Diocesi di Prato
STORIA
I - Le origini e l’età medievale
Le prime testimonianze dell’esistenza di un Borgo al Cornio, forse erede di un pagus romano danneggiato o distrutto durante gli scontri militari della guerra greco-gotica, rimontano al X sec., attestandovi una pieve intitolata a Santo Stefano limitrofa a una struttura castellana che, insistendo su un pratum, avrebbe da quello spazio aperto derivato il suo nome.L’organizzazione di nuclei rurali sparsi sia nella pianura sia sui primi contrafforti collinari sembra essere avvenuta in età longobarda; tuttavia l’assenza di agglomerati umani di un qualche significato avrebbe indotto, a livello di distrettualizzazione ecclesiastica, la ripartizione del territorio della vallata del Bisenzio tra i vecchi municipia (e quindi tra le diocesi) contermini di Pistoia e di Firenze.
La formazione di un articolato tessuto antropico nella zona ricalcato sul reticolo delle pievi e delle chiese da esse dipendenti si rivela compiutamente solo a partire dal IX sec., evidenziando, qui come altrove, la formazione di un ceto aristocratico rurale di origine longobarda arricchitosi all’ombra dell’amministrazione dei beni ecclesiastici.
Dalla val di Bisenzio al Montalbano la presenza delle strutture territoriali della chiesa fu l’occasione per la formazione di una serie di populi che assunsero, tra la fine dell’XI e gli inizi del XIII sec., la fisionomia che tuttora la zona conserva.
Prato andò definendosi come nucleo urbano tra X e XI sec., assumendo gradatamente una posizione eminente rispetto ai centri rurali dei dintorni.
A determinare il suo sviluppo medievale concorsero vari fattori: la sua felice posizione stradale – all’incrocio tra una via transappenninica che si snodava lungo la valle del Bisenzio e un percorso pedemontano evolutosi dall’antico tracciato della Cassia – ma anche la natura del fiume le cui acque, incanalate ad alimentare mulini e gualchiere, consentirono il precoce sviluppo di attività manifatturiere.
Queste condizioni favorirono l’aggregazione delle due aree abitate del borgo di Cornio, stretto attorno alla pieve di Santo Stefano, e della struttura castellana sulla quale nell’XI . vanterà diritti e giurisdizioni il ceppo comitale degli Alberti di Vernio.
A partire dal XII sec., epoca cui attiene anche il primo definirsi di un’identità comunale della terra di Prato, si colgono i segni di una crescente tensione verso l’autonomia della pieve (allora restaurata e ampliata rispetto al suo antico impianto altomedievale) nei confronti dell’ordinario diocesano pistoiese, alla quale essa era soggetta.
Originariamente appartenuta alla diocesi di Firenze e poi passata a Pistoia quale indennizzo per decurtazioni a essa imposte a favore di Lucca, Santo Stefano avviava in questo periodo un serrato contenzioso che l’avrebbe a più riprese, insieme al suo capitolo, non solo messa in contrasto con le chiese dipendenti, ma anche con gli ordinari diocesani.
Nel 1133 essa otteneva da Innocenzo II di essere posta sotto la diretta soggezione della Santa Sede, salvo il rispetto di alcuni diritti/doveri propri della funzione episcopale, come l’ordinazione dei sacerdoti, l’amministrazione della cresima, la consacrazione di chiese, che vennero lasciati ai presuli pistoiesi; in quello stesso anno i canonici avevano ottenuto dagli eredi del conte Alberto la promessa di non consentire l’edificazione di altri edifici ecclesiastici nel territorio della pieve senza l’espressa licenza del preposto e del capitolo.
Gli stessi signori pochi anni avanti avevano ceduto alla pieve i diritti sullo sfruttamento di una gora del Bisenzio che alimentava un mulino a Santa Lucia in Monte, preludio alla successiva acquisizione da parte dei canonici anche del ponte che consentiva l’attraversamento del fiume e l’uso di un ospedale annesso.
L’ampliarsi dei diritti e dei privilegi dalla canonica di Santo Stefano è indizio del progressivo imporsi della pieve come soggetto politico, in grado di contrastare sempre più efficacemente le pretese giurisdizionali del caput diocesano.
