Diocèse de Torino
HISTOIRE
II - Dal X sec. ai Della Rovere
Fu nell’ultimo scorcio del primo millennio e nei primi secoli del secondo che la diocesi assunse una stabile struttura istituzionale, entro confini territoriali sempre più precisi.Due fattori sembrano imporsi: l’affermarsi dell’autorità episcopale, controbilanciata dal capitolo della cattedrale, e il diffondersi della struttura parrocchiale.
Il potere del vescovo era anche politico-economico e doveva misurarsi con quello dei conti e dei marchesi, delle famiglie comunali e degli abati, in un intricato gioco di interessi.
La marca di Torino nell’XI . era governata da Olderico Manfredi e poi dalla figlia contessa Adelaide, elogiata da Pier Damiani, la quale ebbe come terzo marito Oddone di Savoia, e mediò tra Gregorio VII ed Enrico I.
I più prestigiosi vescovi dell’XI . furono Landolfo (1011- 1039) e Cuniberto (1047-1081).
Il primo, vescovo costruttore, edificò tra l’altro il duomo di Chieri, l’abbazia di Santa Maria di Cavour e il castello di Piobesi Torinese.
Il secondo, appartenente a una potente famiglia milanese, rappresenta la più chiara consapevolezza dell’autorità episcopale; la convinta difesa dell’impianto diocesano fu alla base della violenta controversia di Cuniberto con i monaci di San Michele della Chiusa, che interpretavano in chiave autonomistica e antivescovile l’adesione alla riforma romana.
Tali contrasti erano un segno chiaro della grave difficoltà a conciliare autorità episcopale ed esenzione monastica.
Fondata alla fine del X . sul monte Pirchiriano, all’imbocco della valle di Susa, con il concorso del marchese Arduino e del vescovo Amizone, l’abbazia era sorta per iniziativa di Ugo di Alvernia, su sollecitazione di potenti pellegrini di Francia, che attraverso la valle di Susa (via Francigena) si recavano a Roma.
Fu invece Goffredo di Montanaro (1264- 1300) il più importante vescovo del XIII . Partecipò al concilio di Lione II del 1274; celebrò due sinodi diocesani, nel 1270 e nel 1286, di cui sono giunti i decreti.
Mette conto rilevare come nelle sempre più frequenti costituzioni sinodali venivano promulgate norme emanate dal metropolita di Milano.
Se le abbazie – benedettine e cisterciensi – ponevano problemi di giurisdizione, erano però significativi centri di spiritualità, con capillare e benefico influsso – religioso, sociale, culturale ed economico – sul territorio.
Oltre le citate Novalesa e San Michele, vanno ricordate, per la città di Torino, l’abbazia di San Solutore (considerata il secondo polo religioso della città) e quella di San Pietro, femminile.
Numerose furono le precettorie degli ospedalieri Antoniani, a esempio Sant’Antonio di Ranverso e San Dalmazzo in Torino.
La più incisiva trasformazione strutturale diocesana fu la capillare diffusione della parrocchia, tra X e XIV sec., con il conseguente decentramento amministrativo pastorale.
Sorsero le pievi-parrocchie rurali, poi le prevosture e i priorati.
La prima pieve menzionata è quella di Quadriciana, presso Scarnafigi, nella pianura saluzzese: nel 989 il vescovo Amizone la donò alle monache di San Pietro in Torino.
Poi il numero andò crescendo, tanto che nel cattedratico del 1386 risultavano 66, distribuite in tutto il territorio, ma soprattutto in pianura e collina, ed erano dedicate in gran parte alla Vergine, a San Pietro e a San Giovanni Battista.
A partire dall’XI . comparvero le prevosture, costituite da un collegio di chierici secolari, che seguivano regola e ufficiatura liturgica comuni; da alcune derivarono i capitoli dei canonici.
