santissimo, cappelle serotine, via crucis, rosario, apparecchi alla morte, culto a Gesù Bambino, sostegno convinto alle opere pie ecc.) a indirizzare in forma più o meno ottimale il proprio rapporto con Dio, e chi metteva insieme tranquillamente il vizio e la religione e anzi profittava della seconda per alimentare il primo.
IV - Epoca contemporanea
L’inizio della storia contemporanea dell’arcidiocesi di Napoli si può far coincidere con l’avvenimento più ampio della rivoluzione del 1799, che diede vita alla breve ma significativa stagione della Repubblica partenopea.La Chiesa, allora, dovette registrare, suo malgrado, le istanze di politica ecclesiastica del nuovo governo, tendenti a una rigida separazione tra lo Stato e la Chiesa da una parte, e, dall’altra, a forme di controllo dell’attività ecclesiastica che rispecchiavano le forme più forti del giurisdizionalismo aconfessionale settecentesco.
Era arcivescovo della città, all’epoca dei fatti del 1799, il nonagenario cardinale teatino Giuseppe Maria Capace Zurlo, che non fu in grado di affrontare con adeguata forza l’ondata rivoluzionaria e, pur opponendo resistenza alle eccessive pretese di controllo ecclesiastico manifestate dal nuovo governo, fu costretto ad aderire ad alcune pressanti richieste del regime rivoluzionario e a firmare, tra l’altro, una lettera pastorale che esaltava la libertà, respingendo l’antico connubio fra il trono e l’altare.
Allorché fu soppressa l’esperienza rivoluzionaria – crollata anche per i dissidi interni al governo liberale e per l’applicazione aprioristica di principi francesi a una realtà totalmente diversa, come evidenziava con severa indagine nel suo Saggio storico Vincenzo Cuoco – l’arcivescovo teatino fu allontanato dalla città e al suo posto, con l’accordo di Roma, giungeva il nuovo arcivescovo Luigi Ruffo Scilla, che governò la diocesi fino al 1822.
Fu un periodo complesso e difficile.
Scilla dopo la prima fase di reazione all’esperienza della rivoluzione partenopea cercò di riportare la Chiesa sul sentiero del tradizionale e consolidato rapporto con lo Stato, ma, dopo un iniziale successo, coronato anche da un più rigoroso controllo della Chiesa sulla censura dei libri, dovette affrontare la nuova ondata rivoluzionaria, che diede vita dal 1805 al 1815 al cosiddetto «decennio francese».
In quest’arco di tempo la Chiesa di Napoli, guidata dal vescovo Bernardo della Torre, vide l’applicazione di severe leggi separatiste, l’attenuazione della censura ecclesiastica, l’espulsione degli ordini religiosi e la confisca dei loro beni, e altri tentativi più o meno profondi di secolarizzazione della vita civile.
Quando, per la più ampia situazione europea, il governo rivoluzionario venne meno, il cardinale di Napoli operò in prima linea per la restaurazione dell’antico ordine.
Luigi Ruffo Scilla si preoccupò di ridare alla Chiesa quel ruolo di guida che nel periodo francese era andato smarrito, cercando di rimediare, attraverso vari interventi, alla strisciante secolarizzazione messa in movimento dalla rivoluzione.
Il concordato di Terracina del 1818 sembrava codificare per il Regno delle Due Sicilie tale situazione di «ritorno alla normalità», all’interno della quale, per Napoli, venivano riprese le tradizionali forme di vita religiosa (missioni popolari, festività soppresse, pellegrinaggi), accanto alle quali, tuttavia, andavano a collocarsi anche nuove e significative esperienze, come, a esempio, l’arrivo delle suore della Carità, guidate da santa Giovanna Antida Thouret.
Maturavano intanto nel clero di Napoli alcune personalità che avrebbero arricchito il panorama della Chiesa locale, offrendo esempi di zelo pastorale e dando vita a innovative presenze pastorali, come a esempio il beato Gaetano Errico, che nella critica situazione del casale di Secondigliano avrebbe dato vita ai missionari dei Sacri Cuori di Gesù e Maria.
Dopo la parentesi critica di inizio secolo, Napoli riprendeva, tra l’altro, quella funzione di attrazione per la formazione ecclesiastica e teologica.
Non si era mai interrotta, infine, sul versante femminile, l’esperienza delle monache di casa.
