Diocesi di Padova
STORIA
L’assenza di fonti specifiche relative al processo di diffusione del cristianesimo primitivo in diocesi di Padova non consente di proporre cronologie precise.Tuttavia, nel processo diacronico di conoscenza delle fonti, è legittimo ipotizzare come cosa verosimile che nel corso del III . anche nel municipium di Patavium si avvii quel processo di evangelizzazione e di cristianizzazione che condurrà più tardi alla costituzione della sede vescovile.
A Padova non ci sono indizi specifici per risolvere il problema cronologico dell’istituzione episcopale.
La tradizione, poggiata alla «immagine clipeata» risalente all’inizio del VI . e alle leggende assai tardive della Vita sancti Prosdocimi e della Passio sanctae Iustinae, riconosce tuttavia come protovescovo della città Prosdocimo, figura con tutta probabilità legata alla città, ma di cui non è possibile puntualizzare con esattezza la cronologia.
La scarsità dei dati e soprattutto la loro non sempre univoca interpretazione, hanno portato nell’ultimo secolo gli studiosi a dare interpretazioni diverse e sempre problematiche sulla sua figura e sul suo culto.
Le posizioni più radicali ne hanno negato l’esistenza storica; le più possibiliste lo hanno ritenuto il primo vescovo e l’evangelizzatore di Padova, fondatore della Chiesa nel Veneto al tempo della martire Giustina e delle persecuzioni del III . In quanto al periodo in cui visse, una serie di elementi inducono a porre la sua attività di vescovo non al tempo delle persecuzioni, ma in epoca post-costantiniana, nel IV sec.; inoltre non visse nello stesso periodo della vergine Giustina, anche se la tradizione tardo antica-altomedievale ritenne poi di intrecciare le vicende dei due santi, ponendole alla radice della Chiesa padovana.
È l’unico degli antichi vescovi padovani di cui si siano conservati e la tomba e il culto.
Prosdocimo non fu martire, ma sopravvisse all’era dei martiri.
Rimanendo ancorati alle documentazioni sicure, è testimoniato con certezza verso la metà del IV . un vescovo di Padova di nome Crispino, che sottoscrisse gli atti del concilio di Serdica del 344.
È ricordato per l’appoggio che offrì ad Atanasio di Alessandria, esule in Occidente per la sua fedeltà al credo di Nicea.
L’attestazione della diocesi nel 344 autorizza ad ammettere una sua costituzione precedente e la presenza a Padova di una consistente comunità cristiana.
Quarant’anni dopo, tra i vescovi che sottoscrissero gli atti del concilio di Aquileia (settembre 381), non tutti indicarono la propria sede.
Tra quelli che non la indicarono ci fu anche un certo Giovino: era proprio lui allora alla guida della diocesi di Padova.
In quale misura si sia diffuso il cristianesimo nella città e nel territorio padovano non lo si può arguire nemmeno dagli scarsi reperti archeologici.
La topografia cristiana è in gran parte da chiarire: è sconosciuta, a esempio, l’ubicazione della cattedrale e del suo nucleo più significativo.
Si ritiene tuttavia che, anche nella totale assenza del contributo dell’archeologia, l’antica cattedrale paleocristiana sia da collocare nell’area dove si trova quella attuale.
Non esiste nessuna testimonianza letteraria nella Padova di questo tempo.
Delle dispute religiose trinitarie e ariane del IV sec., neppure una riga.
Durante la dominazione visigota, un ruolo importante assunse la basilica suburbana di Santa Giustina, strettamente collegata al luogo originario di sepoltura della martire.
Non è esclusa l’ipotesi che il primitivo intervento costruttivo della basilica fosse legato a una committenza vescovile, cui si aggiunse un impegno edificatorio privato, da riconoscere nell’intervento successivo del prefetto del pretorio Opilione.
Una basilica così sontuosa testimoniava non solo la devozione di chi la costruì, ma anche la vitalità della comunità cristiana, alla quale furono affidate la custodia e il funzionamento.
È presumibile che allora la città fosse quasi del tutto cristiana, anche se manca ogni conferma sia letteraria che archeologica.
Poco di più sappiamo sui vescovi che si succedettero in quel periodo nella sede vescovile.
Per quanto riguarda la più antica lista a conoscenza degli storici, la maggioranza dei critici conviene che essa – a eccezione dei nomi altrimenti comprovati, come il vescovo Giovanni e il vescovo Vergilio, probabilmente suo immediato successore – è attendibile solo a partire dal 900 circa.
Padova rimase estranea alla prima ondata invasiva longobarda e fu inquadrata fino alla fine del VI . in una zona di influenza bizantina.
Sappiamo che nel 579 il vescovo patavino partecipò al sinodo gradese, dove si confermò la fedeltà alle definizioni del concilio di Calcedonia e al credo Tricapitolino, in qualità di suffraganeo del patriarca di Aquileia, allora stabilitosi a Grado.
Nel 591 il vescovo di Padova non compare tra i prelati riunitisi al sinodo di Marano Lagunare, che aggregò i vescovi longobardi, i quali lamentavano l’impossibilità di partecipare alla comunione con i fratelli rimasti in zona bizantina.
Il passo con cui Paolo Diacono ha ricordato la distruzione inflitta alla città dal re longobardo Agilulfo nel 602 è all’origine delle contrastanti interpretazioni degli studiosi circa l’effettivo svolgersi degli eventi nel drammatico passaggio dalla dominazione bizantina a quella longobarda: si trattava di una completa distruzione della città ancora florida, o di un ulteriore colpo che ne accentuò la decadenza già in atto? È ancora convincente l’opinione tradizionale che afferma una secolare assenza del vescovo padovano dalla propria diocesi? Il problema di fondo è quello di capire se all’esordio del VII sec., come conseguenza della conquista longobarda, vescovo ed episcopato padovani abbiano smarrito la coincidenza nella medesima persona, seguendo, non si sa come, strade divergenti.
Vescovi ed episcopato potrebbero in questo periodo non essere stati sempre omogenei e coincidenti.
A partire dall’età carolingia si crearono le condizioni istituzionali per cui la giurisdizione religiosa del vescovo potesse anche coincidere con le istituzioni civili cittadine.
I primi sintomi della ripresa di Padova si possono individuare nell’importanza che il suo vescovo rivestì fra IX e X . nel quadro organizzativo del regno italico.
La centralità della figura episcopale assume un valore assoluto, cui fa riscontro l’assenza, sia perché insussistenti sia perché non documentate, di altre istituzioni ecclesiastiche cittadine – salvo la canonica – fin quasi allo scadere del X . Solo a quell’epoca si hanno prove sicure dell’esistenza di un’abbazia benedettina presso la basilica di Santa Giustina (cui presto si aggiunsero i monasteri di San Pietro e di Santo Stefano), il cui ruolo nel contesto urbano fu del tutto marginale fino all’inizio del XII . Dopo queste incerte menzioni, occorre arrivare alla piena età carolingia per ritrovare un vescovo padovano.