Talune assunsero notevole autorità: San Lorenzo di Oulx esercitava giurisdizione nell’alta valle di Susa e nel Pinerolese, nel Saluzzese, nel Delfinato e nella Savoia: scomparve nel 1748 con la erezione della diocesi di Pinerolo.
Infine i priorati, fondati da abbazie e da prevosture: a esempio il priorato di San Pietro di Cavallermaggiore dipendeva dall’abbazia di Breme, in Lomellina.
Il risultato fu che nel XV . il processo di «parrochia lizzazione» era compiuto: le pievi persero autorità e varie chiese e cappelle assunsero autonomia pastorale.
La diocesi di Torino nel Trecento non soffriva particolari difficoltà nel reclutamento del clero.
Se esperienze ereticali – soprattutto valdesi – erano presenti nelle vallate alpine e in alcuni centri della pianura, esse non sono segnalate nella città di Torino.
A livello istituzionale, degno di nota fu il sorgere e il progressivo affermarsi del capitolo della cattedrale.
Istituito verso la metà del IX . dal vescovo Reguimiro (838-860), apparve nella sua pienezza in un diploma dell’imperatore Enrico III del 1047: comprendeva tre dignità (prevosto, arcidiacono, arciprete), due personati (primicerio e cantore) e venti prebendati.
Tale struttura fu codificata dagli statuti del 1468.
Il suo potere elettivo del vescovo fu acquisito probabilmente nel XII sec.; non mancarono in proposito gravi contrasti con la Santa Sede.
Costituito da aristocratici locali (Rovere, Beccuti, Borgesi, Gorzano), accolse poi (XIII sec.) anche Acaia e Savoia, sempre più presenti nel Piemonte occidentale e a Torino.
Già nell’XI . è documentata l’esistenza di canonici «cardinali»: coadiuvavano il vescovo nel governo ed erano titolari delle principali chiese di Torino, dette appunto «cardinali».
Di particolari poteri era dotato l’arcidiacono: nella sottoscrizione dei documenti la sua firma precedeva le altre; egli ricopriva l’ufficio di amministratore sede vacante ed esercitava giurisdizione sulle parrocchie della valle della Stura di Demonte.
Quella comunale fu l’epoca degli ordini mendicanti.
I primi furono i francescani, già presenti a Torino nel 1228, affiancati negli anni Quaranta dalle clarisse, attorno alla chiesa di San Francesco d’Assisi.
Stanziati in altri centri della regione, come Chieri e Savigliano, i domenicani giunsero a Torino soltanto attorno al 1271, nel convento di San Domenico presso la chiesa omonima.
Più tardi, nel capoluogo e nei principali centri comparvero carmelitani, agostiniani, Servi di Maria e trinitari.
Fondato lo Studium torinese nel 1404, domenicani e francescani furono i protagonisti della facoltà di teologia, come docenti e come allievi; mentre nella facoltà giuridica fu dominante la presenza del clero diocesano.
Durante lo scisma d’Occidente (1378- 1417) la Chiesa torinese riconobbe l’obbedienza del papa di Avignone.
Fu infatti Benedetto XIII ad autorizzare con bolla del 27 ottobre 1404 il principe Ludovico di Savoia-Acaia ad aprire uno Studium nei suoi Stati; era allora vescovo di Torino Giovanni Orsini dei signori di Rivalta (1364-1411).
Nel Quattrocento fu la potente e colta famiglia dei Romagnano a emergere nel mondo ecclesiastico, ma non solo; pose suoi uomini in posti chiave del capitolo della cattedrale di Torino e della prevostura di Oulx.
Due furono eletti alla cattedra di san Massimo: Aimone (1411- 1438) e Ludovico (1438-1468).
Durante l’episcopato di quest’ultimo avvennero due fatti gravidi di conseguenze: in compenso per la rinuncia dell’antipapa Felice V, Niccolò V nel 1451 concesse ai duchi di Savoia il privilegio di proporre al papa i candidati vescovi e abati; nel 1453 avvenne quello che è passato alla storia come il «miracolo eucaristico» di Torino.