In crescita per tutto il XIII sec., la polemica con i vescovi di Pistoia si sarebbe fatta più serrata nel corso del XIV, chiamando in causa non solo la curia pontificia, ma anche le risorse della devozione e della fede municipale, strette attorno al vessillo della identità cittadina costituito dalla reliquia della Cintola di Maria.
Simbolo del prestigio della pieve, prima ancora che vanto municipale poi «espropriato » alla gestione del capitolo dalle autorità civili, il Santo Cingolo sarebbe divenuto uno degli strumenti fondamentali per la rivendicazione dell’autonomia della chiesa pratese dalla odiata soggezione a Pistoia.
Per ribadire il «possesso» della reliquia sarebbero state commissionate le «scritture» che ne trasmettevano la leggenda così come i grandi cicli di affreschi che la narravano a quanti non sapevano leggere, mentre attorno alle sempre più complesse ritualità della sua ostensione si giocarono le rivendicazioni di prestigio e di potere dei canonici, ora nei confronti dell’autorità diocesana (così nel 1406 quando il preposto della pieve impedì al vescovo di mostrare al popolo la reliquia, rivendicando al solo capitolo quel privilegio), ora nei confronti delle autorità cittadine che andarono lentamente espropriando al capitolo la gestione di quel culto ormai sentito come «civico» e in quanto tale regolamentato anche negli statuti municipali.
Occasione dunque di una opposizione al riconoscimento dei diritti episcopali pistoiesi sulla Chiesa pratese, il possesso del Santo Cingolo da parte dei canonici di Santo Stefano fu anche con ogni probabilità l’argomento con cui si giustificò, sotto il pontificato di Gregorio XII, la concessione dell’autonomia alla pieve rispetto alla matrice diocesana.
A un incerto privilegio che scioglieva la loro Chiesa dalla dipendenza pistoiese fecero infatti ricorso già nel novembre del 1416 i canonici, ricusando al vicario episcopale anche il diritto alla visita alle chiese del plebato.
La sicurezza dei prelati pratesi si fondava anche sul progetto di riordino delle circoscrizioni ecclesiastiche che Firenze andava caldeggiando dal 1409, quando, all’indomani della compra di Pisa, si era ritenuto utile progettare una ridistribuzione delle province ecclesiastiche più coerente con le esigenze dello Stato territoriale.
Proprio per risolvere una volta per tutte l’antico contenzioso tra Prato e Pistoia gli ambasciatori fiorentini avevano presentato a papa Alessandro V, allora impegnato proprio in Pisa per i lavori del concilio, la formale richiesta per l’elevazione della terra pratese in città vescovile, garantendo alla programmata nuova diocesi una congrua dotazione di plebanati e rendite.
La resistenza pontificia ad assecondare i propositi di Firenze non consentì allora alcun adeguamento tra la consuetudine amministrativa della Chiesa toscana e le forme di gestione territoriale introdotte da Firenze nel suo dominio, ma una cinquantina d’anni più tardi, il 3 settembre 1463, Pio II riconosceva il plebato pratese come nullius dioecesis, liberandolo dalla giurisdizione dei vescovi di Pistoia.
II - L’età moderna
Dovevano passare quasi altri due secoli (si era infatti nel 1653) prima che il cardinale Carlo de’ Medici, fratello del granduca Ferdinando II e al tempo decano del Sacro Collegio, si adoperasse per far elevare la pieve di Santo Stefano a quella dignità cattedrale per la quale tanto lungamente avevano combattuto i prelati che lo avevano preceduto nella ricca prepositura di cui egli godeva la prebenda.Più che di una vittoria si trattò di un compromesso, dal momento che la dignità episcopale pratese fu riassunta nella contitolarità della nuova diocesi di Prato e Pistoia, rimanendo di fatto in quest’ultima città la sede diocesana e limitato al solo distretto urbano il territorio soggetto alla cattedrale pratese.
Questa «semilibertà » non impedì al clero locale di giocare sull’anticipo nei confronti della antica mater pistoiese: così a esempio nel 1680, quando il vescovo Gherardi volle istituito in Prato prima che in Pistoia il seminario diocesano.
