Diocèse de Pisa
HISTOIRE
I - Le origini
L’origine della Chiesa pisana si confonde con due tradizioni agiografiche, sviluppatesi in periodo medievale, che rimandano all’età apostolica; entrambe testimoniano il forte vincolo con la Chiesa di Roma e pongono l’accento sulle relazioni marittime della città.La prima si riferisce a san Pietro che, proveniente dalla Siria, sarebbe sbarcato alle foci dell’Arno, presso l’attuale San Piero a Grado, intorno agli anni 42-44, prima tappa del suo viaggio verso Roma.
La narrazione non può essere anteriore all’VIII-IX . Una testimonianza molto più antica è offerta dagli scavi archeologici condotti nella basilica di San Piero a Grado, che attestano l’esistenza di un luogo di culto almeno dal IV . e rappresentano finora la più antica testimonianza nel territorio pisano di edifici paleocristiani.
La seconda è quella relativa al martirio di Torpè, un soldato dell’«officium Neronis », narrato da una Passio, composta da un estensore di area pisana nel VI o all’inizio del VII . La testa del martire rimase a Pisa, mentre il corpo, abbandonato su una barca, approdò in Spagna.
La prima testimonianza storica certa è la presenza del vescovo pisano Gaudentius al sinodo romano del 2 ottobre 313, convocato dal papa Melchiade.
Il territorio diocesano coincise inizialmente con il municipium romano.
Il confine settentrionale con Luni si trovava probabilmente al bacino dell’antico lago di Porta, donde proseguiva verso il crinale apuano.
A est il confine con Lucca era costituito dai crinali apuano e del monte Pisano, sino a raggiungere l’Arno all’altezza di Pontedera.
A sud del fiume il confine con Volterra proseguiva lungo il fiume Era, almeno fino all’altezza di Capànnoli, raggiungeva le colline retrostanti Chianni e proseguiva verso il fiume Fine, che segnava il confine meridionale.
Il limite occidentale era il mar Tirreno.
Una ridefinizione dei confini diocesani intervenne quando i longobardi, affacciatisi sul territorio italiano nel 569, intrapresero la conquista della Tuscia.
Pisa, rimasta per alcuni decenni indenne dall’invasione, pagò la sua autonomia con l’amputazione di buona parte del retroterra a favore del Ducato di Lucca.
Il confine settentrionale venne costituito da una linea retta che congiungeva il litorale alle pendici delle Apuane, passando tra la pisana Bozzano e la lucchese Massarosa, ricongiungendosi poi al primitivo confine.
A est, subito dopo la confluenza dell’Era nell’Arno, rimase a Lucca l’area collinare tra l’Era e il bacino della Tora.
A sud passò invece sotto la diocesi pisana il lembo di terra tra i fiumi Fine e Cecina.
II - L’età medievale
Tra i vescovi del primo millennio meritano di essere ricordati Giovanni II (826-858), sotto il cui episcopato venne istituita la vita comune dei canonici presso la cattedrale, Platone (865- 876), già cancelliere dell’imperatore Ludovico II, e Zenobio (930-954), sotto cui fu sancita l’autonomia patrimoniale dei canonici della cattedrale.Con il crescere della potenza marittima pisana, che ne fece uno dei principali protagonisti della storia mediterranea, si sviluppò anche il ruolo della Chiesa e del vescovo.
Nell’ultimo quarto dell’XI . la diocesi pisana assunse una funzione di primaria importanza nella politica pontificia.
Alla fine dell’estate del 1077 papa Gregorio VII incaricò il vescovo Landolfo (1077-1079) della legazia papale nell’isola di Corsica.
Un quindicennio più tardi, il 21 aprile 1092, il pontefice Urbano II sottopose i vescovati corsi alla nuova metropoli di Pisa, il cui vescovo Daiberto (1088- 1105) assunse il titolo di arcivescovo.
Egli ottenne successivamente anche la legazia papale sulla Sardegna e guidò come legato pontificio le centoventi navi pisane che parteciparono alla prima crociata.
Rimasto in Terrasanta, divenne nel 1099 il primo patriarca latino di Gerusalemme.
Dal 1064 iniziarono i lavori di ricostruzione della cattedrale di Santa Maria, consacrata il 26 settembre 1118 da papa Gelasio II, che confermò al vescovo Pietro (1105-1119) la giurisdizione metropolitana sulla Corsica.
Ciò provocò la dura reazione dei genovesi e una lunga lotta armata fra le due città finché papa Innocenzo II promosse la pace di Grosseto del 20 marzo 1133.