Segno dei tempi (di nepotismo), fu poi la volta di un’altra potente famiglia aristocratica piemontese, che nel corso di un secolo vide quattro suoi rampolli diventare vescovi e arcivescovi di Torino: i della Rovere di Vinovo.
Il primo e il più noto fu Domenico (1482-1501), cardinale.
Tipico vescovo rinascimentale, risiedeva a Roma nel suo palazzo, da cui governava la diocesi tramite vicari generali.
Committente di opere d’arte e mecenate, fece dono a Torino, con le sue risorse, della nuova cattedrale, in stile rinascimentale, opera del fiorentino Meo del Caprina, dedicata a San Giovanni Battista; fu terminata nel 1498, previo abbattimento della fatiscente vecchia cattedrale, costituita da tre chiese intercomunicanti: San Salvatore, San Giovanni Battista e Santa Maria.
Ottenne come successore il cugino Giovanni Ludovico (1501-1510), cui successe il nipote Giovanni Francesco.
III - L’arcidiocesi dal 1515 al tramonto dell’ancien régime
Il vescovo di Torino era suffraganeo di Milano.Leone X con bolla del 23 luglio 1513 concesse a Giovanni Francesco della Rovere (1510- 1515) l’esenzione da Milano, l’uso del pallio e delle insegne arcivescovili, e con bolla del 21 maggio 1515 eresse la provincia ecclesiastica torinese, con le diocesi suffraganee di Ivrea e Mondovì.
I motivi dell’erezione addotti nella bolla: presenza nel ducato di Savoia di chiese insigni quali Torino, Vercelli, Mondovì e Ivrea, e la loro distanza dalla metropoli milanese; i meriti acquisiti dal cardinale Domenico della Rovere con la nuova cattedrale e dai della Rovere quali castellani di Castel Sant’Angelo.
Forse non furono estranee ragioni politiche, come la benevola acquiescenza del papa verso il duca di Savoia, Carlo II, che si era inquietato per la creazione della diocesi di Saluzzo nel 1511 (in parte smembrata da Torino), voluta dal marchese, con il sostegno del re di Francia.
Le due fasi dell’episcopato del cardinale Innocenzo Cibo (tra il 1515 e il 1549), mai presente a Torino, furono intercalate dall’esemplare episcopato di Claudio di Seyssel (1517-1520): già giurista e diplomatico a servizio della Francia e dei Savoia, fu precursore – con la residenza in diocesi – della riforma tridentina alla maniera di M.
Giberti a Verona, di N.
Cusano a Bressanone e di S.
Antonino a Firenze.
Nell’anno della conclusione del concilio di Trento (1545-1563), il duca Emanuele Filiberto trasferì la capitale del ducato da Chambéry a Torino, con conseguente maggior peso dei Savoia sul governo diocesano.
Tra l’altro, il duca – approfittando della sede vacante – requisì come sua residenza il palazzo episcopale: fino al 1777 l’arcivescovo resterà senza «fissa dimora».
L’arcidiocesi, come confermò la visita apostolica del vescovo di Sarsina, Angelo Peruzzi, negli anni 1584-1585, necessitava di una profonda riforma morale e religiosa.
I duchi Emanuele Filiberto (1528-1580) e Carlo Emanuele I (1580-1630), diversamente dai re di Francia, ebbero a cuore la riforma tridentina, per la quale sostennero gli arcivescovi Girolamo della Rovere (1564-1592) e Carlo Broglia (1592-1617).
Il della Rovere celebrò diversi sinodi; ma l’iniziativa riformatrice più incisiva fu la fondazione nel 1567 del seminario diocesano, decisa nel sinodo provinciale del 1565.
Evento significativo fu il trasferimento della Sindone da Chambéry a Torino, nel 1578, per volontà del duca.