La curia di Napoli aveva il compito di controllare anche altre sfuggenti realtà, che animavano la realtà locale, come le numerose confraternite e congreghe laicali, attive nella gestione di luoghi pii, di opere di beneficenza, di cimiteri ecc., spesso in violazione di norme ecclesiastiche, come mostrano i verbali di santa visita.
La fase di consolidamento dell’antica relazione con lo Stato fu gestita durante il governo episcopale dell’oratoriano Filippo Giudice Caracciolo, già vescovo di Molfetta, che guidò la Chiesa di Napoli dal 1822 al 1844.
Il suo governo servì sostanzialmente a rinsaldare quanto Luigi Ruffo Scilla era riuscito faticosamente a restaurare: si trattò, sinteticamente parlando, di un episcopato di transizione, durante il quale si formarono alcune delle personalità, chierici e laici, che avrebbero avuto un ruolo fondamentale nella seconda metà dell’Ottocento.
Tra questi spicca proprio il suo successore, il nobile Sisto Riario Sforza, che guidò l’arcidiocesi dal 1845 al 1877, trentadue anni che videro trasformazioni epocali nell’assetto socio-politico di Napoli e del Mezzogiorno.
Quando vi giunse, la Chiesa di Napoli era ormai vacante da circa due anni.
Avviata l’opera di consolidamento delle strutture istituzionali della diocesi, con una particolare attenzione al seminario e alla formazione permanente del clero, la pubblicazione di lettere e notificazioni pastorali, le visite alle chiese e ai luoghi pii, la vigilanza sui monasteri femminili che rientravano sotto la sua giurisdizione, la riforma della curia e degli uffici a essa annessi, il riordinamento dell’archivio storico, la peculiare sensibilità al riconoscimento della santità attraverso l’istruzione di processi di beatificazione e canonizzazione, l’attivazione di confraternite laicali per l’assistenza dei poveri, Sisto Riario Sforza seguì attentamente anche l’evolversi delle manifestazioni politiche e sociali e mostrò una guardinga vigilanza verso le espressioni del pensiero moderno.
Egli si muoveva sulle precise indicazioni del magistero papale di Pio IX, che accolse a Gaeta esule da Roma e ospitò a Portici durante l’esilio.
Nel corso del 1850 il cardinale diede solenne inizio anche alla visita pastorale, le cui coordinate fondamentali erano sintetizzate in una istruzione molto dettagliata e precisa: egli, anche a causa degli eventi del 1860-1865, non riuscì a portarla a termine, ma i quindici grossi volumi manoscritti, conservati nell’archivio storico diocesano di Napoli, dimostrano l’intensità dello zelo e della fortezza con cui essa fu portata avanti dall’arcivescovo napoletano.
Il «funesto dissidio» tra Stato unitario e Chiesa prese consistenza a Napoli sin dai primi giorni della instaurazione del governo dittatoriale.
Costretto due volte all’esilio dalla sua diocesi, il cardinale dovette assistere da lontano e combattere anche contro il cedimento di alcuni ecclesiastici al regime liberale.
Tra essi spiccano i vescovi Michele Caputi di Ariano, Gennaro Di Giacomo di Alife e il cardinale Girolamo D’Andrea: a Napoli agiva, peraltro, il battagliero gruppo dell’«Emancipatore Cattolico », fondato nel 1862 dal domenicano Luigi Prota-Giurleo presso il convento di San Domenico Maggiore.
Rientrato dall’esilio il 6 dicembre 1866, il presule sviluppò numerose opere di carità e strinse relazioni con alcuni ordini religiosi che, attenuatasi la vigilanza delle autorità di governo, silenziosamente si andavano ricostituendo in diocesi; nello stesso tempo appoggiava con forza, tra le altre, le iniziative di Ludovico da Casoria e Caterina Volpicelli, contribuendo in modo decisivo al rinnovamento della vita religiosa nel Mezzogiorno d’Italia.
Nel giugno 1872 l’arcivescovo, per primo in Italia, sollecitò l’impegno politico-amministrativo dei cattolici, dando vita a un raggruppamento elettorale, la cosiddetta «lista del cardinale», che portò al municipio di Napoli molti suoi esponenti.
Fu il primo passo verso quell’impegno municipalistico dei cattolici italiani che, rispettando il non expedit relativo alle elezioni politiche, rappresenta una pagina fondamentale nella storia del cattolicesimo italiano in epoca contemporanea.