Genova ottenne l’elevazione del proprio vescovato ad arcivescovato, cui vennero sottoposte tre diocesi corse e quelle continentali di Bobbio e Brugnato.
A Pisa, secondo la bolla del 22 aprile 1138, all’arcivescovo Baldovino (1138-1145) rimasero gli altri tre vescovati dell’isola (Aleria, Ajaccio e Sagona) e vennero concessi i diritti metropolitani sulle diocesi di Galtellì e di Civita in Sardegna e di Massa Marittima in Toscana, la primazia sulla provincia metropolitana di Torres in Sardegna e venne confermata la legazia in quest’ultima isola.
Successivamente, nel 1176, il pontefice Alessandro III estese la primazia dell’arcivescovo di Pisa Ubaldo (1176-1207) anche sulle arcidiocesi di Cagliari e di Arborea.
Dopo lo scisma del 1130, Pisa si schierò decisamente dalla parte di Innocenzo II, che risiedette a lungo nella città e vi tenne, nel maggio 1135, un concilio.
Il papa promosse la nomina degli arcivescovi Uberto e Baldovino, ambedue già cardinali romani, ulteriore testimonianza dell’importanza della Chiesa pisana, dal cui seno nel corso del XII . uscirono una quindicina di cardinali, tutti di grandissimo rilievo.
Nella seconda metà del XII . la città sposò invece la politica dell’imperatore Federico I, aderendo allo scisma da lui promosso nel 1159.
L’arcivescovo Villano, grande sostenitore di Alessandro III, dovette lasciare la diocesi, ove nel marzo 1167 fu eletto l’antiarcivescovo Benincasa, e poté rientrarvi solo nel 1170.
Il 17 dicembre 1187 morì a Pisa papa Gregorio VIII e due giorni dopo fu qui eletto il successore Clemente III, che bandì la terza crociata.
A essa i pisani parteciparono con cinquanta navi, guidate dall’arcivescovo Ubaldo.
All’adesione pisana alla politica dell’imperatore Federico II si deve nel 1241 l’attacco alle navi genovesi che trasportavano a Roma i prelati convocati al concilio: in seguito a ciò papa Gregorio IX colpì la città con scomunica e interdetto, tolti soltanto nel 1257 per la mediazione dell’arcivescovo eletto Federico Visconti (1253-1277).
Di questo presule è pervenuta la raccolta dei sermoni.
Il successore Ruggeri degli Ubaldini (1277-1295) è tristemente famoso per la vicenda del conte Ugolino della Gherardesca, cantata da Dante nel XXXIII canto dell’Inferno.
All’inizio del Trecento ricordiamo il domenicano Oddone della Sala (1312-1323), che in seguito alla promulgazione di nuove costituzioni sinodali si scontrò duramente nel 1317 con il clero e il governo pisani e fu costretto a lasciare la città senza farvi più ritorno.
Sotto il successore, il domenicano Simone Saltarelli (1323-1342), si verificò il breve scisma di Niccolò V (insediato a Pisa, 1328-1330), promosso dall’imperatore Ludovico il Bavaro.
Il Saltarelli dovette abbandonare la città, ove fu sostituito dall’antiarcivescovo Giovanni Lanfranchi.
Nell’ottobre 1406 Pisa fu conquistata dai fiorentini, che sostituirono l’arcivescovo Ludovico Bonito (1400-1406) con il fiorentino Alamanno Adimari (1406-1411), cui successero altri fiorentini, tra cui alcuni membri della casa Medici.
L’evento più rilevante fu la celebrazione a Pisa nella primavera 1409 di un concilio per risolvere il grande scisma, che travagliava la Chiesa occidentale dal 1378.
Il concilio non dette però i frutti sperati, anzi elesse un terzo papa, Alessandro V (1409-1410), dando vita a tre diverse obbedienze.
Le prime forme di monachesimo eremitico sono attestate nelle isole dell’arcipelago toscano dalla fine del IV sec., mentre le più antiche testimonianze di monachesimo cenobitico, maschile e femminile, risalgono alla fine dell’VIII . La grande fioritura monastica ebbe luogo a partire dalla seconda metà del X sec.: sino alla fine del XII si contano ben ventiquattro fondazioni, promosse da rilevanti famiglie laiche e dai vescovi.
Dalla fine dell’XI . la diocesi pisana vide l’ingresso di diverse congregazioni benedettine: nel 1076 i camaldolesi, cui poi passarono altri quattro cenobi; negli anni Ottanta i vallombrosani; nel 1095 i vittorini di Marsiglia; nei primi anni Sessanta del XII . i pulsanesi; nel 1248 i cisterciensi, cui passarono altri due cenobi; nel 1360 gli olivetani.
