Diocèse de Pavia
HISTOIRE
I - L’epoca antica
La prima notizia certa relativa all’esistenza di una comunità cristiana a Ticinum (il nome Papia appare nel VII sec.) ci è data incidentalmente da Sulpicio Severo nella Vita di san Martino che ci riporta agli anni 326-328.Pavia è una delle poche diocesi italiane che abbia conservato una lista dei suoi vescovi, trasmessaci da tre fonti di diversa antichità, sicuramente derivate da un primo e ufficiale catalogo, forse i dittici.
Iuventus, o Inventius, o Eventius, nella lista dopo Syrus e Pompeus, è il primo vescovo di cui possediamo punti cronologici di riferimento: il suo nome si legge tra i padri intervenuti al concilio di Aquileia del 381 e tra i firmatari della lettera sinodica inviata dal concilio di Milano a papa Siricio nel 390.
Dalla Vita di Ambrogio conosciamo implicitamente l’anno della morte, il 397.
Togliendo da questa data gli anni di episcopato di Invenzio e di Pompeo, giungiamo all’età di Siro e quindi alla fondazione della diocesi pavese, vale a dire agli anni 343 o 344, il periodo del concilio di Serdica, forse ultimo dell’episcopato di Siro.
Il settimo vescovo, Crispinus, nel 451 sottoscrisse la lettera sinodale del concilio di Milano a papa Leone in accettazione del Tomo a Flaviano.
Sul declinare dell’impero, specie nell’invasione gotica, Epifanio (466-497) incarnò la «paternità » civica del vescovo in difesa delle popolazioni italiche e nella ricostruzione della città, saccheggiata da Odoacre (476).
Il successore Massimo partecipò a tre sinodi romani (tra cui il «sinodo delle Palme ») nei quali ebbe modo di distinguersi il diacono Ennodio, sostenendo a difesa di papa Simmaco contro l’antipapa Lorenzo il principio secondo il quale il romano pontefice non può essere giudicato da nessuno se non da Dio.
Di Ennodio rimangono numerosi scritti che gli assegnano un posto tra i Padri della Chiesa.
Il suo non lungo episcopato (514-521) fu contrassegnato da due legazioni a Costantinopoli intraprese per incarico di papa Ormisda al fine di ottenere la ricomposizione dello scisma acaciano.
Avviata da Giustiniano la riconquista bizantina dell’Italia, dopo la caduta di Ravenna nel 540, Ticinum divenne il baluardo della difesa gotica.
II - L’età longobarda
Il periodo bizantino fu di breve durata, L’occupazione longobarda di Ticinum portò alla divisione etnica e religiosa della città.La «farimannia» longobarda s’insediò nel settore est dell’urbs: qui sorse la chiesa matrice, la residenza e il battistero del vescovo ariano, mentre la cattedrale e la residenza del vescovo cattolico rimasero nel settore ovest intraurbano.
La convivenza fra le due differenti confessioni fu favorita dalla circostanza che la Chiesa «cattolica» locale, in sintonia con le Chiese dell’alta Italia, era in dissenso con l’impero e con Roma, rifiutandosi di riconoscere le condanna dei Tre Capitoli: l’invasione longobarda fu per la «Chiesa tricapitolina» un insperato riparo dalle rappresaglie imperiali bizantine.
Un primo approccio fra la Chiesa romana, la corte longobarda ariana e la Chiesa tricapitolina fu tentato da papa Gregorio Magno facendo leva sulla fede cattolica tricapitolina della regina Teodolinda.
Sul finire del regno di Agilulfo (590- 616) nello scacchiere religioso longobardo si inserì la missione di un monaco irlandese, fedelissimo a Roma: Colombano.
Con lui ha inizio il primo movimento di azione missionaria cattolica fra i longobardi.
La cessazione della gerarchia ariana in Pavia avvenne con la conversione del vescovo Anastasio al tempo di re Ariperto (652-662).
La nuova situazione era maturata grazie all’invio da parte di Roma di missionari orientali, capeggiati da Damiano.
La prima manifestazione religiosa promossa da questi fu un pronunciamento contro il monotelismo espresso nel concilio di Milano (679-680).