Toccò al suo successore, in particolare, il cardinale Guglielmo Sanfelice, espressione dell’ala progressista di quel mondo benedettino, che nella seconda metà del XIX . diede illustri vescovi al Mezzogiorno, operare una ricucitura sul piano della vita civile e sociale a Napoli; un recupero, comunque, non immune da critiche e dissenso da parte delle autorità romane, ma irrealizzabile senza la partecipazione e il consenso di quel clero dotto e zelante, curato amorevolmente e personalmente dal cardinale Riario Sforza.
Durante il governo del Sanfelice si celebrarono due sinodi diocesani (1882 e 1888), fu effettuata una visita pastorale, si ridisegnò la mappa dell’organizzazione parrocchiale, molte esperienze di impegno apostolico giunsero a maturazione sul piano della vita religiosa, con la creazione di numerose nuove famiglie, soprattutto femminili, tra cui si possono ricordare le suore crocifisse adoratrici dell’Eucaristia, fondate da Maria Pia Notari, o le suore adoratrici della Santa Croce fondate da Maria Luigia Velotti del Santissimo Sacramento.
L’arcivescovo rilanciò il culto mariano e quello a san Gennaro, vigilò attentamente alla giurisdizione della curia sulle aree cimiteriali e sulla regolamentazione delle licenze per edificarvi le cappelle, seguì i problemi del lavoro, cercò con molta difficoltà a causa delle resistenze opposte soprattutto dai parroci, di diffondere l’associazionismo cattolico dell’Opera dei congressi, facendo celebrare a Napoli il congresso del 1883.
Dopo il brevissimo episcopato di Vincenzo Maria Sarnelli, già vescovo di Castellammare di Stabia, che stette sulla cattedra di Sant’Aspreno solo per pochi mesi (1897-1898), la Chiesa di Napoli fu guidata per lungo tempo da Giuseppe Prisco (1898-1923), studioso di filosofia neotomistica e allievo di Gaetano Sanseverino.
Uomo del suo tempo, pienamente partecipe delle tensioni, paure, aspirazioni di un’intera generazione di vescovi del Mezzogiorno che dovettero confrontarsi tra l’altro con il modernismo e la prima guerra mondiale, con il cardinale Prisco si percepisce chiaramente una progressiva attenuazione della centralità di Napoli come punto di riferimento dell’episcopato meridionale: in questo calo di prestigio un ruolo non secondario sembra abbia giocato proprio la sua personalità, di studioso più che di pastore, caratterialmente portato più alla riflessione che all’azione in una diocesi difficile e complessa come quella napoletana.
L’ampiezza e la capacità organizzativa dell’intervento caritativo della Chiesa napoletana, il radicamento sul territorio di culti e pratiche liturgico-religiose consolidate, la riproposizione dei mezzi visibili della salvezza attraverso la necessaria mediazione della Chiesa, l’ampia diffusione della stampa cattolica, l’impegno catechistico e varie pubbliche manifestazioni dei cattolici, si accompagnarono a una scarsa capacità di percezione dei nuovi bisogni della diocesi, con una accentuata subordinazione e una limitata visibilità del laicato e una sostanziale impreparazione alle inaudite «sfide» della laicizzazione della società.
Scomparso il novantenne presule il 4 febbraio 1923, divenne arcivescovo l’ormai settantatreenne monsignor Michele Zezza, già coadiutore di Prisco e vescovo di Pozzuoli, che ereditava una critica situazione, tra cui le difficoltà economiche del clero secolare e un’insufficiente organizzazione parrocchiale, con riscontri negativi nella disciplina del culto esterno, peraltro diffusi ben oltre i confini dell’arcidiocesi napoletana, come aveva a esprimersi l’episcopato campano nella lettera pastorale collettiva dell’8 settembre 1923.
Il progetto pastorale di Zezza, delineato nella lettera programmatica del 27 maggio 1923, era incentrato su temi rispondenti alle indicazioni pastorali del nuovo pontefice Pio XI.
In particolare, di papa Ratti il nuovo arcivescovo di Napoli sottolineava con vigore la necessità di incrementare numericamente il clero e lo sviluppo dell’Azione cattolica.
Proponeva ancora la necessità primaria della formazione alla vita cristiana, specialmente in considerazione della scarsa incidenza della fede nel tessuto sociale, e la riproposizione della predicazione, delle missioni di penitenza, dell’insegnamento del catechismo cattolico.