I certosini fecero il loro ingresso nel 1366.
Già dal XII . erano presenti gli ordini ospedalieri e militari: i gerosolimitani e i templari, attestati i primi nel 1113, i secondi nel 1193, ma sicuramente già presenti.
Il XIII . vide la comparsa degli umiliati nel 1272 e dei nuovi ordini mendicanti.
I domenicani a Pisa ottennero verso il 1222 la chiesetta di Santa Caterina d’Alessandria, ove tra il terzo e il quarto ventennio del Duecento eressero il loro vasto complesso conventuale – che ospitava uno dei più importanti studi d’Italia – ove operarono tra XIII e XIV . dotti frati e grandi predicatori come Giordano da Rivalto, Bartolomeo da San Concordio, Domenico Cavalca.
Le domenicane sono attestate in città dal 1238: merita sottolineare che la beata Chiara Gambacorti istituì nel 1382 in San Domenico la prima comunità osservante dell’ordine domenicano.
I francescani sono attestati a Pisa già dal 1219, ma solo nel 1228 ottennero la chiesa di Santa Trinita, presso la quale sorse prima del 1233 la chiesa di San Francesco.
Le clarisse si installarono a Pisa nel 1227.
I carmelitani giunsero in città nel 1249 e i Servi di Maria nel 1404.
Gli agostiniani si trasferirono nel complesso cittadino di San Nicola nel 1292, provenienti dal convento di Santa Maria di Caprolecchio presso Livorno.
A Pisa sono del tutto assenti tradizioni agiografiche relative a protomartiri o a vescovi dei primi secoli o dell’alto Medioevo: solo dal XII . possiamo individuare alcune figure di santi o beati.
Tra i beati dell’ordine cisterciense è annoverato Baldovino, morto nel 1145, che fu monaco a Clairvaux, dal 1137 cardinale prete di Santa Maria in Trastevere e, dall’aprile 1138, arcivescovo di Pisa.
Come beato è venerato papa Eugenio III, il canonico (dal 1125) e visdomino arcivescovile (1133-1137) Bernardo, poi monaco a Clairvaux, nel 1141 abate del monastero romano delle Tre Fontane e infine papa dal 1145 al 1153.
Ma l’importanza della città di Pisa si manifesta soprattutto nella proposizione di un nuovo e specifico modello di santità laicale, il cui maggior rappresentante è il mercante san Ranieri (1117-1160), che visse per diciotto anni come penitente in Palestina e poi come eremita cittadino in patria, dove manifestò virtù taumaturgiche che lo fecero autore di moltissimi miracoli.
Nel 1633 fu dichiarato patrono della città e della diocesi.
Accanto a lui possiamo enumerare santa Bona (1156/1157-1207), di umilissime origini, caratterizzata dalla dimensione del pellegrinaggio, tanto che dal papa Giovanni XXIII è stata dichiarata patrona delle assistenti di volo; santa Ubaldesca (1145-1205), di origine campagnola, oblata in un monastero femminile poi passato alle monache gerosolimitane; la beata Maria, morta verso la metà del XIII sec., e la beata Gherardesca, vissuta nel Duecento.
Una particolare attenzione per i bambini abbandonati manifestò il beato Domenico Vernagalli (†1218), appartenente all’importante famiglia consolare dei Casalei: rimasto vedovo, si fece prete e converso nel monastero camaldolese di San Michele in Borgo.
Celebre predicatore domenicano fu il beato Giordano da Rivalto, morto nel 1311.
Alla beata Chiara Gambacorti (1362-1420) si deve nel 1382 la creazione a Pisa della prima comunità osservante dell’ordine domenicano.
III - L’età moderna
Nella prima età moderna le istituzioni ecclesiastiche pisane subirono il saccheggio sistematico da parte dei conquistatori fiorentini: dagli inizi del Quattrocento alla metà del Cinquecento chierici della città dominante s’insediarono negli uffici diocesani (dalla cattedra arcivescovile alle prebende del capitolo della cattedrale, dalle chiese cittadine alle pievi rurali); monaci e frati fiorentini occuparono i chiostri pisani, a partire dalla ricca certosa di Calci; fanciulle fiorentine intasarono i monasteri femminili locali; prelati della dominante o delle famiglie alleate ottennero in commenda abbazie e priorati: un personale estraneo, poco interessato a rimediare alle distruzioni dovute agli eventi bellici di quel lungo periodo.Questa presenza, inoltre, produsse la dispersione di un’ingente quota del patrimonio economico della Chiesa pisana o ne modificò la gestione tradizionale: i fiorentini alienarono a condizioni favorevoli tenute e terre a tutto vantaggio di parenti o concittadini, introdussero la mezzadria poderale con coloni del Valdarno fiorentino al posto dell’affitto fondiario alle autonome imprese contadine, limitarono gli usi comuni delle popolazioni sui beni ecclesiastici.