Come la storia della plebs pratese e le sue aspirazioni verso la dignità cattedrale non possono essere lette senza il riferimento al ruolo «ideologico» e quindi politico-istituzionale assunto dalla reliquia della cintura della Vergine nello sviluppo delle forme della identità e dell’autorappresentazione civile – vocazione mariana poi rafforzata nel tardo Quattrocento e ai primi del Cinquecento attorno a un altro palladio municipale, il santuario della Madonna delle Carceri –, anche l’intero sviluppo degli insediamenti religiosi in città e nel suo territorio non sono comprensibili al di fuori della fortunata stagione mercantile della Prato medievale e del suo indotto «spirituale».
Religiosità e affari, usura e beneficenza si sarebbero fuse nella storia della devozione pratese nei compositi nessi delle concezioni etiche medievali secondo le quali, come i libri di conto dei mercanti testimoniano, era possibile aprire un capitolo di spesa intestato a «Messer Domineddio».
Anche la fortuna insediativa delle nuove famiglie religiose a Prato, che datava dal XIII sec., era stata assicurata dal successo del loro apostolato tra i ceti emergenti dei nuovi operatori economici; dapprima i francescani, poi nella seconda metà del secolo i domenicani, seguiti a ruota dagli agostiniani, cui si aggiunsero nel Trecento sia i serviti sia i carmelitani, stimolarono una fiorente tradizione regolare che ebbe negli istituti femminili – anche quelli sorti spontaneamente tra i laici, come nel caso delle terziarie dei vari ordini – una delle sue componenti più vivaci.
Con il passaggio del Granducato dalla gestione dei Medici a quella dei Lorena, anche qui prendeva avvio la stagione delle riforme amministrative e giurisdizionali e con essa i presupposti di quella politica liberista che porterà alla rinascenza ottocentesca della città, in crescita esponenziale sotto il profilo economico e imprenditoriale insieme alla nuova classe borghese ormai chiamata a gestirne lo sviluppo.
Espressione tra le più significative dell’età leopoldina in città sarebbe stato il vivace e violento dibattito sulle riforme ecclesiastiche avviato dal vescovo Scipione de’ Ricci in applicazione ai decreti del sinodo tenutosi a Pistoia dal 18 al 28 settembre 1786.
Momento di sperimentazione degli ideali pastorali del giansenismo europeo, esso rappresentò il culmine del programma riformistico che il segretario del granduca già aveva esposto nel manifesto dei Cinquantasette punti adottato da Pietro Leopoldo nel suo intervento di riforma delle strutture ecclesiastiche dello Stato.
In quella occasione vennero applicate nella diocesi pistoiese e pratese quelle istanze di responsabilizzazione pastorale del clero parrocchiale e di partecipazione attiva della comunità dei fedeli alla vita della Chiesa che erano state compresse dalle accentuazioni gerarchiche della Controriforma.
Il sinodo pose le condizioni per un radicale rinnovamento dottrinale e disciplinare che tuttavia non trovò né tra le file del clero né tra quelle del popolo le condizioni necessarie alla comprensione della riforma che si stava tentando.
Fallito anche il progetto di estendere queste innovazioni all’intero tessuto ecclesiale dello Stato toscano, all’indomani dell’uscita di scena di Pietro Leopoldo, le posizioni assunte dal sinodo furono condannate da Roma, nel quadro della repressione antigiansenista avviata dalla bolla Auctorem fidei di Pio VI, mentre a Prato la reazione agli interventi normativi del vescovo si esprimeva sia nei moti del 1787, sia nella simpatia ostentata dai nemici del Ricci per il collegio Cicognini, avviatosi a diventare una delle scuole più rinomate d’Italia, al di là della sua origine gesuitica, in quell’epoca così tormentata per la storia della Compagnia di sant’Ignazio.
III - L’età contemporanea
Per conoscere la realtà religiosa della diocesi pratese ci si deve riferire, fino alla nomina di un vescovo autonomo nel 1954, ai vescovi della diocesi di Pistoia, ma anche ai vicari, generali e capitolari, che erano espressione della comunità pratese.In particolare a metà Ottocento era emersa una élite di sacerdoti formatisi nel seminario pratese, i quali, avendo assunto a Prato ruoli di governo come vicari, sarebbero poi stati nominati vescovi non a Pistoia ma in numerose sedi toscane di rilievo: Baldanzi (Volterra, Siena), Benini (Pescia), Targioni (Volterra), Pierallini (Colle, Siena), Limberti (Firenze).