«Dominicus Patavensis» [episcopus] fu infatti presente al sinodo mantovano dell’827, fra i suffraganei della restaurata metropoli patriarcale aquileiese.
Ed è forse attribuibile ai primi anni del IX . l’epigrafe sepolcrale del vescovo Tricidio, che sedette alla cattedra padovana per ventisei anni.
Per tutto il IX . restano avvolte in un alone di semioscurità la figura e l’attività di altri successori di Tricidio.
Tale Rorio o Rorigo, destinatario di un privilegio di protezione da parte di Ludovico II nell’855, avrebbe pontificato ancora nell’874, anno in cui avrebbe preso l’iniziativa di ricostruire e di dotare con terreni e servitù l’antica chiesa di Santa Giustina con annesso ospedale.
Un diploma, oggi smarrito, dà per buona la presenza nell’866 anche di un vescovo di nome Turingario, franco d’origine, cui Ludovico avrebbe elargito tra l’altro un’abbazia regia dedicata a san Pietro e posta nel palatium pubblico della città.
Per spiegare l’anomala simultanea presenza di due diverse persone alla guida della diocesi, non si è trovato di meglio che ipotizzare che la seconda fosse un semplice «vicario o corepiscopo» del precedente.
Nonostante siano state sollevate da tempo serie riserve riguardo all’autenticità totale o parziale di questi atti, sussistono seri indizi per sostenere una graduale ma sicura inversione di tendenza nella evoluzione delle strutture diocesane di Padova.
Si ha la sensazione che si siano creati finalmente, dopo secoli di eclissi, nuovi spazi per una relativa ripresa delle attività economiche, sociali e culturali.
Pur con la tara che va fatta alle informazioni veicolate fino a noi da una tradizione «aggiustata», bisogna ammettere che proprio attorno ai vescovi, ormai stabilmente collocati alla guida della diocesi con il favore e il patrocinio dell’autorità pubblica, si andò gradualmente ricostituendo un tessuto locale di interessi e di aspettative non legati alla sola dimensione religiosa del vivere, ma proiettate su più vasti campi della vita civile.
Un sintomo chiaro di questo orientamento lo si coglie già nell’897 quando, nel clima delle feroci lotte per l’egemonia sulla parte centrosettentrionale della penisola, Berengario del Friuli, cinta ormai la corona di re d’Italia, faceva dono al vescovo Pietro della vastissima corte di Sacco.
Ma non era finita.
Nel 915 egli trasferiva direttamente al vescovo di Padova Sibicone il pieno dominio dell’intera valle del Brenta e delle zone adiacenti.
Qualunque ne sia la spiegazione, è comunque legittimo inferire l’accresciuto rilievo di Padova e della sua Chiesa nel disegno strategico di governo e di presidio del territorio.
Si ritrovano qui i veri presupposti per la singolare configurazione territoriale a clessidra, assunta e mantenuta sostanzialmente fino a oggi dalla diocesi di Padova.
La fine della lunga atonia della vita diocesana di Padova si può misurare, a partire dal X sec., anche per altra via.
È nel corso di questo . che cominciano ad apparire nella documentazione padovana espressioni del tipo schola sacerdotum, canonica, canonici per designare il collegio dei sacerdoti della cattedrale.
D’altra parte nello stesso periodo la diocesi assumeva una precisa organizzazione ecclesiastica, imperniata sulle pievi o chiese battesimali, attorno alle quali gravitava tutta la popolazione delle vaste circoscrizioni rurali.
Questi inequivocabili segnali di vivacità non devono peraltro far dimenticare lo sforzo dei vescovi di rendere più razionale e omogeneo il tessuto diocesano, che continuava tuttavia a svolgersi entro un sistema per molti versi squilibrato e caotico.
Nonostante i limiti, furono questi i secoli di faticoso ma sicuro progresso verso un potente rafforzamento della cattedra vescovile e verso un assetto più dinamico e articolato in rapporto alla complessiva evoluzione della stessa società.
Una linea di ininterrotta, stretta collaborazione, anche politica, dei presuli padovani con gli Ottoni e con l’impero è stata comunque prevalente, dando in questo periodo e nella susseguente età precomunale i suoi migliori frutti.
Da un lato si assistette a una sempre più forte ingerenza imperiale, o meglio tedesca, nella designazione dei vescovi e in generale nel controllo di cariche, di feudi e di patrimoni ecclesiastici.
Dall’altro, non si arrestò quella tendenza per cui intorno ai vescovi andava coagulandosi quanto di sentimento civico rimaneva e andava via via potenziandosi.
Raccogliendo un’eredità che risaliva ai momenti funesti delle incursioni ungare, i vescovi avevano continuato bene o male a essere sulla breccia in ogni sorta di calamità incombente sui fedeli, offrendo loro un valido riferimento nella difesa, nella soddisfazione dei bisogni materiali, nell’esigenza di un minimo di giustizia e di ordine collettivo.
Su questa linea, che portò a un predominio di fatto dei vescovi in una città in netta ripresa e all’acquisizione da parte di essi di notevoli funzioni pubbliche, si può leggere quasi tutta la storia della diocesi di Padova nell’XI . Sarebbe inoltre fuori luogo fare dei vescovi padovani dei fautori di quella causa gregoriana che andava facendo breccia anche a nord dell’Appennino.
Non sussistono elementi per credere che durante la lotta contro le investiture laicali si incrinasse sulla piazza padovana il prevalente moto di idee favorevoli all’impero.
Sta di fatto che il trapasso al XII . avveniva a Padova ancora con una Chiesa e un vescovo, Piero, che nell’ottica romana apparivano scismatici e ostinati nella loro adesione al blocco delle forze filotedesche dell’Italia settentrionale.
Se c’è uno specifico nella storia della diocesi, esso sta nella tendenza ad assimilarsi nel bene e nel male al mondo germanico, anche in quegli spunti di riforma che comunemente si usa definire come «imperiale», una riforma, per così dire, attuata dall’esterno.
Sarebbe inoltre ingiusto e antistorico bollare come assolutamente negativo tutto ciò che appartiene alla lunga stagione «imperialista » della Chiesa padovana.
Del resto, non è facile una valutazione dei costi morali di una così radicale cattura dei quadri della Chiesa locale da parte dell’impero.
Solo il concordato di Worms del 23 settembre 1122 sanzionò il tramonto definitivo della lunga sintonia e della stretta subordinazione dei gangli centrali della Chiesa padovana al potere regio.
All’indomani del concordato, papa Callisto II intervenne infatti con una serie di atti ufficiali che accordavano la sua protezione alle varie componenti della Chiesa padovana e confermavano in particolare la piena giurisdizione spirituale del vescovo Sinibaldo su tutte le chiese dell’episcopato.