Le comunità rurali furono private delle antiche pertinenze giuridiche sulle chiese locali – attestate fino allo scorcio del XIV . – grazie al ricorso a quelle pratiche curiali (resignazioni, procure, dispense, concessioni papali), che nel Rinascimento legittimarono abusi e violazioni delle norme canoniche: il cumulo degli uffici, l’assenteismo, l’accesso agli uffici in età infantile, la mancanza dei gradi dell’ordine sacro.
Del resto, privati di gran parte dei ricchi benefici cittadini, anche i chierici appartenenti alle famiglie superstiti del ceto dirigente locale cercarono di accaparrare il maggior numero possibile di uffici ecclesiastici – e delle rendite connesse – a spese delle comunità, degli enti e delle famiglie più deboli.
Il risultato più appariscente di questo immane saccheggio fu l’infima qualità dei sacerdoti effettivamente impegnati come salariati nella cura d’anime: preti stranieri, giunti dalla Corsica o dalla Sicilia, dagli Appennini o dalla Sardegna, di bassissimo profilo culturale (addirittura analfabeti totali) e di dubbia moralità.
L’effetto più profondo riguardava però la religiosità popolare: da una parte la carenza vistosa dei servizi sacri essenziali, in particolare nelle campagne (dalla celebrazione della messa festiva all’amministrazione del sacramento della penitenza), dall’altra parte il riemergere del culto verso gli «antichi dèi» (alberi, corsi d’acqua), appena velati dai riferimenti alla Madonna o a santi dai poteri taumaturgici (come Bona da Pisa, il cui cappello da pellegrina permetteva ai maschi di recuperare la potenza virile).
Pur con i loro limiti (la socialità chiassosa delle prime, i conflitti interni e l’invadenza pubblica dei secondi) solo le compagnie laicali e i mendicanti continuavano a tener viva una pratica religiosa legata all’ortodossia romana.
Prima la definitiva affermazione del principato mediceo e poi la Controriforma modificarono radicalmente questo quadro, a Pisa come in altre città toscane.
Grazie all’opera dell’ufficio ducale dell’Economato dei benefici vacanti, comunità e famiglie recuperarono i diritti di patronato sui benefici ecclesiastici; il magistrato cittadino assunse la gestione diretta dei monasteri femminili grazie ai nuovi «Operai»; enti e luoghi pii furono costretti a comportamenti virtuosi sul piano della gestione economica dal controllo esercitato dal ministero dei Nove conservatori.
La rinascita della «religione cittadina» fu lenta, ma sicura, anche se con un limite: la doviziosa ricchezza della mensa arcivescovile pisana (la più ricca della Toscana) indusse il governo a utilizzarla per premiare familiari, alleati, clienti e funzionari fedeli, escludendo così, fino alla fine del XVIII sec., la presenza di pisani sulla loro cattedra.
Dalla metà del Cinquecento vi ruotarono una serie di presuli non sempre effettivamente presenti sul posto (come i cardinali Rebiba, 1556-1560, e Ricci, 1567- 1574) o incapaci di governare a causa dell’età (il giovanissimo Giovanni di Cosimo de’ Medici, 1560-1562, o il vecchio Bartolomeo Giugni, 1576-1577) o persino destinati a brevissima vita dal micidiale clima locale (l’ancor giovane Ludovico Antinori nel 1576 sopravvisse al suo insediamento solo poche settimane).
La Controriforma giunse prima con il vescovo suffraganeo Antonio Lorenzini da Montepulciano, poi con il visitatore apostolico inviato dal papa Gregorio XIII.
Per tutti si trattò di un colpo.
L’assoluto divieto del cumulo dei benefici era inapplicabile in città, a causa della tenuità delle rendite; la riforma dei monasteri femminili incontrò molti ostacoli nel patriziato; gli amministratori accettavano il controllo delle magistrature civili, ma si rifiutavano di mostrare i propri libri contabili alla gerarchia ecclesiastica.
La tensione si trascinò per alcuni anni, finché, sullo scorcio del Cinquecento, non fu trovato un compromesso risolutore dall’arcivescovo Carlo Antonio Dal Pozzo, stretto collaboratore del granduca Ferdinando de’ Medici.