Zezza, che aveva preso possesso della sede arcivescovile di Napoli il 3 giugno, avrebbe rinunciato alla diocesi per motivi di salute dopo appena sei mesi.
Il 3 gennaio del 1924 veniva nominato amministratore apostolico della diocesi di Napoli l’arcivescovo di Benevento Alessio Ascalesi, che aveva allora cinquantadue anni; avrebbe governato la diocesi fino al 1952.
È difficile tentare un bilancio, seppure provvisorio, del quasi trentennale governo di Ascalesi; mancano ancora, infatti, studi convincenti e risulta ancora inaccessibile il relativo fondo archivistico presso l’archivio diocesano.
I primi parziali tentativi di sintesi offrono l’impressione – rispetto a Prisco – di una più accentuata sensibilità agli avvenimenti sociopolitici che rapidamente si susseguirono nella Napoli tra le due guerre e nel secondo dopoguerra, anche se è possibile, contemporaneamente, riscontrare una certa continuità nel distacco tra la curia e la città, già emersa con i suoi predecessori; continuità anche nell’analisi tutta religiosa dei problemi sociali e nella proposizione dei mezzi, ormai inadeguati, che si indicavano per la ricerca di una soluzione globale.
Nella sua azione di governo il cardinale Ascalesi prese posizione contro i protestanti della casa materna di Portici e contro la Chiesa metodista, cercò di riorganizzare le associazioni cattoliche di beneficenza facendo leva sulle conferenze di San Vincenzo, sull’Opera delle cucine economiche, ovvero su nuove esperienze di vita religiosa, come le Piccole Ancelle di Cristo Re, fondate dal minore Sosio Del Prete e da suor Antonietta Giugliano ad Afragola, che si interessarono in particolare dell’assistenza agli anziani abbandonati.
Attento alla problematica dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari, egli rivolse le sue cure anche agli studenti universitari che confluivano a Napoli da varie province meridionali, aprendo pensionati maschili e femminili e affidando a monsignor Eduardo Fabozzi nel santuario di Santa Maria della Pazienza alla Cesarea la guida della formazione universitaria.
Nel 1932 convocò il concilio plenario campano: la normativa conciliare, applicata a Napoli, diede vita a una riorganizzazione della diocesi, con l’erezione di 129 nuove parrocchie, la costituzione di un consiglio di vigilanza sulle numerose confraternite, il rilancio dell’opera del catechismo affidato a monsignor Alfonso Ferrandina.
Alessio Ascalesi si preoccupò della diminuzione dei sacerdoti; rivolgendo una particolare attenzione al seminario, costruì sulla collina di Capodimonte il nuovo seminario maggiore, che oggi porta il suo nome; il vecchio edificio di Donnaregina fu destinato a sede del seminario di Sant’Aspreno per i chierici poveri; istituì le due facoltà teologica e giuridica, assegnando borse di studio agli studenti più meritevoli, inviati a completare la propria formazione anche a Roma.
La diocesi fu impegnata a sostenere l’Opera per le vocazioni ecclesiastiche, incrementando l’assistenza ai preti poveri e anziani, sfociata nella Charitas sacerdotalis.
Ostile alla secolarizzazione della società, condannò le varie forme di malcostume nella moda e negli spettacoli, indicando nella famiglia cristiana il freno al decadimento morale della società: di qui la sua attenzione all’Azione cattolica femminile, che aveva anche una sezione per le universitarie, le quali alla formazione religiosa e morale, agli esercizi spirituali, univano l’approfondimento di temi letterari, filosofici, scientifici, sociali alla luce della dottrina cristiana; rivendicò anche una sorta di femminismo cattolico come fattore di emancipazione della donna e fu sostenuta una molteplice assistenza alle operaie delle cotonerie meridionali, delle manifatture tabacchi, dei laboratori di moda, alle carcerate, alle ex detenute, alle analfabete e alle cameriere slave e friulane.
Questo slancio di iniziative dovette attenuarsi dopo la crisi del 1931 con il regime.
Sul tema della moralità intervenne con la Lettera pastorale dell’Episcopato della Campania per la quaresima del 1937 contro il comunismo: a tutela degli operai venne sviluppata l’Onarmo (Opera nazionale assistenza religiosa e morale agli operai) e l’Opera dei ritiri di perseveranza, che trovò nella Compagnia di Gesù un formidabile sostegno.