Tra i firmatari figura il vescovo pavese Anastasio, già ariano.
A lui subentrò come vescovo Damiano.
La corrente nazionale ariana fece un ultimo tentativo di riscossa con Alachis.
La vittoria di Coronate (688), con la morte del diacono Zenone (che offrì la sua vita per salvare quella di re Cuniperto) segnò la fine dell’arianesimo longobardo e della Chiesa tricapitolina.
Un decennio dopo (698) un concilio celebrato a Pavia suggellò la fine dello scisma tricapitolino con il ritorno all’ortodossia degli aquileiesi.
Con la morte di Damiano (12 aprile 710 o 711) può dirsi chiusa la fase missionaria presso i longobardi.
I singolari rapporti del vescovo di Pavia nei confronti della Chiesa romana si concretizzarono nella prassi della consacrazione del vescovo pavese da parte del papa, cui più tardi seguirà lo scorporo della diocesi dalla provincia ecclesiastica di Milano e la dipendenza diretta da Roma.
III - Il regno italico
Con l’affermarsi in Italia della dominazione carolingia, vescovi e abati vennero coinvolti nel governo del regno, periodicamente convocati per assemblee del regno e sinodi religiosi, specie ai tempi di Lotario e Ludovico II.Questo spiega il sorgere in Pavia di numerose «cellae» o «curtes» vescovili o monasteriali.
La situazione politica di Pavia «caput regni » pose il vescovo della città in una posizione ambivalente: in campo politico la vicinanza del potere regio favorì e a un tempo limitò il suo potere; in campo ecclesiastico, in quanto vescovo della capitale, riuscì a sottrarsi all’autorità metropolitana, ma la vicinanza con Milano gli impedì di sviluppare l’esenzione al di là di forme esteriori.
Liutardo, vescovo dall’841 all’864, cercò un campo di espansione fuori del territorio diocesano con la fondazione dell’abbazia di San Donato di Scozzola sul lago Maggiore e l’acquisizione di altri territori a lui conferiti da un diploma degli imperatori Lotario I e Ludovico II dell’anno 849, primi consistenti nuclei della signoria vescovile.
Il vescovo Giovanni II (875-911) ebbe l’eccezionale occasione di diventare interlocutore privilegiato di papa Giovanni VIII e suo legato, di ricevere la conferma dell’antica esenzione della sua sede con l’aggiunta di privilegi liturgici riservati solitamente agli arcivescovi, l’inaudita facoltà di convocare in sinodo i vescovi suffraganei di Milano e di Ravenna – peraltro mai esercitata – e di assolvere e scomunicare a nome del papa.
Berengario I si servì di lui come messo regio e come «supervisore» nel ripristino delle mura di Pavia, bersaglio fra i più ambiti dagli ungari.
Questi, nel marzo del 924, incendiarono la città; nel rogo perirono migliaia di persone, tra cui il vescovo pavese Giovanni III e il vescovo di Vercelli suo ospite.
Con gli Ottoni il Regno d’Italia venne di fatto assorbito nell’Impero e Pavia condivise con Ravenna la funzione di sede regia, senza che ciò ne sminuisse la funzione di capitale: a Pavia, congiuntamente alla moglie Adelaide, Ottone incoraggiò il rinnovamento degli enti monastici giovandosi della prestigiosa partecipazione di Maiolo, abate di Cluny.
Sotto Ottone II, il vescovo di Pavia, Pietro II (972-984), divenne arcicancelliere del Regno d’Italia, posizione che gli permise di allargare il suo potere in città a danno dei monasteri regi e che gli aprì la via al papato col nome di Giovanni XIV: fu questo uno dei momenti in cui il vescovo ebbe il massimo potere politico nella sua città.
IV - L’età dei comuni e della signoria
L’inizio del nuovo periodo, che porterà alla formazione del libero comune, coincide con la lotta delle investiture, nella quale la città, ghibellina per istituzione, si schierò con l’imperatore.In questo periodo la diocesi raggiunse i suoi più vasti confini.