Tuttavia, vero vescovo riformatore tridentino fu il successore, Broglia, che con l’esempio e con efficaci iniziative pastorali (almeno sette sinodi e una sistematica visita pastorale a tutta la diocesi, divisa in ventuno vicarie foranee) ottenne un miglioramento della vita religioso-morale.
Per arginare e debellare la presenza protestante, affidò numerose missioni a gesuiti e cappuccini, in quasi tutte le valli alpine.
Anche per riformare la vita cristiana, ricorse ai mendicanti riformati (cappuccini e agostiniani scalzi) e ai nuovi ordini dei chierici regolari (gesuiti, barnabiti ecc.), diffusi in Torino e in molti centri della diocesi, chiamati dagli stessi duchi.
Nel 1592 fu stralciata la nuova diocesi di Fossano.
Povertà, fiscalismo ducale, guerre continue ed epidemie ricorrenti rendevano la vita grama: la peste del 1599 fu terribile e uccise quasi tutti i parroci di Torino.
Tali piaghe continuarono nel Seicento, aggravate dalla lunga lotta, in casa Savoia, tra principisti e madamisti.
Mancarono arcivescovi di rilievo.
Emersero invece, tra fine Seicento e inizio Settecento due figure carismatiche, punti di riferimento per ogni ceto: il beato Sebastiano Valfré (1629- 1710), dell’oratorio di San Filippo, e la beata Maria degli Angeli (1661-1717), del carmelo di Santa Cristina.
Il Settecento, iniziato con la guerra contro la Francia, terminata con l’assedio e la vittoria del 1706, dominato politicamente nel primo trentennio da Vittorio Amedeo II, re di Sicilia nel 1713 e poi di Sardegna nel 1720, fu per la Chiesa torinese, nonostante frequenti scontri tra Santa Sede e la corte di Torino, un grande secolo grazie in primo luogo a una singolare serie di prestigiosi arcivescovi.
Alla morte del Vibò (1690-1713) seguì, per i contrasti diplomatici ricordati, una lunga vacanza, terminata con la nomina del barnabita Francesco Arborio di Gattinara (1727-1743); gli atti qualificanti del suo episcopato furono la visita pastorale (comprese le valli della Stura di Demonte e le pinerolesi) e il sinodo diocesano nel 1729, anno in cui anche Saluzzo divenne suffraganea di Torino.
Nel 1735 fondò in seminario l’Opera degli esercizi per i parroci e i sacerdoti della diocesi; sostenne la creazione delle Conferenze di teologia morale (pratica), istituite dal sovrano nel 1738.
Dopo un secolo e mezzo tornò un cardinale sulla cattedra di san Massimo con Giovanni Battista Roero dei conti di Pralormo (1744-1766): il cerimoniale dell’ingresso contemplava il dono di un cavallo bianco da parte della città.
Visita pastorale e sinodo caratterizzarono anche il suo episcopato, ma con un’importante novità per la prima: fu introdotta la prassi di un questionario dettagliato inviato preliminarmente ai parroci.
Alla nuova diocesi di Pinerolo, creata nel 1748, Torino lasciò sedici parrocchie situate all’imbocco della val Chisone.
Nella ormai annosa e lacerante polemica tra gesuiti e giansenisti e i loro rispettivi fautori, il Roero si schierò con i gesuiti, attirandosi dai giansenisti l’appellativo di «pappagallo dei gesuiti».
Rilevante figura carismatica fu in questi decenni in Torino il cappuccino sant’Ignazio da Santhià (1694-1770), soprannominato «il santo del Monte», mentre nel clero diocesano emerse la personalità dell’abate Pietro Costa (1672-1760): rettore del seminario dal 1704 fino alla morte; non solo ne costruì il monumentale edificio, ma ne fu l’artefice morale: con lui il seminario assunse una precisa fisionomia formativa con il conseguente miglioramento del clero.
Tuttavia l’episcopato piemontese si formava prevalentemente nelle facoltà teologica e soprattutto giuridica dell’Università di Torino.