Anche durante la seconda guerra mondiale la Chiesa di Napoli si impegnò in varie opere assistenziali: in molte zone della città i ricoveri antiaerei furono utilizzati anche come cappelle provvisorie per la preghiera, la predicazione e talvolta anche per la messa.
Furono mobilitati i sacerdoti giovani che in turni continui si portavano con gli autocarri militari del corpo sanitario sui luoghi colpiti dai bombardamenti per assistere feriti e moribondi.
Nel dopoguerra la Chiesa napoletana giocò un importante ruolo di mediazione con gli Alleati e spesso fu l’organizzazione parrocchiale a razionalizzare e distribuire gli aiuti provenienti dagli Stati Uniti.
L’associazionismo cattolico fu impegnato per far fronte alle nuove esigenze, specialmente a favore dei fanciulli, con centri di refezione, catechesi, doposcuola, attività sportive.
Sorgevano intanto anche nuove istituzioni, quali il Fraterno aiuto cristiano (Fac) di matrice monarchica, le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli), il Centro italiano femminile (Cif).
All’opera assistenziale si affiancò da subito quella di orientamento politico per il referendum del 1946, che provocò anche qualche tensione, e soprattutto per le elezioni del 1948: si tennero, in quest’ultima occasione, varie missioni religioso-sociali per preparare la Peregrinatio Mariae, con il quadro della Vergine di Pompei per le strade di Napoli.
Davanti alla crisi che aveva investito il suo predecessore, con critiche pubbliche e alcuni dissensi interni alla stessa compagine ecclesiastica, il bolognese Marcello Mimmi (1952-1958) – che si imponeva rispetto al naturale candidato alla successione, il vescovo di Pozzuoli monsignor Alfonso Castaldo, coadiutore di Ascalesi – sembrava orientare il suo progetto pastorale in una direzione precisa: sostituire l’universo delle devozioni con quello di una solida religiosità tridentina.
Già arcivescovo di Bari dal 1933, Mimmi conosceva la mentalità meridionale e seppe anche adattarvisi, pur continuando a tenere ferma la bussola del suo governo sui cardini di un modello ecclesiologico, fondato sull’istruzione catechistica, sulla liturgia, sul seminario.
Egli fece della visita pastorale l’evento centrale del suo breve episcopato napoletano.
La intese come un atto di restaurazione dell’istituzione ecclesiastica, dando due anni di tempo per ripulire le chiese, eliminare i sediari, togliere i troppi santi dagli altari, istituire le classi di catechismo, amministrare le cresime, realizzare l’Azione cattolica.
La visita pastorale lo metteva a contatto con una realtà che giudicava in termini fortemente critici: di qui la sua insistenza per il restauro dei luoghi di culto, per il rinnovamento degli arredi sacri consunti, per la costruzione di nuove chiese e di locali e attrezzature per fanciulli e giovani; perciò insistette sulla catechesi, sulla frequenza alla messa, sul senso della comunità parrocchiale.
Mantenendosi distaccato dalla politica locale, al tempo in cui fu sindaco il monarchico Achille Lauro cercò di richiamare continuamente clero e popolo alla centralità religiosa e politica, appoggiando la Democrazia cristiana contro i partiti della sinistra.
Gli otto anni di governo di Alfonso Castaldo (1958-1966), se evidenziano un innalzamento del tenore di vita della città di Napoli, mettono in luce anche una crescita esponenziale dell’ateismo pratico e del laicismo.
Erano gli anni dell’impatto dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, con profondi mutamenti in campo scientifico, economico, politico e sociale.
L’arcivescovo tentò di far sentire la forza della presenza della Chiesa con molteplici iniziative: innanzitutto scelse la strada di una stretta alleanza con il potere politico e, in particolare, con la Democrazia cristiana; cercò di dar vita alla formazione di una classe intellettuale cattolica; pensò a un impegno maggiore nell’insegnamento religioso nelle scuole statali, che si cominciò ad affidare anche ai laici, preparati nella scuola di teologia.
Nel novembre 1959 furono mobilitati il clero e tutte le organizzazione del laicato con la raccolta di firme per un voto da inviare al governo, allo scopo di risanare il costume del popolo italiano e di raccogliere adesioni contro il divorzio.
L’insegnamento religioso fu incoraggiato con la promozione di concorsi per gli alunni.