Era un chiaro segnale della volontà pontificia di ricondurre sotto lo stabile governo degli ordinari diocesani il variegato sistema di chiese regolari e secolari, private e pubbliche, che stava proliferando a vista d’occhio.
I vescovi che dopo Sinibaldo (1107- 1128) si susseguirono a Padova nel corso del XII . – Bellino (1128-1147), Giovanni Cazo (1148-1164), Gerardo Offreducci (1165-1213) – hanno degnamente proseguito la sua opera; si mossero complessivamente con accorta autorevolezza; difesero sistematicamente il principio del primato vescovile sulle varie componenti religiose e laiche della diocesi; assicurarono un costante sostegno alla vita comune del clero; esercitarono lo sforzo di armonizzare e far collaborare monaci e secolari per un ampio programma di espansione e di disciplinamento dei luoghi di culto.
Intorno al 1200, insomma, la Chiesa padovana era una delle più vaste e meglio attrezzate diocesi della regione veneta e dell’alta Italia.
Il comune stesso, nato nel XII . all’ombra del potere vescovile, rendeva omaggio nei primi decenni del Duecento alle due più antiche istituzioni ecclesiastiche cittadine: l’episcopato e il monastero di Santa Giustina, che custodiva la memoria delle origini cristiane della città e il corpo dei santi patroni.
In questo secolo le «cappelle», sorte verso la fine dell’XI . e agli inizi del XII, divennero sul finire del XIII . parrocchie a tutti gli effetti.
In città il loro numero variava in relazione alla crescita della popolazione che dai 10/12 mila abitanti dei primi anni del Duecento passò ai 30/35 mila del primo Trecento.
Nel contado poi le pievi costituivano un sistema molto articolato, dotato di embrionali strutture di coordinamento e di raccordi spesso personali tra centro e periferia, tra canonici della cattedrale e titolari delle pievi.
Pievi e parrocchie non esaurivano le strutture di base della cura d’anime.
Tra il 1250 e il 1300 comparvero nuove chiese monastiche benedettine.
Il desiderio di una vita più austera spinse prelati di fama e più oscuri religiosi sulle strade dell’eremo.
In questo clima di fervore e di slancio della vita religiosa si inserirono del tutto naturalmente i nuovi ordini mendicanti.
Nel 1226, sulla scia dell’onda migratoria degli universitari che da Bologna si trasferirono a Padova, si insediarono con il favore del vescovo e degli intellettuali della città i domenicani.
Meno facile è determinare con esattezza la data di arrivo dei francescani.
Una accelerazione della loro comparsa sulla scena è legata qualche anno dopo alla predicazione di sant’Antonio, che entusiasmò e trascinò le folle.
Egli riuscì a riunire attorno alla sua figura sia la Chiesa locale, sia la città che per prima proclamò la santità del frate e ne chiese compatta la canonizzazione nel 1232.
L’una e l’altra fecero di Antonio, francescano portoghese (quindi estraneo alla Chiesa locale e alla città) un santo padovano.
Nonostante il periodo di Ezzelino da Romano che, impadronitosi del comune nel 1237, aveva dato vita a un regime politico nuovo di tipo signorile, turbando gravemente la vita della Chiesa locale, si ebbe per tutto il corso del Duecento un’eccezionale fioritura di santi che non ha riscontro in nessun’altra città veneta.
Nello stesso tempo si estese e si allargò in città e nella diocesi il fenomeno confraternale.
Questi sodalizi costituirono, assieme agli ordini terziari collegati con gli ordini mendicanti, la spina dorsale della vita religiosa dei laici, soprattutto a partire dalla fine del XIII . Con il passaggio dal comune alla signoria dei Carraresi, instaurata nel 1318, la Chiesa padovana presentava un volto nuovo, sempre meno locale.
Nel XIV . solo due furono i presuli nativi di Padova.
Sottratta di fatto al clero, l’elezione del vescovo fu avocata dai papi che intervennero sempre più spesso nelle nomine, imponendo persone di propria fiducia.
I da Carrara non furono da meno: anch’essi mirarono a controllare le cariche ecclesiastiche, facendo attribuire dalla curia romana, le più prestigiose, a membri della famiglia o a loro amici e clienti.
Essi tuttavia non riuscivano a nascondere alla fine del Trecento uno stato di crisi delle strutture diocesane.
La vita del clero e dei fedeli si svolgeva all’insegna dell’incertezza e della precarietà, rese più drammatiche dalle divisioni della cattolicità a seguito dello scoppio del grande scisma d’Occidente (1378-1417).
L’inquietudine si tradusse a volte in un ripiegamento interiore, in una ricerca del deserto, in una aspirazione a un più diretto contatto con Dio.
Al tramonto dell’età carrarese la vita religiosa conquistava tuttavia nuovi adepti e gettava il seme del rinnovamento.
Creava le premesse per una ripresa di iniziative, capaci di rispondere ad attese e ansie spesso contraddittorie di riforma e di disciplinamento ecclesiastico.
Le speranze non andarono deluse.
All’indomani del crollo della signoria carrarese e del passaggio sotto la Repubblica veneta, le autorità veneziane non solo appoggiarono le nuove comunità religiose e i movimenti dell’osservanza, ma realizzarono la propria vocazione religiosa di pungolo e di guida all’interno della Chiesa padovana con una scelta oculata dei vescovi.
Dal 1405, anno della conquista della terraferma veneta, fino al 1509, esse misero a capo della diocesi una serie di esponenti qualificati della nobiltà, del patriziato e dell’umanesimo veneziano perché operassero quella via veneziana alla riforma che comportava una stretta integrazione tra strutture politiche e strutture ecclesiastiche.
Si distinsero tra tutti l’anziano vescovo Fantino Dandolo (1448-1459) e il giovane presule Pietro Barozzi (1487-1507), i quali si fecero promotori, in misura diversa e a seconda delle circostanze, di una serie di iniziative riformatrici che la tradizione ecclesiastica aveva elaborato durante i secoli.
Con la celebrazione di sinodi e con lo svolgimento delle visite pastorali, essi cercarono di porre fine al caos strutturale dell’organizzazione ecclesiastica nella Bassa padovana, nei colli Euganei e particolarmente nell’alto Vicentino, ormai alla deriva e quasi separato dal centro della diocesi.
Attraverso un lento processo di ricambio degli uomini e delle mentalità, il Barozzi riuscì con un’azione instancabile a portare le comunità del Pedemonte e dell’Altipiano quasi allo stesso livello delle altre.
La via veneziana della riforma entrò tuttavia in crisi a seguito della pesante disfatta subita dall’esercito veneto il 14 maggio 1509 ad Agnadello.
Costretta alla resa, Venezia dovette accettare le clausole della capitolazione imposta dall’alleanza antiveneziana che aveva a capo papa Giulio II.
Egli esigeva l’accettazione del regime beneficiale romano e il riconoscimento della libera collazione papale dei benefici episcopali.