Ai chierici cittadini fu concesso di cumulare gli uffici residenziali presenti dentro le mura; ai patrizi cittadini fu garantita un’applicazione conveniente della riforma dei monasteri femminili; gli amministratori degli enti pii laicali rimasero sotto il controllo del potere civile.
Il lungo Seicento si aprì così anche a Pisa nel clima della «Controrifoma devozionale », nella prospettiva di una «clericalizzazione » della società: i vecchi luoghi sacri furono restaurati e arricchiti di arredi e suppellettili; nuove chiese e nuove case regolari nacquero in città e nei centri rurali, da Pontedera a Cascina; il clero secolare e quello regolare crebbero numericamente; le monache e le educande affollarono i monasteri cittadini, mentre si consolidavano i nuovi istituti specializzati, come quello per le «convertite».
Anche gli uffici della Chiesa secolare raggiunsero una condizione florida, sulla base della nuova disciplina.
In città, restaurate le chiese fatiscenti, gli snodi tradizionali del servizio sacro e delle rendite, ormai saldamente in mano ai chierici cittadini, garantivano ai loro rettori un adeguato sostentamento.
In campagna il recupero dei giuspatronati popolari e la definitiva applicazione del divieto di cumulo dei benefici residenziali, provocando la fuga dei fiorentini e dei pisani, aveva favorito la presenza dei chierici di estrazione rurale.
Nel contempo proprio nel contado si era avviato un nuovo processo di fondazioni sacre, mentre le stesse comunità investirono molte risorse nell’ampliamento o nell’edificazione di chiese e nel mantenimento di quel particolare servizio religioso dei cicli di prediche a opera di specialisti (frati e chierici regolari) in occasione della Quaresima e dell’Avvento.
Anche le confraternite laicali conobbero un nuovo sviluppo, cui non furono estranee le nuove devozioni cristocentriche e mariane.
Una situazione specifica fu quella di Livorno, in seguito all’impetuoso sviluppo urbanistico e demografico della città secondo i progetti perseguiti tenacemente dai granduchi di casa Medici.
La fondazione di una chiesa collegiata sostenne la nascita di un clero cittadino, mentre il suo preposto assunse le funzioni di vicario generale della ricca area e dei suoi abitanti dalla variegata provenienza etnica.
In questo quadro di crescita s’inserì però un corpo estraneo: l’ordine dei cavalieri di santo Stefano, fondato da Cosimo I nel 1562, con sede nella centralissima piazza pisana delle Sette Vie.
A esso furono aggregati numerosi monasteri già in commenda con le chiese dipendenti, mentre accanto alla casa conventuale (il palazzo della Carovana) fu costruita una nuova chiesa collegiata in onore di santo Stefano papa e martire.
Fra la fine del Cinquecento e la fine del secolo successivo, il priore della chiesa conventuale acquisì progressivamente una sempre più ampia giurisdizione spirituale sulle chiese filiali, sui cavalieri cappellani e militi e sulle loro famiglie domiciliate a Pisa.
Ciò provocò nella seconda metà del Seicento un’intensificazione degli scontri fra i parroci cittadini e il clero stefaniano (composto in gran parte da ecclesiastici pisani) per i funerali dei cavalieri, estratti a forza dalle chiese curate per essere onorati nelle chiese dell’ordine.
A questo punto, sullo scorcio del secolo, l’arcivescovo Francesco Pannocchieschi d’Elci (1663-1702), impegnato in un vasto programma di ripresa della disciplina ecclesiastica, ricorse alla Sacra Congregazione del concilio, che riconobbe le ragioni del prelato, in soccorso del quale si mossero anche gli agostiniani di San Nicola.
L’indignato Cosimo III reagì con il progetto straordinario di ottenere dal pontefice l’erezione in prelatura nullius dioecesis delle chiese e degli edifici, con la relativa popolazione, della Religione di Santo Stefano: una quasi-diocesi, diffusa a macchie su tutto il territorio granducale e con una piccola capitale corrispondente all’attuale piazza dei Cavalieri.
Le proteste dell’arcivescovo e la più generale sensibilità ecclesiologica seppellirono nel ridicolo il progetto.
Ma la sconfitta del granduca si riverberò anche sul capitolo dei canonici e l’università dei cappellani del duomo, colpevoli di averlo avallato: da allora iniziò un’inesorabile erosione dei loro antichi privilegi, con l’affermazione del principio canonico che solo il continuo e ininterrotto godimento del privilegio poteva mantenerne l’uso.