Le riforme monastiche, che a partire dall’XI . interessarono il mondo benedettino, trovarono in Pavia fertile terreno.
Nel 1090 in val Vernasca, non lungi dalla città, sorse il monastero di San Sepolcro, una delle più antiche fondazioni vallombrosane dell’Italia settentrionale, a cui si affiancarono, all’interno delle mura, fondazioni femminili vallombrosane e cisterciensi.
A questo periodo può essere attribuita la redazione definitiva della Charta consuetudinum antiquarum Ticinensis Ecclesiae che regolava l’azione e i diritti del capitolo della Chiesa maggiore.
Senonché, mentre aumentavano le necessità finanziarie per soddisfare i crescenti bisogni della cittadinanza e per finanziare ripetute guerre con le città confinanti, il vescovo vide sempre più contrastate le immunità del clero e dei monasteri e la sua stessa dimora confinante con la sede sempre più imponente del comune; da qui il volontario esilio e la morte del vescovo san Lanfranco (1180-1198) nel monastero vallombrosano del Santo Sepolcro, che da lui poi prenderà nome, i severi moniti di papa Innocenzo III diretti ai consoli della società di San Siro (1208) per la «tirannide » esercitata sui chierici, e pochi anni più tardi l’intervento moderatore di Federico II, che sembrò risollevare la posizione del vescovo nominando san Fulco capo di un triumvirato sulla città, ma si trattò di un innalzamento effimero.
Il successore san Rodobaldo II nel 1236 preferì vendere la corte e gran parte del palazzo episcopale al comune di Pavia e con la somma ricavata erigerne uno nuovo.
Con il vescovo san Rodobaldo si insediarono in Pavia i domenicani, guidati dal beato Isnardo da Chiampo, arrivarono le clarisse, sorsero compagnie di disciplini, primizie degli ordini mendicanti che nel secolo successivo e nell’età viscontea segnarono la vita della città con la loro azione e con la costruzione di conventi e vaste chiese quali San Francesco, San Tommaso, Santa Maria del Carmine.
Il tracollo delle fortune ghibelline negli ultimi decenni del XIII . segnò per Pavia la parabola discendente: contesa fra il marchese di Monferrato, i Langosco e i Beccaria, finì per cadere sotto i Visconti.
La lotta per il predominio della città condizionò anche le scelte dei vescovi, che si schierarono per le rispettive famiglie di provenienza.
Nel 1330 Opicino de Canistris nel Liber de descriptione Papie traccia un appassionato scenario di Pavia «cristiana» che s’arricchisce durante la dominazione viscontea (1359-1447) e sforzesca (1448-1535).
Il 29 giugno 1488 il vescovo cardinale Ascanio Sforza, insieme al fratello Ludovico il Moro, aveva posto la prima pietra dell’attuale cattedrale.
Al di là di questo «cristianesimo esteriore», in cui cultura e pietà combaciavano in felice simbiosi, la situazione generale della vita ecclesiale presentava pesanti ombre evidenziate in maniera macroscopica dalla non residenza dei vescovi protrattasi per un secolo (1460-1560).
V - La riforma tridentina
La riforma inizia dopo le «guerre d’Italia» dalle quali Pavia fu pesantemente segnata, quale città inserita ormai nel «sistema» spagnolo, ancora abbastanza prospera, ma di gran lunga meno importante che nei secoli precedenti.L’«anarchia» e l’«irresponsabilità» pastorale terminarono a opera di un vescovo ventottenne: Ippolito de’ Rossi (1560-1591).
Ottenuta la diocesi di Pavia grazie a un estremo atto di nepotismo, la governò per trent’anni, riformandola secondo lo spirito del concilio di Trento.
Segnato profondamente dalla partecipazione al concilio, Ippolito realizzò, tra i suoi primi atti, la fondazione del seminario nel 1564 e una visita pastorale completa della vasta diocesi dal 1564 al 1566, seguita poi sistematicamente da altre.
Nel novembre del 1566 celebrò il primo sinodo diocesano, un completo «direttorio» della vita pastorale diocesana, cui si aggiungerà nel 1571 un secondo sinodo per adeguare la diocesi alle riforme liturgiche, catechetiche e pastorali di san Pio V.