Personalità eminenti e pastori di rilievo furono Francesco Lucerna Rorengo di Rorà (1768-1778) e il cardinal Vittorio Gaetano Costa d’Arignano (1778-1796), che incisero in profondità nella pastorale e nella vita religiosa.
Il capolavoro pastorale del Rorà, cui i posteri applicarono il detto benedicere et praedicare, fu la visita pastorale a tutta la vasta diocesi, comprese le cappelle di montagna; eventi significativi del suo episcopato: erezione della diocesi di Susa il 3 agosto 1772 e ritorno al possesso di un episcopio, concesso l’11 marzo 1777 dal re Vittorio Amedeo III, che stimava l’arcivescovo, già da lui scelto come grande elemosiniere, ossia vescovo di corte.
Il successore, Gaetano Costa, ne proseguì la linea pastorale, imprimendo una traccia profonda nella diocesi anche per i decenni successivi con il catechismo diocesano del 1786 – Compendio della Dottrina cristiana – e il sinodo del 1788, che si collocò, non solo cronologicamente, tra il sinodo giansenista di Pistoia del 1786 e la Rivoluzione francese del 1789; guardato con simpatia dalla Santa Sede e con apprensione dai giansenisti, il sinodo dimostrò la possibilità di una riforma, tra gli opposti estremismi dei giansenisti e degli zelanti.
Era la cosiddetta «via di mezzo», già promossa dal Rorà, il quale, pur contrario ai gesuiti, aveva scontentato illuministi e giansenisti.
Questa linea, che in modo approssimativo e indebito verrà bollata dall’agiografia ottocentesca, specie nella teologia morale, come giansenista, o filogiansenista o rigorista, desiderava un clero meno numeroso, ma più colto e più zelante; una predicazione meno fantasiosa e meno retorica, ma più semplice e nutrita di Sacra Scrittura; religiosi meno numerosi, ma più fervorosi e più collegati con la pastorale parrocchiale; una devozione popolare purificata dalle deviazioni paganeggianti e orientata alla centralità della preghiera liturgica.
Costa svolse un importante ruolo civile negli anni del tramonto dell’ancien régime, sotto la pressione delle idee e degli eserciti rivoluzionari, tanto che il 9 maggio 1796 fu nominato primo ministro da Carlo Emanuele IV; senonché la sera stessa fu colpito da grave malattia che lo condusse alla morte il 16 maggio.
IV - Dalla Rivoluzione al Vaticano II
Seguì, nel periodo franco-napoleonico (1798-1814), la bufera che travolse quasi tutte le strutture ecclesiastiche, tra cui il seminario e le congregazioni religiose: scomparvero definitivamente i camaldolesi, i minimi di san Francesco da Paola, i teatini, i trinitari, i carmelitani e gli agostiniani scalzi.Numerosi furono i preti giacobini, ma la stragrande maggioranza del clero fu contraria alla rivoluzione e a Napoleone.
Governarono la diocesi Carlo Buronzo del Signore (1787-1805) e l’agostiniano Giacinto della Torre (1805-1814).
Il primo, uno studioso vercellese, si trovò a disagio nei repentini cambiamenti politici; ritenuto non sufficientemente ligio, fu costretto alle dimissioni da Napoleone.
Il successore della Torre, voluto dall’imperatore, si adeguò al non esaltante ruolo di fedele (e servile) esecutore della politica ecclesiastica napoleonica.
Con la bolla del 17 luglio 1817, come tutte le altre diocesi piemontesi anche quella torinese assunse confini definitivi, durati fino a oggi: lasciò alla nuova diocesi di Cuneo la valle di Stura di Demonte e ebbe da Ivrea e Asti alcune parrocchie.
Il camaldolese Colombano Chiaveroti (1818-1831) e Luigi Fransoni (1832-1862) furono i vescovi della Restaurazione.
Diversamente dalla confinante Francia, la pratica religiosa non subì contraccolpi rilevanti dagli eventi rivoluzionari.