Era così messo in crisi in modo irreparabile quell’antico sistema veneziano di nomina che per tutto il Quattrocento era stato a Padova la molla del riformismo religioso e del disciplinamento ecclesiastico.
Le conseguenze si rivelarono subito nefaste.
Bisognerà attendere il breve episcopato di Niccolò Ormaneto (1570-1578), all’indomani della conclusione del concilio di Trento (1563) per assistere al primo serio tentativo di restaurazione cattolica.
Essa continuò vigorosamente con il successore Federico Corner.
Con lui cominciò pure a Padova l’egemonia di quella «fazione cornara», così prepotente da considerare l’episcopato padovano come un bene privato della famiglia.
Soltanto nel 1664, con la nomina di Gregorio Barbarigo, l’egemonia dei Cornaro cessò.
Secondo il cardinale Pietro Ottoboni, tutte le parrocchie della diocesi erano allora in mano a persone indegne; non si insegnava la dottrina cristiana; i monasteri erano sottosopra; infine nell’università vi erano docenti che avevano gran dottrina, ma pessima volontà.
Secondo il futuro papa Alessandro VIII, c’era bisogno di un apostolo più che di un vescovo.
L’esperienza maturata precedentemente in diocesi di Bergamo permise al Barbarigo di essere l’uno e l’altro.
Nei trentatré anni di episcopato padovano si mantenne fedele alle linee di azione che aveva identificato durante il periodo bergamasco e che intendeva seguire anche a Padova: la visita pastorale, la formazione del clero e l’istruzione religiosa del popolo.
Alla sua morte, avvenuta il 18 giugno 1697, aveva costruito con il suo governo episcopale un saldo e funzionante sistema diocesano in grado di influire sulla società, capace di durare nel tempo e preso a modello da tutti i vescovi che lo avrebbero seguito alla guida della diocesi.
Fu l’ultimo vescovo di Padova canonizzato: l’unico dal XIV . ai nostri giorni.
Subito dopo la sua scomparsa, attorno alle sue spoglie mortali iniziò a manifestarsi un sentimento di devozione diffusa.
La fama di santità così originatasi condusse in breve tempo all’avvio del processo canonico per la sua beatificazione.
Un ruolo attivo nella vicenda fu svolto dalla famiglia del cardinale che si mosse in virtù di una ambiziosa e lucida volontà di legare la propria autopromozione morale e sociale agli esiti del processo canonico.
Le spinte della «casa», unite alla memoria collettiva della santità del cardinale, si combinarono anche con determinate istanze religiose e di politica ecclesiastica più generali che portarono il suo successore Giorgio Corner (1697-1722) ad aprire il 30 dicembre 1699, poco più di due anni e mezzo dalla morte del cardinale, il processo diocesano di beatificazione, poi esteso presso otto tribunali diocesani di altrettante città italiane.
L’introduzione della causa presso la Sacra Congregazione dei riti fu opera del suo successore Gian Francesco Barbarigo (1723-1730).
Nipote di Gregorio, egli si occupò in un modo ancora più diretto al processo canonico, allestendo a livello periferico ma sulla base di un mandato proveniente da Roma, i processi apostolici nelle sedi di Padova, Venezia e Bergamo.
Entro il terzo decennio del Settecento era quindi completata la raccolta delle testimonianze sulla vita, le virtù e i miracoli del servo di Dio.
Su questa amplissima base informativa, tra il 1746 e il 1761 si svolse in Congregazione dei riti la vera e propria fase dibattimentale del processo: lenta, minuziosa; ma, tutto sommato, priva di battute d’arresto prolungate.
Essa si concluse nel settembre del 1761, a sessantaquattro anni dalla morte, con la beatificazione del Barbarigo.
Fu decretata da Carlo Rezzonico, veneziano pure lui, legato per parte di madre a vincoli di parentela con il nuovo beato, l’unico vescovo padovano salito al soglio pontificio con il nome di Clemente XIII.
Dopo la beatificazione del Barbarigo non ci fu per lungo tempo una specifica attenzione all’ulteriore e finale traguardo della canonizzazione.
Questa situazione si mantenne pressoché inalterata fino ai primi del 1900, nonostante il tentativo di rinvigorirne la devozione compiuto dal vescovo di Padova Giuseppe Callegari in occasione della ricorrenza nel 1897 del secondo centenario della morte del beato.
Soltanto nel 1911, in coincidenza con il terzo cinquantenario della beatificazione si arrivò a una iniziativa ufficiale mirata alla ripresa dell’impegno per la canonizzazione del cardinale.
Il regista fu il successore del Callegari, il vescovo di Padova Luigi Pellizzo.
Concordata l’iniziativa con il vescovo di Bergamo Giacomo Maria Radini Tedeschi, egli si fece promotore assieme al clero diocesano della riassunzione della causa del Barbarigo e il 6 gennaio 1912 presentò la domanda alla Sacra Congregazione dei riti che si espresse in senso favorevole il successivo 27 febbraio.
Pio X, dal canto suo, confermò la decisione il giorno seguente.
La celerità di questi pronunciamenti sta a dimostrare che papa Sarto, già a suo tempo alunno del seminario di Padova dove aveva trascorso gli otto anni più belli della sua vita, era senz’altro favorevole ancor prima della presentazione della richiesta.
Anzi è legittima la supposizione che l’iniziativa del Pellizzo avesse il suo avallo preventivo, se non addirittura che fosse lui a dare il primo impulso.
Lo sforzo compiuto nel 1912 non produsse tuttavia nell’immediato risultati apprezzabili con riscontri significativi a livello romano specialmente dopo la scomparsa di Pio X.
Un nuovo slancio alla causa venne impresso ancora una volta a partire da Padova tra il 1952 e il 1954.
Il vescovo Girolamo Bortignon stabilì di riprendere il percorso interrotto, cercando di risuscitare la fiducia popolare nell’intercessione del beato mediante uno strumento straordinario: il trasporto del corpo del cardinale nelle parrocchie della diocesi.
Con questa iniziativa monsignor Bortignon intendeva superare lo scoglio dell’assenza dei miracoli necessari alla definitiva approvazione del candidato alla santità, di fronte al quale si erano arenati i precedenti tentativi.
Quando però nell’aprile del 1959 inviò a Roma la richiesta ufficiale di canonizzare il Barbarigo, la situazione era cambiata.
Il testo della supplica, forse scritta con l’avallo dello stesso pontefice Giovanni XXIII, ne è spia eloquente.
Nella conclusione monsignor Bortignon chiedeva espressamente a papa Roncalli che, in deroga alla prassi comune, volesse de plenitudine potestatis dichiarare e definire santo il beato Gregorio Barbarigo.
Il fatto che papa Roncalli, bergamasco di origine e patriarca di Venezia, prima di ascendere al soglio pontificio nutrisse da sempre un interesse di tipo municipale e devozionale per il Barbarigo, è cosa nota e documentata.