La valorizzazione di questo gruppo omogeneo di sacerdoti formatosi nel seminario di Prato, che si distingueva per serietà di studi e per «spirito ecclesiastico », corrispondeva a una linea del governo e del magistero di Pio IX e trovava negli anni Cinquanta il favore del nunzio in Toscana Alessandro Franchi.
I confini diocesani, che per tutto l’Ottocento avevano coinciso con le mura cittadine, con la sola eccezione suburbana di Santa Maria della Pietà, vennero adeguati, nel settembre del 1916, con quelli della circoscrizione civile: da nove parrocchie, quelle ancora del periodo ricciano, si passò a 48, con cinque vicariati extraurbani; i sacerdoti da 60 divennero 104, i regolari da 14 a 24, le case religiose da 11 a 16, la popolazione raggiunse i 60.000 fedeli; molto significativo anche l’aumento delle religiose che nel 1951 avrebbe raggiunto le trenta comunità con 308 presenze.
Questi ultimi dati evidenziano il profondo collegamento con il processo di industrializzazione che apriva spazi nuovi all’ambito educativo e assistenziale.
La nomina di un vescovo autonomo, Pietro Fiordelli nel 1954, non mutò la realtà istituzionale, mentre nel 1975 Pistoia cedette a Prato altre dodici parrocchie della montagna, nei comuni di Cantagallo e Vernio, nel quadro di un più ampio riassetto dei confini delle diocesi toscane.
L’azione pastorale di Fiordelli si caratterizzò subito per una attenzione peculiare al tema della famiglia, in particolare stigmatizzando la diffusione dei «matrimoni cosiddetti civili, cioè atei» e ricordando che per i battezzati tali unioni erano unicamente un «deplorevole concubinato».
Nel 1956, di fronte alla decisione di una coppia di celebrare il matrimonio con il solo rito civile, inviava al parroco una notificazione nella quale invitava il sacerdote a considerare i due fedeli in quanto battezzati, ricordati esplicitamente con nome e cognome, come «pubblici peccatori», negando loro i sacramenti, la possibilità di essere padrino e madrina, il funerale religioso, così come veniva interdetta la benedizione pasquale alle loro case e a quella dei genitori.
Il testo episcopale veniva pubblicato sul bollettino parrocchiale e veniva letto in tutte le messe del 12 agosto.
La pubblicità data alla censura suscitava immediatamente scalpore e i coniugi, Mauro Bellandi e Loriana Nunziata, querelavano il vescovo e il parroco per «diffamazione aggravata e continuata».
La sezione istruttoria della Corte d’appello di Firenze accoglieva l’istanza rinviando a giudizio il vescovo e il parroco.
Il rilievo nazionale dell’episodio veniva evidenziato dai numerosi interventi di specialisti su riviste giuridiche e anche dalla fama degli avvocati della difesa e dell’accusa: d’Avack, Fortini e Delitala per la difesa e Piccardi e Battaglia per i coniugi.
Il vescovo non si presentò al processo affermando di non poter accettare una giurisdizione dello Stato sulla sua azione di «governo spirituale» e anche questo gesto accentuava il clima di contrapposizione che tendeva a scavalcare il caso singolo per porre il problema dei principi generali e della giurisdizione statuale e ecclesiastica.
Nonostante il pubblico ministero, Mazzanti, avesse chiesto l’assoluzione degli imputati, il tribunale di Firenze rivendicava la propria giurisdizione condannando il 1° marzo 1958 il vescovo per il reato di diffamazione.
Una grande mobilitazione si verificava nella Chiesa italiana; numerosi gli interventi de «La Civiltà Cattolica» e di autorevoli esponenti della gerarchia cattolica.
Il fatto assumeva il significato emblematico del complesso rapporto tra la Chiesa e la società italiana in un difficile passaggio legato ai processi di secolarizzazione della società.
Le lettere pastorali del vescovo, anche nei decenni successivi, si sarebbero caratterizzate con un’attenzione privilegiata alla compattezza della famiglia e della morale familiare.
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FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.