Nella seconda metà del XVIII . due arcivescovi di ben diversa indole – il moderato Francesco Guidi (1734-1778) e il tradizionalista Angelo Franceschi (1778- 1806) – affrontarono le riforme ecclesiastiche lorenesi: dopo le prime soppressioni di monasteri sotto Francesco Stefano, i provvedimenti emanati durante il lungo governo di Pietro Leopoldo e concordati con l’arcivescovo Franceschi modificarono aspetti sostanziali della Chiesa pisana.
Fu drasticamente ridotto il numero dei distretti parrocchiali urbani, mentre furono accresciute le chiese curate rurali; per la formazione del clero diocesano fu realizzata finalmente la prescrizione del concilio di Trento con l’istituzione di un ricco seminario nell’ex convento domenicano di Santa Caterina, mentre anche a Livorno funzionava l’Accademia ecclesiastica di San Sebastiano; furono aumentate le congrue dei parroci e finanziati nuovi uffici di cappellani curati; i monasteri femminili furono trasformati in conservatori per l’educazione delle giovani.
Le risorse provennero dalla soppressione di conventi e monasteri maschili e delle compagnie laicali.
Dalla soppressione si salvarono tuttavia gli ordini «nazionali», come i vallombrosiani, i camaldolesi o gli olivetani, mentre alcuni vecchi alleati del potere vescovile ottennero le spoglie degli sconfitti: a Pisa il convento di San Francesco dei Minori fu assegnato proprio agli agostiniani di San Nicola.
Ma la trasformazione delle antiche confraternite laicali nelle nuove compagnie di carità non incontrò il successo sperato e anzi i riformatori locali provocarono lo sdegno popolare per gli attacchi alle consuetudini religiose.
In questi anni la diocesi conobbe una crescita territoriale, allorché il 18 luglio 1789, su richiesta del granduca Pietro Leopoldo, il papa Pio VI le assegnò le parrocchie di Ripafratta nel Monte Pisano e del vicariato granducale di Barga in Garfagnana, già della diocesi di Lucca, che ottenne in cambio il piviere di Massaciuccoli; poi, il 18 settembre del 1798, lo stesso Pio VI aggiunse anche i pievanati di Pietrasanta, già lucchese, di Seravezza, Stazzema e Vallecchia, pochi anni prima attribuiti alla nuova diocesi di Pontremoli.
Negli anni della prima occupazione francese e della reazione sanfedista l’arcivescovo Franceschi mostrò grandi doti di governo, guidando il popolo con saggezza per evitare inutili spargimenti di sangue e mantenere l’ordine pubblico.
Ma alla sua morte il papa Pio VII, con la bolla Militantis Ecclesiae, eresse il 25 settembre 1806 la nuova diocesi di Livorno: la Chiesa pisana fu privata del centro urbano più ricco e vivace della diocesi e di un’ampia fascia costiera, mentre il nuovo arcivescovo, il pisano Ranieri Alliata (1806-1836), trovò una mensa episcopale drasticamente impoverita per finanziare la nuova mensa livornese.
IV - L’età contemporanea
La prima metà del XIX . fu un periodo di grandi cambiamenti per la Chiesa pisana, nel passaggio dal governo francese alla restaurazione granducale, fino ai moti risorgimentali e all’annessione della Toscana al Regno d’Italia nel 1860.Definitivamente tramontata l’epoca del riformismo leopoldino, a gestire il trapasso dal forte centralismo napoleonico al ripristinato governo di Ferdinando III di Lorena, scevro dagli eccessi giurisdizionalistici del padre, fu chiamato l’arcivescovo Ranieri Alliata (1806- 1836).
Questi poté così far rientrare nella diocesi i minori conventuali (1817) e introdurre le monache cappuccine.
La figura di maggior rilievo di questo periodo fu però quella del cardinale Cosimo Corsi, arcivescovo di Pisa tra il 1853 e il 1870, in un’epoca caratterizzata da un forte spirito anticlericale e da una contrapposizione sempre più netta tra l’autorità civile e quella religiosa.
Nominato arcivescovo nel dicembre 1853, entrò in diocesi solo nel maggio 1855 per essersi opposto alla richiesta del regio exequatur, cui non intendeva sottoporsi, impegnandosi negli anni successivi in una dura lotta contro gli interventi del governo toscano negli affari ecclesiastici.
La sua intransigenza si manifestò anche di fronte al nuovo Regno d’Italia e portò ben presto ad una rottura in occasione del rifiuto di celebrare in cattedrale il Te Deum per la festa nazionale.
Arrestato nel maggio 1860, fu trattenuto a Torino fino ai primi di giugno e poté rientrare in diocesi solo in agosto.