Dopo l’ascesa al pontificato tuttavia, il suo interesse mutò d’aspetto: non si configurava più solo come personale predilezione per un certo personaggio storico, ma come veicolo di contenuti generali relativi all’episcopato, come modello di vescovo che egli voleva promuovere anche attraverso il concilio che aveva già indetto.
Nell’omelia pronunciata il 26 maggio 1960 durante la celebrazione della canonizzazione del Barbarigo, Giovanni XXIII definiva il nuovo santo come un prelato moderno nel senso più ampio della parola; faceva consistere questa modernità specialmente nella applicazione della legislazione post-tridentina relativa al governo della diocesi: un grande personaggio dunque del suo tempo e un grande santo perché seppe mantenere sotto il velo della modernità uno spirito squisitissimo di santità autentica.
Inoltre, dopo aver accostato il Barbarigo a san Carlo Borromeo, ribadiva, stante la differenza dei tempi, l’irriducibilità del primo al secondo e osservava che, nonostante i punti di contatto con il prelato milanese, il Barbarigo appariva agli occhi dei contemporanei e degli studiosi posteriori assolutamente singolare.
Emergeva da queste parole una valutazione del concilio di Trento come fattore di modernità e, di conseguenza, un’interessante interpretazione del Barbarigo come modello episcopale, autenticamente esemplare perché moderno.
La lettura del modello episcopale barbadiciano, dopo questo inquadramento storico, veniva notevolmente articolata.
In primissimo piano Giovanni XXIII poneva la carità ricapitolando sotto questo segno la pratica delle virtù praticate in grado eroico dal Barbarigo.
Particolare attenzione rivolgeva alla sollecitudine del cardinale per la miseria spirituale dei suoi diocesani, alleviata mediante la diffusione delle scuole della dottrina cristiana, la cui struttura fu sua personale, in linea con la sua intuizione di studioso e al suo zelo di pastore metodico e illuminato.
Ricordava l’impegno barbadiciano per i seminari, sottolineandone l’impostazione allo stesso tempo tradizionale e aggiornata degli studi.
Richiamava l’attenzione del cardinale per la difesa e la diffusione della vera cultura in cui giganteggiava solitario.
Si diffondeva sulla sua multiforme operosità pastorale dedicando ampio spazio alle iniziative riguardo allo studio delle lingue orientali, in ordine alla dilatazione del cattolicesimo nell’Oriente ortodosso e musulmano e alla riunione della Chiesa greca con la latina.
Questi aspetti della sua personalità e della sua attività di governo non li troviamo presenti allo stesso modo e con la stessa intensità nei suoi successori.
Sarebbe esigere troppo.
Non si può tuttavia negare che essi siano stati vissuti, chi più chi meno, dai vescovi che lo hanno seguito nella sede di Padova.
La carità, vista come l’essenza della santità, è documentabile nei diari, negli scritti dei vescovi più vicini a noi, come Elia Dalla Costa, Carlo Agostini, Girolamo Bortignon, Filippo Franceschi, assai più che nei colleghi del Settecento e dell’Ottocento un po’ offuscati da una documentazione piuttosto formale, notarile e giuridica.
La cura e la formazione del laicato, organizzata e attuata attraverso una efficientissima rete di scuole di dottrina cristiana rivolte sia ai giovani sia agli adulti fu una costante, un modulo di azione che è stato dispiegato con originalità fino ai nostri giorni.
Il seminario, trasformato in breve tempo in una cittadella della cultura, rinomata per gli studi classici anche al di là dei confini della diocesi, divenne la gioia e la croce dei vescovi successivi.
Per tutto il Settecento fino alla metà del Novecento essi si divisero tra quanti preferivano riservare maggiore attenzione alla formazione teologico- spirituale degli alunni e quanti insistevano invece sulla formazione classica e umanistica.
Tra aperture e chiusure la linea complessiva risultò molte volte confusa e contraddittoria.
La visita pastorale tuttavia fu per tutti lo strumento principale per una diretta conoscenza della situazione della diocesi e per il controllo e la verifica degli obiettivi da raggiungere.
Il suo immediato successore Giorgio Corner impiegò ben diciannove anni per portarla a termine.
Il nipote Francesco Barbarigo, muovendosi secondo le direttive dello zio, la intraprese fin dal suo ingresso a Padova.
Per motivi di salute la interruppe nel 1726, dopo aver visitato soltanto la zona pedemontana della diocesi.
Sempre rifacendosi al modello barbadiciano, Giovanni Minotto Ottoboni (1730-1742) iniziò anch’egli l’ispezione canonica di un’altra parte della diocesi, costatandone spesso le precarie condizioni morali e spirituali.
Carlo Rezzonico, giunto a Padova nel settembre 1743, la indisse nel marzo successivo e la concluse dopo nove anni: alcune zone periferiche non vedevano il vescovo dai tempi del Barbarigo.
Essa fu l’opera fondamentale e caratterizzante del suo episcopato prima di salire nel 1758 al soglio pontificio.
A reggere al suo posto la Chiesa di Padova nominò vescovo il proprio vicario generale Sante Veronese (1758-1767).
Da ben ventitré anni impegnato in quel ruolo, egli aveva non solo una notevole esperienza pastorale, ma anche una conoscenza non comune della situazione locale.
Ciò spiega, insieme alla sua età avanzata, come mai la visita pastorale da lui indetta fosse per gran parte affidata a delegati e a collaboratori.
Per la città egli si servì soprattutto del vicario generale Alessandro Papafava, mentre per la zona montana e pedemontana incaricò il vescovo di Torcello Giorgio Corner.
Al Veronese successe un suo discepolo, Antonio Maria Priuli (1767-1772), arciprete della cattedrale fino al 1738, poi vescovo di Vicenza, dove operò con un’impronta fortemente barbadiciana.
Trasferitosi a Padova nel 1767 ci si aspettava da lui un attivismo pari a quello dimostrato a Vicenza.
Ma non fu così.
Indetta la visita nel dicembre dell’anno successivo, la cominciò, com’era consuetudine, dalla cattedrale; la proseguì con i monasteri cittadini, ma nel 1769 si scontrò con i canonici sollevando una disputa che ebbe, come ai tempi del Barbarigo, gravi ripercussioni su tutta la sua azione pastorale.
La scelta di Niccolò Antonio Giustiniani alla successione (1772-1796) ruppe in un certo modo con la tradizione.
Se da un lato la sua nomina rispettava alcuni criteri di continuità con il passato (anch’egli era veneziano e di nobile famiglia), dall’altro la superava: era la prima volta che dai tempi della conquista della terraferma da parte della Repubblica veneta un religioso fosse posto a capo della diocesi.
Proveniva dall’abbazia di Santa Giustina, allora centro vivacissimo di vita culturale e di avanzate posizioni teologiche.
A Padova portò quindi una sensibilità diversa, legata alla sua origine monastica, al suo curriculum di studi più teologico che giuridico e ai suoi interessi culturali.