Le ordinazioni presbiterali registrarono un incremento esponenziale soprattutto negli anni Trenta e Quaranta.
Chiaveroti aveva infatti aperto nel 1829 un secondo seminario filosofico-teologico a Chieri, frequentato dai futuri santi Giuseppe Cafasso (1811-1860) e Giovanni Bosco (1815-1888).
Fu ancora Chiaveroti a riconoscere nel 1823 il convitto ecclesiastico di San Francesco d’Assisi, fondato dall’abate Luigi Guala nel 1814, istituzione prestigiosa (una delle fonti del miglioramento del clero diocesano torinese, ma non solo) soprattutto sotto la direzione del Cafasso negli anni 1848-1860.
Sorsero la Piccola Casa della Divina Provvidenza per iniziativa del canonico Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842) e le opere della Marchesa Giulia di Barolo (1786-1864): Borgo Dora e Valdocco grazie anche all’oratorio di don Bosco a partire dagli anni Quaranta, diventarono la cittadella della carità cristiana.
I personaggi citati e le loro congregazioni religiose segnarono l’inizio di un duplice fenomeno: un’eccezionale fioritura di santità canonizzata e di congregazioni di vita attiva soprattutto femminili.
Ruolo educativo e pastorale importante assunsero i salesiani di don Bosco.
La seconda parte dell’episcopato del Fransoni coincise con il Risorgimento, che ebbe in Torino la sua culla e la prima capitale dell’Italia unita nel 1861, grazie alla politica sabauda; ma registrò il deleterio scontro tra Stato e Chiesa, emblematizzato dal cosiddetto «caso Fransoni».
Vittima di provvedimenti illiberali, l’arcivescovo pagò con il carcere e poi con l’esilio a Lione la sua coerenza; ebbe però il torto di non accettare anche i legittimi cambiamenti politici e sociali, che peraltro produssero effetti pastorali enormi.
Torino con la cintura, a partire dall’inizio del XIX . fino agli anni Settanta del XX fu città di immigrazione, prima dalla campagna piemontese, poi da altre regioni: 65.000 abitanti nel 1808, 204.000 nel 1861, 335.000 nel 1901, 502.000 nel 1921, 1.000.000 nel 1961.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento, condizionata dalla dominante cultura positivista, si trasformò in città industriale (Fiat) e operaia, con un agguerrito movimento socialista visceralmente anticlericale e un vivace movimento cattolico, nel quale emersero san Leonardo Murialdo (1828-1900) e il beato Pier Giorgio Frassati (1901-1925), e che produsse nel 1899, tramite la Democrazia cristiana, il Programma amministrativo dei cattolici torinesi, che ispirò don Sturzo.
Cambiamenti pastorali: progressiva centralità della parrocchia (meno monasteri e conventi, clero diocesano più zelante), spostamento del baricentro pastorale dalla campagna a Torino città e cintura, mentre la devozione mariana trovò la massima espressione nei santuari cittadini della Consolata e di Maria Ausiliatrice.
I vescovi: Ricardi di Netro (1867-1870) fondò la Pia unione di San Massimo per le missioni popolari e partecipò al Vaticano I, su posizioni antinfallibiliste.
Lorenzo Gastaldi (1871-1883), il più importante arcivescovo del secolo, celebrò cinque sinodi, ottenne dalla Santa Sede l’erezione delle facoltà teologica e giuridica nel seminario; difese con coraggio l’ortodossia e la santità di Antonio Rosmini.
Il cardinale Gaetano Alimonda (1883-1891) cercò di stemperare le tensioni del precedente episcopato.
Tipico vescovo intransigente, attivissimo e sostenitore dell’Opera dei congressi, fu Davide Riccardi (1891-1897).
Al cardinale Agostino Richelmy (1897-1923), soprannominato malleus modernistarum, va ascritto il merito storico del sostegno offerto a Giuseppe Allamano nella fondazione dei missionari e delle missionarie della Consolata.