L’arresto aumentò il suo prestigio, approfondì il solco tra la Chiesa e lo Stato e rese il Corsi la guida della Chiesa toscana, in stretto rapporto con il pontefice.
Il suo fermo atteggiamento non gli impedì nel 1869 di far celebrare nella tenuta regia di San Rossore il matrimonio morganatico del re Vittorio Emanuele II con Rosa Vercellana Guerrieri, reso pubblico solo nel 1877.
Durante il suo episcopato venne rafforzata l’azione caritativa della società di San Vincenzo de’ Paoli e istituito il primo Circolo della gioventù cattolica (1868).
Lo scontro con le autorità civili fu di lunga durata e si manifestò anche durante l’episcopato dell’agostiniano Paolo Micallef (1871-1883), la cui attività pastorale ebbe un indirizzo prevalentemente religioso- devozionale.
Tra le sue principali intuizioni la necessità di dar vita a forme organizzate di attività laicale e l’attenzione alle comunicazioni sociali con la fondazione del primo settimanale diocesano, «La Torre di Pisa», nel 1873, cui seguì l’anno successivo «La Croce Pisana».
Nell’ultimo ventennio del XIX sec., durante l’episcopato di Ferdinando Capponi (1883-1903), si tentò di rispondere ai primi episodi di secolarizzazione e di progressivo allontanamento delle masse dalla vita religiosa, con l’ingresso nella diocesi dei frati bigi, dei salesiani, delle suore di san Giuseppe e delle Figlie di san Vincenzo, mentre si registrava la nascita del primo Circolo universitario cattolico.
Nel 1893, a opera di padre Agostino da Montefeltro, il più applaudito predicatore italiano dell’età umbertina, nacque la congregazione delle Figlie di Nazareth, dedita inizialmente all’assistenza a orfane indigenti e successivamente a quella degli anziani.
Il nuovo secolo si aprì con il lungo e importante episcopato di Pietro Maffi (1903-1931), nominato cardinale nel 1907, personaggio di rilievo internazionale.
Uomo di profonda cultura non solo filosofico- teologica ma anche matematico-scientifica, autore di numerosi saggi astronomici, fondò la «Rivista di Scienze fisiche naturali e matematiche» e fu dal 1904 presidente del consiglio direttivo della Specola Vaticana.
Attraverso i suoi comportamenti favorì il superamento dell’anticlericalismo del secolo precedente.
Ebbe frequenti rapporti con la famiglia reale, tanto che l’8 gennaio 1930 benedì a Roma le nozze fra il principe ereditario Umberto di Savoia e Maria José del Belgio; in quell’occasione il sovrano gli conferì il collare della Santissima Annunziata, la più alta onorificenza del regno, mai concessa a un ecclesiastico dopo il 1870.
Ma il suo atteggiamento nazionalista provocò nel 1914 l’opposizione austriaca alla sua elezione a papa.
Molte le intuizioni che caratterizzarono il suo impegno.
In primo luogo l’opera di divulgazione scientifica vista come naturale complemento della formazione religiosa, in secondo luogo il fecondo e saldo rapporto con il sociologo ed economista Giuseppe Toniolo, docente presso l’università pisana, cui offrì la cattedra di sociologia nel seminario e con il quale, nel 1907, dette inizio a Pistoia alle Settimane sociali dei cattolici, infine la convinzione che i cattolici italiani avrebbero potuto sostenere le proprie posizioni attraverso una stretta collaborazione tra i diversi periodici cattolici e la creazione di un quotidiano nazionale cristianamente ispirato.
Egli dette così vita, nel 1905, al settimanale diocesano «Il Giornale di Pisa», divenuto nel 1911 «Per il bene» e nel 1923 «Vita Nova» e, nel 1913, al quotidiano cattolico «Il Messaggero Toscano », la cui sede venne distrutta dai fascisti all’inizio del 1925.
Nel 1928 il Maffi rifiutò di entrare a far parte del Comitato astronomico del riordinato Consiglio delle Ricerche Scientifiche.
Nel 1920 abbandonò definitivamente il vecchio sistema pievano e ripartì il territorio diocesano in ventuno vicariati foranei e quattro urbani.
S’impegnò nello sviluppo dell’associazionismo laicale con la nascita dell’Unione donne cattoliche nel 1908, della Gioventù femminile nel 1918, della Federazione italiana uomini cattolici nel 1923.
Nel 1909 istituì all’interno del seminario, divenuto l’anno successivo interdiocesano, la Facoltà di Teologia.