La sua apertura ai problemi e alle nuove idee che circolavano fra la nobiltà e la ricca borghesia cittadina non gli impedirono tuttavia di riprendere i contatti anche con il mondo rurale e contadino.
Otto anni durò il suo pellegrinaggio per il vasto territorio diocesano, percorso preferibilmente d’estate e d’autunno.
Alla morte del Giustiniani, avvenuta il 24 novembre 1796, a meno di un anno dalla caduta della Serenissima (17 ottobre 1797) fu posto a capo della diocesi Francesco Dondi Orologio: dal 1796 al 1806 in qualità di vicario capitolare; dal 1807 al 1819, come vescovo della diocesi.
Scrittore erudito di storia ecclesiastica, espressione di una illustre famiglia della nobiltà padovana, per oltre vent’anni si trovò nella difficile posizione di testimone pressoché impotente di fronte ai continui cambiamenti politici e di regime.
Immerso in un sistema statale perennemente instabile, coinvolto in iniziative di riforma ecclesiastica promosse ora da Parigi ora da Vienna, egli accolse con lealismo politico e zelo pastorale le disposizioni di volta in volta introdotte; aderì agli ordini dei nuovi governi francesi o asburgici inneggiando ora agli uni ora agli altri, nonostante i rapporti con le autorità municipali, prefettizie e centrali dei rispettivi governi conoscessero alcuni momenti di tensione e di contrapposizione.
Nel 1809 cominciò la visita pastorale delle oltre trecento parrocchie.
In questa ricognizione censiva 1302 sacerdoti per una popolazione di circa 350.000 abitanti (un sacerdote per 268 anime).
A Padova, città di circa 29.000 abitanti, erano concentrati 249 sacerdoti (un sacerdote per 117 abitanti) di cui 16 regolari e 27 chierici.
La concluse il 22 settembre 1819 con la ispezione alla parrocchia di Zugliano.
Gli ultimi giorni furono particolarmente dolorosi.
A causa di una grave lussazione al braccio destro a seguito di una caduta, si affrettò a raggiungere Padova dove il 6 ottobre trovò la morte.
Come in tutte le Chiese del Lombardo- Veneto, anche nella diocesi di Padova il passaggio di giurisdizione politica da Parigi a Vienna introdusse nel settore ecclesiastico sia il senso del mutamento, come pure della continuità.
Il trapasso dal cesaropapismo napoleonico al neogiuseppinismo asburgico non fu un’impresa facile per il nuovo vescovo Modesto Farina (1821-1856).
Mentre il Dondi si era mosso ancora all’interno delle norme tridentine e pensava alla parrocchia come fosse ancora iscritta nella logica dell’ancien régime, arroccata nelle consuetudini, nelle antiche costituzioni, nelle feste e nelle liturgie, il Farina si trovò di fronte a una parrocchia sfrondata a causa delle leggi napoleoniche dei santuari, dei conventi, delle scuole d’arte e mestiere, inquadrata invece nella pubblica amministrazione dello Stato.
I parroci, trasformati in pubblici funzionari del culto, animatori unici della vita religiosa e associativa dei fedeli, diventarono anche ufficiali dell’anagrafe, direttori e maestri delle scuole elementari, professori di religione e presidenti della fabbriceria.
A segnare la continuità con il passato fu ancora la visita pastorale.
In questa ottica il Farina nell’agosto del 1821, all’inizio del suo episcopato, la prometteva a tutte le parrocchie della diocesi nei tre anni successivi, tra la primavera del 1822 e l’autunno del 1824.
Ne impiegò invece undici, dal 1822 al 1832.
Al termine, invece di inviare la relazione finale (come era la prassi) alla curia romana, la spedì all’imperatore d’Austria del quale si sentiva di essere «vescovo suddito».
Nonostante le pressanti e ripetute sollecitazioni da parte della curia perché ne indicesse una seconda, egli non cambiò idea.
Benché il suo episcopato fosse continuato ancora per oltre vent’anni, egli non volle sentire ragioni.
Il particolare contesto politico del tempo, i disagi personali che doveva affrontare, le difficoltà ambientali ed economiche di certe zone incapaci a sostenerne le spese lo indussero a procrastinarla di continuo.
Si aggiunsero poi i problemi legati alla salute, alla vecchiaia, ma anche la consapevolezza che la visita, a suo parere, non era nemmeno (come in alto si voleva far credere) il toccasana delle molteplici problematiche pastorali.
Alla stessa maniera si comportò il successore Federico Manfredini (1857-1882).
Nominato nel 1857, incominciò la visita nel 1859, agli inizi del periodo del «dilaceramento degli spiriti», divisi tra temporalisti e antitemporalisti, tra intransigenti e transigenti, tra papalini e liberali.
Fino al 1865 visitò personalmente le parrocchie e le chiese sussidiarie della città.
Nelle altre zone della diocesi ispezionò nello stesso arco di tempo un altro centinaio di comunità.
Poi il suo impegno cessò.
La Congregazione del concilio lo sollecitò a compiere ispezioni più frequenti; gli ricordò che, se personalmente impedito, poteva farsi sostituire dal vicario generale o da altri sacerdoti; aggiunse pure che, a norma del concilio di Trento, le ispezioni canoniche si dovevano ripetere ogni due anni.
Non intese ragioni; dichiarò anzi inopportuno affidare ad altri la visita della diocesi.
Solo a seguito delle ulteriori ammonizioni romane si decise di affidare il compito al vescovo ausiliare Antonio Polin e al canonico Francesco Rossi che lo portarono a termine nel periodo 1874-1877.
Chi rimise in auge l’istituto visitale, dopo la morte del Manfredini e il trasferimento del Polin a Rovigo, fu il veneziano Giuseppe Callegari (1883-1906).
Spinto dalla tradizione barbadiciana e dalla necessità di affrontare in modo nuovo i problemi della società di massa, egli diede inizio alla prima ispezione della diocesi nell’autunno del 1884, poco più di un anno dal suo ingresso a Padova, portando il questionario (al quale i parroci dovevano rispondere con obiettività) a ben 52 quesiti rispetto alla trentina delle visite ottocentesche precedenti.
La diocesi era allora costituita da 318 parrocchie, 24 curazie, 12 chiese sussidiarie, organizzate in 37 vicariati foranei.
Ultimata nel dicembre 1888, la riprese nuovamente il 1° marzo 1893 terminandola nel maggio 1905.
Alla sua morte, avvenuta il 4 aprile 1906, la diocesi stava allora vivendo una difficile transizione.
Nella fase finale del suo lungo episcopato il Callegari si era ripiegato nella gestione dell’ordinaria amministrazione.