Tre iniziative s’impongono nell’episcopato del cardinale Giuseppe Gamba (1923-1929): la fondazione della «Rivista Diocesana Torinese» nel 1924, il concilio pedemontano nel 1927 e i radicali restauri della cattedrale negli anni 1926- 1928.
Dal XIV . quello del cardinal Maurilio Fossati (1930-1965) fu l’episcopato più lungo, durante il quale Torino quasi raddoppiò la popolazione.
Per dotare di parrocchie la città in espansione, nel 1935 fondò «Torino-chiese»; per la pastorale operaia sostenne l’Onarmo e istituì i cappellani del lavoro, primo fra tutti l’orionino don Giuseppe Pollarolo; nel conflitto mondiale, fu vicino alla popolazione specie durante le devastanti incursioni aeree e avviò un capillare soccorso agli ebrei, coadiuvato da clero, religiosi, religiose e laici; promosse i due settimanali «La Voce del Popolo» e «Il Nostro tempo»; nel 1949 inaugurò il grandioso seminario di Rivoli e nel 1953 celebrò a Torino il congresso eucaristico nazionale.
La riforma conciliare fu magistralmente avviata dal cardinale Michele Pellegrino (1965-1977) e saggiamente continuata dal cardinale Anastasio Ballestrero (1977-1989), nonostante la contestazione e la tragedia del terrorismo, che ebbe in Torino, città operaia e della Fiat, uno degli epicentri.
Pellegrino fu sensibile al mondo operaio, come si evince tra l’altro dalla lettera pastorale Camminare insieme, dal sostegno ai preti operai e alle Acli.
Nel 1968 istituì la sezione torinese della facoltà teologica dell’Italia settentrionale e nel marzo 1972 introdusse il diaconato permanente.
Uomo di onestà cristallina e vescovo zelante alla maniera dei grandi padri della Chiesa, esercitò la parrhesia, praticò e promosse il dialogo ecumenico: fu in amicizia con Oscar Cullmann.
Segno di contraddizione, fu amato e contestato.
La sua ricca e difficile eredità passò nella mani del carmelitano Ballestrero: profondo contemplativo, concreto e saggio uomo di governo, stemperò le tensioni, proponendosi la riconciliazione sia nella comunità ecclesiale sia in quella civile, lacerate dalla contestazione e dal terrorismo.
Eventi ecclesiali: ostensione della Sindone nel 1978, due visite apostoliche di Giovanni Paolo II, nel 1980 e nel 1988, e i contestati esami del carbonio 14 sulla Sindone nel 1988.
Il prestigio di presidente della Cei toccò il vertice al convegno ecclesiale di Loreto nel 1985.
Agli entusiasmi postconciliari seguì, inatteso, l’aggravarsi della secolarizzazione: calo della pratica religiosa, delle vocazioni presbiterali e di vita consacrata e dei matrimoni religiosi, con nuovi problemi pastorali posti dall’immigrazione extraeuropea, specie musulmana.
Riscontro positivo: il promettente fiorire dei movimenti ecclesiali.
Alla guida della Chiesa di san Massimo si sono poi succeduti i cardinali Giovanni Saldarini (1989- 1999) e Severino Poletto (dal 1999).
Al primo si devono il sinodo diocesano negli anni 1994-1997 e l’ostensione della Sindone nel 1998, con milioni di pellegrini, tra cui Giovanni Paolo II.
L’ostensione giubilare del 2000 è stata guidata dal successore Poletto, la cui iniziativa pastorale più incisiva è l’istituzione delle 64 unità pastorali, il 1° settembre 2003.
I quadri diocesani nell’anno 2004 erano questi: 638 presbiteri diocesani, 128 diaconi permanenti, 1117 religiosi, di cui 714 presbiteri, 3715 religiose.
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Diocèse de Torino
Chiesa di San Giovanni Battista
Diocèse
SOURCE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.