L’attenzione per le iniziative assistenziali si concretizzò, tra l’altro, nella creazione nel 1923 della Piccola Casa della Divina Provvidenza e nel 1930 dell’Opera cardinale Maffi.
In ambito caritativo si ricorda l’opera, soprattutto nei confronti dei bambini orfani di guerra e dei carcerati, di Ludovico Coccapani (1849-1931), dapprima attivo membro e poi – dal 1914 – presidente del Consiglio particolare della società di San Vincenzo de’ Paoli, di cui è stata completata la fase diocesana del processo di canonizzazione.
La firma dei patti Lateranensi non risolse affatto la tensione dei rapporti tra Chiesa e fascismo, gestiti con equilibrio dall’arcivescovo Gabriele Vettori (1932- 1947), la cui azione pastorale si dispiegò secondo tre linee direttive: l’attenzione specifica alla vita e alla disciplina del Seminario, l’educazione cristiana e la catechesi, con l’istituzione nel 1935 dell’Ufficio catechistico diocesano, lo sviluppo dell’Azione cattolica.
Dal 1939 divenne sempre più forte da parte del clero e del laicato cattolico pisano il dissenso verso il regime, che si coagulò attorno a don Icilio Felici e don Telio Taddei e alla sua collana editoriale «Il Crivello ».
Lo stesso arcivescovo venne fatto oggetto di pesanti attacchi da parte dei fascisti, che l’accusarono di pacifismo, nocivo al necessario eroismo bellico del popolo italiano.
Nell’estate 1942 sorse il gruppo dei Cristiano-sociali, che aderì al Comitato di liberazione di Pisa.
Mentre il regime si sfaldava, l’arcivescovo e il clero rimasero al loro posto, tanto che il 21 giugno 1944 il prefetto in fuga conferì a Vettori «il governo della Provincia», che il presule tenne fino al 2 settembre, ingresso delle truppe alleate in città, garantendo l’alloggio, il nutrimento e la cura dei pisani e di migliaia di sfollati.
Durante il passaggio del fronte, ben dieci sacerdoti e un seminarista vennero uccisi e alla memoria di tre di loro (don Giuseppe Bertini, don Innocenzo Lazzeri e don Libero Raglianti) è stata conferita la medaglia d’oro al valore.
L’opera di ricostruzione, non solo materiale ma soprattutto morale – necessaria dopo il periodo della guerra civile –, fu proseguita da Ugo Camozzo (1948-1970), già arcivescovo di Fiume, costretto a lasciare la sua diocesi nell’agosto 1947, dopo l’annessione alla Iugoslavia, seguito da un consistente gruppo di profughi, tra cui molti sacerdoti e seminaristi entrati poi a far parte del clero diocesano.
Tra gli eventi del suo episcopato possiamo ricordare la Peregrinatio Mariae (1949), il secondo congresso eucaristico diocesano (1953), il sinodo diocesano (1954), e soprattutto, nel 1965, il congresso eucaristico nazionale, cui intervenne il papa Paolo VI.
Mentre si concludeva il processo di canonizzazione del servo di Dio Giuseppe Toniolo, la diocesi acquisì la casa del famoso docente universitario per farne sede di opere sociali, mentre a lui venne dedicato il grande pensionato universitario costruito presso il seminario (1953).
A Benvenuto Matteucci (1971-1986), amministratore apostolico sede plena della Chiesa pisana già dall’agosto 1968, toccò il compito di gestire il fecondo ma non sempre sereno processo di rinnovamento conciliare nella diocesi, che nel 1969 riorganizzò in sette zone pastorali e undici vicariati.
Rilevante fu il suo impegno nell’istituire parrocchie nelle aree di nuova urbanizzazione e nel promuovere restauri, ricostruzioni e abbellimenti di molte chiese diocesane, del palazzo arcivescovile e del seminario.
Ad Alessandro Plotti, arcivescovo dal 1986 e dal 2000 vicepresidente della Conferenza episcopale italiana, si deve una generale ristrutturazione della curia arcivescovile, l’attuale suddivisione in quattordici vicariati (1991) e la creazione di unità pastorali che raccolgono più parrocchie, nell’intento non solo di risolvere il problema della diminuzione dei sacerdoti, ma pure di stimolare una maggiore collaborazione all’interno del clero e un più ampio spirito comunitario tra i laici.
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Mappa
Diocèse de Pisa
Chiesa di Santa Maria Assunta
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La facciata della cattedrale di Pisa -
Il presbiterio -
Veduta dell’aula dall’ingresso -
Il pulpito, opera di G. Pisano, 1301 - 1310.
Diocèse
SOURCE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.