Amico personale di Pio X, interlocutore privilegiato dei responsabili dell’Opera dei congressi e degli intellettuali cattolici, patrocinatore di iniziative culturali a livello universitario, era divenuto ormai incapace, anche per il sopravvenuto declino fisico, di sostenere e di vivificare un ceto sacerdotale timoroso e sonnolento, un laicato cattolico lacerato dalle diatribe tra «vecchi » e «giovani», tra cattolici intransigenti di prima generazione e quelli della seconda, sensibili alla predicazione di un Romolo Murri, di un don Luigi Sturzo e di un Filippo Meda.
Toccò al suo successore Luigi Pellizzo (1907-1923), friulano di nascita, il compito di porre in termini nuovi e dinamici la questione del governo di una diocesi in prevalenza rurale e di una città che per l’eredità risorgimentale, per la cultura positivistica insegnata nell’università e per gli influssi massonici presenti nelle istituzioni civili, continuava a dispiegare ampiamente la bandiera del laicismo e dell’anticlericalismo.
Il punto di partenza della sua azione di riforma non furono solo il seminario, la stampa, l’associazionismo cattolico, la scelta di alcuni giovani sacerdoti che concordavano con lui nel voler far cessare quella pace di cimitero a cui i cattolici stessi si erano condannati in tanti anni.
Fu anche l’apertura di una linea di azione sul piano socio-politico dell’intero movimento cattolico che conseguì notevoli successi nelle elezioni politiche e amministrative del 1911, scombinando le forze liberali, radicali e socialiste.
Costretto, direttamente o indirettamente, da Pio X ad accantonare la pratica della lotta politica e dell’agitazione sindacale per orientarsi con più forza sull’azione pastorale e sulle tematiche prettamente religiose, avviò la visita solo a partire dal 1912.
Con l’inizio della prima guerra mondiale gli eserciti cominciarono a fronteggiarsi accanitamente ai confini settentrionali della diocesi.
Migliaia di abitanti dei paesi del Grappa e dell’altopiano di Asiago, affacciati alla prima linea del fronte, videro da vicino i bagliori degli incendi e udirono il rintrono dei colpi di cannone.
Nel maggio del 1916 la popolazione civile di trentacinque parrocchie fu costretta a disperdersi e a condurre una vita da profughi nella pianura veneta e nell’intera penisola, lacerando vincoli di parentela familiare e paesana.
Nell’ultimo anno di guerra ventidue parrocchie furono perdute e senza assistenza spirituale al di là delle frontiere austriache.
Posto di fronte a questo panorama impressionante monsignor Pellizzo ritenne opportuno sospendere la visita.
La riprese solo nel gennaio del 1920 a guerra conclusa, portandola a termine nello stesso mese dell’anno successivo 1921.
Raggiunto ogni angolo della diocesi, percepì che in seguito allo sconvolgimento provocato dalla guerra, all’introduzione della proporzionale nelle elezioni politiche, alla nascita dei partiti di massa, alla occupazione delle fabbriche, alla formazione delle leghe rosse e delle leghe bianche in contemporanea con le prime confederazioni padronali alleate ai fasci di combattimento, il paese non era più lo stesso e che un nuovo modo di sentire e di agire percorreva la società civile ed ecclesiastica.
Avvertì quindi la necessità di leggere e di interpretare con occhi diversi la situazione postbellica attraverso la rielaborazione del questionario vescovile che aveva inviato ai parroci in occasione della prima visita pastorale appena conclusa.
Dal nuovo testo appariva ridimensionata l’ottica notarile-contabile, usuale nel passato; prevaleva invece una formulazione che consentiva una lettura della realtà parrocchiale in tutte le sue articolazioni sociali, economiche e politiche.
Nello stesso tempo delineava un intervento pastorale proiettato direttamente sulla società, un mezzo per stabilire un nuovo approccio con il mondo contemporaneo.
L’obiettivo che il Pellizzo intendeva perseguire era evidente: la riconquista della società e delle coscienze; come metodo, la ripresa degli schemi operativi già collaudati nel quinquennio 1907-1911.
Una congiura interna al mondo cattolico-ecclesiastico, che ebbe modo di coalizzarsi intorno al credito accordato dal Pellizzo nel corso del 1922 a una giovane quale presunta mistica, gli fu fatale.
Pio XI, a un anno dalla sua elezione al pontificato, decise di allontanarlo da Padova.
Il vescovo lasciò la città il 5 marzo 1923 e non vi ritornò più, trattenuto a Roma dalla volontà esplicita dello stesso pontefice che aveva maturata la cosa già da alcuni mesi prima.
Nonostante in alto si volesse far credere che il provvedimento non era punitivo, il distacco dalla città del Santo fu visto dai suoi più vicini collaboratori tutt’altro che una ricompensa o una promozione, ma piuttosto una vera e propria rimozione.
A chiarire e a decantare una situazione diocesana aggrovigliata ed esplosiva giovò la nomina a suo successore del vicentino Elia Dalla Costa, che prese possesso della diocesi il 7 ottobre 1923.
Quel giorno entrando in città si presentò alle autorità civili, militari e al clero quale messaggero e artefice di pace.
Dopo essersi fatta una cognizione sufficiente della diocesi, non si trincerò in vescovato, ma cercò di riprendere e mantenere il contatto con la gente, iniziando il 9 marzo 1924 la prima visita pastorale che portò a termine il 30 marzo 1927.
Nelle intenzioni del vescovo l’ispezione doveva essere preparatoria e funzionale alla celebrazione del sinodo diocesano.
L’ultimo risaliva al 1890.
Nel frattempo però erano entrati in vigore i canoni del nuovo Codice di diritto canonico e i decreti del concilio provinciale triveneto.
Si trattava ora di recepirne gli indirizzi e gli orientamenti attraverso una conseguente legislazione diocesana.
Il sinodo, fissato per il 13-15 settembre 1927, ne divenne lo strumento esecutivo.
Fu un’assemblea memorabile non solo per la presenza di più di cinquecento sacerdoti ma anche per le omelie del Dalla Costa che, raccolte ne I ricordi di un sinodo, avrebbero dato alle stesse prescrizioni sinodali l’anima e la genuina forza interpretativa.
Più che un punto di arrivo, il sinodo dunque fu un punto di partenza.
Monsignor Dalla Costa infatti per verificare i progressi compiuti nei primi quattro anni della sua permanenza a Padova, per procedere alla pratica attuazione delle nuove norme disciplinari e per affrontare contemporaneamente i nuovi problemi emergenti, indisse la seconda visita pastorale.
La iniziò il 4 novembre 1928 e la sospese il 20 novembre 1931, dopo che il 12 dello stesso mese Pio XI durante l’udienza concessagli per la seconda visita ad limina lo aveva pregato di accettare la nomina ad arcivescovo di Firenze.
Come successore alla sede di Padova fu nominato Carlo Agostini (1932-1949).
Nato a San Martino di Lupari, provincia di Padova, ma diocesi di Treviso, si propose di realizzare quel progetto di società cristiana che rispondeva agli stessi obiettivi pastorali del Dalla Costa.