Fu istituita la scuola di recupero per ragazzi e giovani che avevano abbandonato lo studio, con l’appoggio degli enti locali.
Incoraggiò la stampa cattolica, specialmente «L’Avvenire d’Italia», e rilanciò il settimanale diocesano «La Croce ».
Furono creati centri di valutazione critica dei film e fu diffusa la classificazione morale dei film attraverso la stampa e fogli esposti nelle bacheche delle parrocchie, anche se gli sforzi non ottennero i risultati sperati.
Per dare visibilità alla Chiesa programmò e guidò nelle strade cittadine grandi manifestazioni che avrebbero dovuto coinvolgere l’intero corpo sociale.
Rilanciò, tra l’altro, la processione del Corpus Domini.
Nel 1958, per il centenario delle apparizioni di Lourdes, guidò il pellegrinaggio diocesano e fu lanciata la «crociata del Rosario» per tutta la diocesi.
Nell’aprile 1959 fu portata a Napoli in elicottero la Madonna di Fatima.
Altra solenne manifestazione si ebbe dopo la ricognizione canonica delle reliquie di san Gennaro.
Nel 1965 sostò a Napoli la Madonna di Pompei, di ritorno da Roma, dove l’immagine era stata incoronata da Pio XII.
Tutte queste manifestazioni evidenziavano l’esigenza della Chiesa di manifestare con forza la sua presenza nella società, opponendosi al laicismo: in tal senso anche le attività caritative furono costantemente reclamizzate e accentrate, in modo da offrire l’immagine di una Chiesa forte opposta alla diffusione del socialcomunismo.
L’episcopato del successore, cardinale Corrado Ursi (1966-1987), segna una svolta nella linea del concilio Vaticano II: non è possibile compiere una adeguata sintesi, vista la minima distanza cronologica dai fatti, del suo governo, ma è possibile indicare alcune linee che sembrano averlo caratterizzato.
Innanzitutto l’attività caritativa vista come un atto di giustizia, più che un’alternativa al progetto comunista, con la rivendicazione alla Chiesa di un compito di denuncia dei mali sociali, di sostegno alla promozione dei poveri e, conseguentemente, con un progressivo distacco dal potere politico, necessario per riacquistare quella libertà critica che le avrebbe consentito una nuova presenza nel sociale.
La seconda linea sembra essere quella della pastoralità, di cui la santa visita può essere considerata la manifestazione più ragguardevole: essa si estese alle scuole e alle fabbriche e fu accompagnata da una scheda sociologica per ogni parrocchia, onde evidenziarne il profilo demografico, abitativo, igienico-sanitario, culturale ed economico.
Sul piano della stampa, a «La Croce» si sostituiva «Nuova Stagione»; venne quindi indetto un sinodo che, partito dalla base, si concluse al vertice coinvolgendo tutte le componenti della diocesi.
Fu riorganizzata la curia e ridisegnata la mappa delle parrocchie e infine fu rinnovata la liturgia, incentrata in una religiosità meno devozionale e più fortemente aderente al mistero pasquale.
Venne proposta un’ampia e rinnovata catechesi per la preparazione al battesimo, alla prima comunione, alla cresima, al matrimonio.
Per incrementare le vocazioni furono creati i gruppi Samuel ed Emmaus.
La riforma investì anche la formazione teologica, con la costituzione di un’unica Facoltà teologica dell’Italia meridionale, aperta anche ai laici, con due sezioni: quella di San Tommaso, che ebbe una nuova sede a Capodimonte, e quella di San Luigi a Posillipo tenuta dai gesuiti.
Presso il santuario mariano del Buon Consiglio a Capodimonte fu costituito l’istituto diocesano per la formazione ai ministeri di accolito, lettore e diacono.
L’arcivescovo dovette fronteggiare anche il dissenso da parte di alcuni gruppi di religiosi e laici: variamente articolato e motivato, venne a galla in modo clamoroso allorché il referendum sul divorzio faceva cadere, per chi ancora la coltivava, l’illusione di una radicata religiosità, di un attaccamento alla famiglia, di una società ancora guidata dal clero, aprendo, tuttavia, le porte alla riformulazione di un progetto pastorale della Chiesa nella diocesi più popolosa del Mezzogiorno.
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Diocèse de Napoli
Chiesa di Santa Maria Assunta
Diocèse
SOURCE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.