La Visitatio apostolica, compiuta a Pavia da monsignor Angelo Peruzzi nel 1576 a nome del papa Gregorio XIII – a metà circa dell’episcopato del de’ Rossi – prese atto che l’azione del vescovo per introdurre la riforma tridentina era stata incisiva e continua.
Quando, alla morte del de’ Rossi, Gregorio XIV chiamò Alessandro Sauli a succedergli sulla cattedra pavese, questi trovò una diocesi ben diversa da quella degli anni in cui aveva operato a Pavia come semplice sacerdote (1557-1567).
L’episcopato pavese del Sauli durò un anno solo, ma l’impronta da lui lasciata fu enorme: al suo carisma apostolico si ispirarono i successori.
Nel Sei-Settecento la Chiesa di Pavia sembra caratterizzarsi, almeno esteriormente, per un costume cristiano più coerente di quello dei secoli immediatamente precedenti.
Degna di nota fu la chiamata dei gesuiti a Pavia nei primi anni del Seicento e l’istituzione degli oblati di San Siro per opera di Giambattista Biglia (1608-1617); essi vennero sostituiti nel 1680 con i padri della missione di san Vincenzo de’ Paoli, allo scopo di attendere alla formazione del clero, alla predicazione, agli esercizi spirituali.
La guerra dei Trent’anni, la peste del 1630 (nella quale Pavia perse oltre il trenta per cento della popolazione), il durissimo assedio della città nel 1656, segnarono in profondità la diocesi, ma non fermarono il processo di riforma, che trovò una vigorosa ripresa negli episcopati dell’alessandrino Lorenzo Trotti (1672- 1700) e, più avanti, dell’olivetano Francesco Pertusati (1724-1752), la personalità di maggior spicco dopo Alessandro Sauli.
Con lui sembrò di ritornare ai tempi eroici della riforma cattolica.
Avendo Leopoldo I ceduto al re di Sardegna la Lomellina e Valenza nel 1703, ed essendo stato decretato, in seguito alle guerre di successione d’Austria, un nuovo smembramento del principato pavese con la cessione ai Savoia del Vigevanasco e delle terre tra il Po e il Ticino, il Pertusati fu costretto a stabilire un vicario a Valenza e un vicario a Lomello, con facoltà analoghe a quelle del vicario generale, e ad aprire a Valenza un nuovo seminario per i chierici sudditi del re di Sardegna.
Con questa duplicazione delle strutture si preparava il futuro smembramento della diocesi.
VI - Dall’età delle riforme ai nostri tempi
A partire dal 1760, la diocesi di Pavia fu investita da una serie di sventure a catena che ne mutarono completamente l’aspetto.Il primo atto di questa tragedia fu inaugurato dalle riforme teresio-giuseppine, comuni a tutta la Lombardia austriaca.
Giuseppe II nel 1786 istituì a Pavia un seminario generale per la Lombardia, affidandone l’insegnamento ai nomi più rappresentativi del giansenismo italiano, tra cui Tamburini, Zola, Natali, Alpruni.
Nel maggio del 1796 i francesi entrarono in Pavia.
A partire dal 1798 avviarono la soppressione dei conventi sia maschili sia femminili: nel giro di un quindicennio essa fu totale, privando la città di un apparato di rilievo culturale, religioso, educativo, socioeconomico.
Alla trentina di chiese soppresse dalle riforme giuseppine, se ne aggiunsero in età francese una cinquantina.
Il vescovo Giuseppe Bertieri (1792-1802) dovette piegarsi al primo drammatico smembramento della diocesi avvenuto nel 1803, con la perdita di quarantadue parrocchie dell’Oltrepò.
Nel 1817 ebbe luogo un nuovo smembramento della diocesi: sessantuno parrocchie passarono alla diocesi di Vigevano; due anni più tardi la bolla di Pio VII Paternae charitatis stralciava da Pavia altre sette parrocchie e subordinava il vescovo al metropolita di Milano.