Come il predecessore, anch’egli considerò la visita pastorale come lo strumento migliore per realizzarli.
Sull’esempio di san Gregorio Barbarigo, volle anch’egli battere la stessa strada.
I propositi furono mantenuti: dall’ottobre 1932 dedicò una quindicina di giorni al mese alla ispezione delle 343 parrocchie di una diocesi che superava allora gli 800.000 abitanti.
Era un vero massacro per le poche persone al seguito che alla sera rientravano in episcopio.
Nel ritmo di lavoro nessuno riusciva a stargli al passo.
Conclusa la prima ispezione l’8 maggio 1937, quinto anniversario del suo ingresso in diocesi, determinò di iniziare la seconda il 20 febbraio 1938.
Riuscì a completarla nel dicembre 1943.
Un altro al suo posto, in piena guerra civile, avrebbe saputo accampare mille pretesti pur di giustificare una temporanea sospensione, ma il dovere morale di condividere le sorti del clero, delle popolazioni martoriate dai bombardamenti angloamericani, dalle forze naziste di occupazione, dalle azioni di guerriglia della resistenza lo orientò per una ripresa immediata della terza visita pastorale che lo tenne occupato fino al 1946, alla soglia della partenza per la sede patriarcale di Venezia.
Sotto il giovane ed energico frate cappuccino Girolamo Bortignon (1949-1982) la diocesi fu retta in continuità con la linea dei suoi immediati predecessori: stesso metodo e stessi obiettivi, almeno fino alla svolta conciliare.
I trentasette volumi delle sue visite pastorali (due interamente compiute e la terza iniziata nel 1968) testimoniano la medesima finalità pastorale orientata, secondo le direttive di Pio XII, al progetto della ricostituzione di un ordine e di una società cristiana.
La ferma convinzione di assistere a uno scontro decisivo tra le forze del bene e del male, individuate queste ultime nella ideologia marxista, laicista e nella incipiente secolarizzazione, lo portò ad assumere negli anni Cinquanta la strategia del muro contro muro e a richiamare con mano ferma la necessità della disciplina ecclesiastica, dell’obbedienza all’autorità e dell’unità all’interno della comunità ecclesiale.
Tuttavia, anche se può sembrare paradossale, fu con lui che si manifestarono dei segni indubbi di apertura e di rinnovamento ancor prima dell’evento conciliare.
Promosse una specie di riconciliazione della Chiesa padovana con la cultura e con il mondo contemporaneo; riunì docenti dei due Studi padovani, quello del seminario e quello dell’università, in una comune ricerca scientifica attraverso le pagine della rivista «Studia Patavina» e la collana di «Fonti e ricerche di storia ecclesiastica padovana».
Ricompose in modo personalissimo sul piano delle scelte pastorali le esigenze della fede con quelle della carità che trovarono la massima espressione nell’«Opera della Provvidenza di Sant’Antonio».
Nello stesso arco di tempo monsignor Bortignon, adattando le intuizioni del Barbarigo ai tempi, aprì un terzo fronte: quello missionario.
Questa intuizione di fondo, più che emergere dalle parole e dai discorsi, venne a galla dalle scelte concrete decise fin dai primi anni del suo episcopato.
Il 3 dicembre 1950 egli varò il Collegio universitario aspiranti medici missionari.
Nel 1951 inviò in America Latina il primo sacerdote diocesano, seguito da altri tre colleghi negli anni immediatamente successivi.
Il 10 marzo 1956 chiese in affido alla Congregazione di Propaganda Fide una fascia di territorio da evangelizzare alla stregua di una famiglia religiosa.
L’idea prese maggiore consapevolezza negli anni seguenti, da spingere il vescovo il 30 agosto 1959 a indicarla tra le tematiche da affrontare nel Vaticano II.
I tempi erano ormai maturi per passare dalle teorizzazioni alle prime concrete realizzazioni in Kenya, in Brasile e in Ecuador.
Si inaugurava così un nuovo stile nel rapporto di cooperazione tra le chiese: la diocesi, come la vita, si sintonizzava e pulsava con quella della Chiesa universale.
Gli stessi indirizzi furono ereditati dal suo successore Filippo Franceschi (1983- 1988), pur adattandoli alla nuova stagione postconciliare.
In particolare modo egli approfondì la natura, la finalità e il metodo della visita pastorale in una società secolarizzata e postmoderna.
In questa riflessione coinvolse il clero parlandone la prima volta il 18 dicembre 1984 ai vicari foranei.
La loro reazione immediata fu la manifestazione di uno stato di ansia e di paura.
Tra i presenti c’era chi ricordava ancora gli aspetti inquisitoriali del giovane Bortignon o le sfuriate dell’Agostini.
Li assicurò che non era questa la sua intenzione.
Egli riteneva che il primo obiettivo della visita era quello di promuovere la fede e la comunione ecclesiale.
Con essa voleva incrementare l’attuazione del programma pastorale Per una chiesa di adulti già avviato in diocesi, favorire la presa di coscienza di ciò che cambiava, di ciò che permaneva, di ciò che nasceva nella Chiesa e nella società.
La iniziò il 22 gennaio 1986 partendo dalla parrocchia di Santa Croce, la comunità con cui aveva avuto un primo, vivace incontro il 28 marzo 1983 nel solenne ingresso a Padova come vescovo della diocesi.
Non ebbe il tempo di ultimarla.
La notte tra l’8 e il 9 marzo 1988 si manifestarono i primi sintomi della malattia che il 30 dicembre dello stesso anno lo portò alla morte.
A questo pastore geniale che, pur essendo originario della Toscana, aveva saputo raccogliere la ponderosa tradizione padovana e veneta, interpretarla per trasmetterla viva alle nuove generazioni successe l’attuale vescovo Antonio Mattiazzo.
Formato nel seminario di Padova dove fu ordinato sacerdote il 5 luglio 1964, fu nominato nunzio apostolico in Costa d’Avorio e pro nunzio apostolico in Burkina Faso e in Niger.
Eletto alla sede di Padova il 5 luglio 1989, iniziò il ministero episcopale in diocesi il 7 settembre dello stesso anno.
La strada che intraprese fu la stessa di Bortignon, il vescovo che l’aveva ordinato sacerdote, e di Franceschi, il vescovo che l’aveva consacrato all’episcopato il 14 dicembre 1985.
Tuttora è impegnato nella visita pastorale e, seguendo le orme del Barbarigo, dedica ampio spazio allo sviluppo del seminario diocesano, della facoltà teologica del Triveneto; infine, in ordine alla dilatazione del regno, spende le sue energie migliori nell’Oriente ortodosso.
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Diocesi di Padova
Chiesa di Santa Maria Assunta
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La facciata della cattedrale di Santa Maria Assunta a Padova -
Veduta dell’aula dall’ingresso -
Veduta dell’aula dal presbiterio -
L’area presbiteriale
Diocesi
FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.