La diocesi che il nuovo vescovo Luigi Tosi (1823-1845) ricevette era l’ombra della precedente.
Con lui e il suo successore Angelo Ramazzotti (1850-1858) inizia una nuova era pastorale.
Tuttavia il prolungarsi, per ragioni politiche, della «sede vacante» – cinque anni fra il Tosi e il Ramazzotti; tredici fra il Ramazzotti e il successore, quindi la negazione dell’exequatur a Lucido Maria Parocchi (1871-1877) – impedì un’azione pastorale efficace.
Bisognerà attendere Agostino Gaetano Riboldi (1877-1901) per vedere rifiorire la diocesi.
La cura del seminario e del clero, le otto visite pastorali compiute, altrettanti sinodi celebrati, il rilancio della catechesi, la fondazione del trisettimanale «Il Ticino», il rinnovo del collegio vescovile, la chiamata di nuove famiglie religiose maschili e femminili, l’incupolamento della cattedrale furono il segno visivo di una Chiesa rinata.
Il congedo forzato di Riboldi da Pavia, con l’elevazione alla porpora e il trasferimento a Ravenna, avvenne nel segno della continuità garantita dallo stesso pontefice.
Il nuovo vescovo Francesco Ciceri (1901-1924), già segretario del Riboldi e suo vicario generale, guidò la diocesi in anni difficilissimi.
Nel dopoguerra anche a Pavia il laicato cattolico dovette confrontarsi prima con il «biennio rosso» (1919-1920), poi con le «squadre d’azione» che distrussero sedi e istituzioni con l’intento di eliminare la presenza organizzata dei cattolici in politica.
In quegli anni travagliati, il vescovo aveva avuto modo di compiere sei visite pastorali e celebrare quattro sinodi, nell’ultimo dei quali poté riunire intorno a sé tutto il clero, che era stato disperso dalla guerra, e rivedere la legislazione diocesana alla luce del Codex iuris canonici.
Nell’ultimo anno di vita, Ciceri fondò «Vita diocesana di Pavia », rivista ufficiale per gli atti del vescovo e della curia.
La linea Riboldi continua e si conclude con l’anziano Giuseppe Ballerini (1924-1933), pavese, già compagno di studi di Pio XI, filosofo e apologista di fama nazionale.
Il concordato aveva introdotto un nuovo stile nei rapporti con l’autorità civile; quasi a suggello dell’intesa, ripresero i lavori della cattedrale, con l’erezione di due bracci laterali; anche i certosini tornarono, benché per breve tempo, alla loro sede.
Tuttavia, fra il 1930 e il 1931 si moltiplicarono aggressioni e intimidazioni a «circoli» cattolici e si dovette procedere alla loro forzosa trasformazione in associazioni diocesane, pur continuando a costituire una presenza alternativa al proclamato monopolio educativo fascista.
Nel 1934 al Ballerini successe Giovanni Battista Girardi (1934-1942), il quale prese le distanze dal regime, contrapponendovi un’articolata azione pastorale.
La diocesi che ereditò Carlo Allorio (1942-1968) era un organismo religioso straordinariamente forte, anche se provato dalle devastanti distruzioni belliche.
Il nuovo vescovo, anticipando le intuizioni del concilio Vaticano II, favorì una vasta e capillare azione liturgica in diocesi, la cura delle vocazioni sacerdotali e del clero e l’affermarsi dell’apostolato biblico, nonché la formazione del laicato cattolico.
A lui successe Antonio Giuseppe Angioni (1968-1986), quindi Giovanni Battista Volta (1986-2004), la cui preoccupazione principale fu il primato della Parola di Dio e il suo annuncio, che trovarono un’esposizione sistematica pastorale nel XX sinodo diocesano (2002) dal significativo titolo «Evangelizzazione ed evangelizzatori ».
Dal 2004 la diocesi è guidata da Giovanni Giudici.
Bibliographie
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X. Toscani, Visite pastorali in diocesi di Pavia nel Cinquecento, Bologna 2003.
Seuls sont visualisés les édifices pour lesquels on dispose d'une géoréférenciation exacte×
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Diocèse
SOURCE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.