Regione ecclesiastica Triveneto
a tale opera corrispose la concessione della cittadinanza romana e quindi l’introduzione delle specifiche magistrature romane. Fu nell’anno 49 a.C. che la lex Roscia concesse ai territori cisalpini la cittadinanza romana e pertanto le città assursero al ruolo di municipi. Quando l’imperatore Augusto prese la decisione di organizzare l’Italia in undici regioni, i territori della Cisalpina orientale costituirono la X Regio. I confini della regione erano segnati dalla catena delle Alpi a nord, dal corso del Po a sud, dal fiume Oglio a occidente e dal fiume Arsia a oriente;
nella X Regio erano così comprese la penisola istriana, le attuali regioni del Friuli- Venezia Giulia, Veneto, Trentino-Alto Adige e la Lombardia orientale. La circoscrizione, tracciata guardando soltanto a criteri geografici, raggruppava popolazioni diverse: i cenomani nella parte orientale, i reti, nella zona settentrionale, i carni nei territori orientali e i veneti nella pianura che si estende dal Po ad Aquileia. All’imperatore Claudio si deve la realizzazione di un’importante via di comunicazione che, partendo da Altino, congiungeva l’Adriatico al Danubio. La X Regio assunse la denominazione di Venetia et Histria al tempo della riorganizzazione dell’Impero operata da Diocleziano che nell’anno 297 metteva mano a una riforma amministrativa dell’Impero e nel contesto della risistemazione dell’Italia in province la X Regio, con alcune mutazioni di confini, venne costituita in Provincia Venetia et Histria con capoluogo ad Aquileia. Tale organizzazione amministrativa del territorio è l’imprescindibile quadro di riferimento per seguire il filo della diffusione del cristianesimo e dell’organizzazione della Chiesa in terra veneta. Per quel che riguarda le vie per le quali il cristianesimo penetrò nel Veneto sono state proposte nel corso degli anni diverse tesi: il Paschini pensava a un ingresso del cristianesimo ad Aquileia attraverso l’Illiria e la Dalmazia;
il Biasutti, in una serie di ricerche pubblicate dal 1959 e che provocarono ampio dibattito, proponeva l’influsso alessandrino- orientale nell’arrivo del Vangelo ad Aquileia e il carattere giudeo-cristiano della primitiva comunità;
quest’ultimo aspetto è stato ulteriormente approfondito dal Cuscito. Accenniamo appena all’annosità della questione marciana concernente l’attendibilità o meno della tradizione che vuole san Marco evangelizzatore di Aquileia;
in estrema sintesi ricordiamo soltanto due autori: il Paschini, con uno studio approfondito e rigoroso, sembrò mettere fine alla questione concludendo che la tradizione sorta nel VII sec. era di natura leggendaria e l’origine della Chiesa aquileiese andava ricondotta a metà del III sec.;
il Fedalto segue una linea di rivalutazione della tradizione marciana di Aquileia e recentemente in una disamina di un numero consistente di fonti, preceduta da una riflessione di carattere metodologico, ha concluso che perlomeno si può affermare che «l’invio di Marco nelle Venetiae non è inverosimile, anzi è possibilissimo». Preziosa è l’avvertenza del Golinelli: circa la diffusione del cristianesimo nel Veneto non sarà da pensare che sia avvenuta a partire da un unico centro di irradiazione quanto piuttosto a un’influenza esercitata sulla X Regio da più direttrici, così da affermare che «si dovrà cercare l’origine cristiana del Veneto di terraferma in una molteplicità di componenti, di provenienza diversa a seconda delle più vicine zone di influenza». L’oscurità che avvolge la conoscenza della prima penetrazione del cristianesimo in terra veneta è data dalle modalità stesse dell’annuncio, che non consisteva in una missione sistematica e organizzata, né in un’opera di propaganda. La trasmissione del nuovo messaggio avviene in maniera confidenziale, riservata, si sviluppa a livello di incontri individuali o familiari. Il nuovo messaggio cammina sulle gambe di mercanti, di militari o di funzionari cristianizzati. La presenza di martiri ci apre uno squarcio di luce per identificare l’esistenza delle prime comunità cristiane. Martiri aquileiesi sono attestati da fonti attendibili di vario genere;
per Concordia si hanno testimonianze tardive di settantadue martiri al tempo di Diocleziano;
l’elenco può continuare con santa Giustina a Padova, il vescovo Mauro di Parenzo e altri. Va aggiunto che persistenze notevoli del culto pagano, anche a lunga distanza di tempo dalla svolta costantiniana, ci testimoniano che la penetrazione del cristianesimo fu un fenomeno lento, disseminato di difficoltà. Maggiori segni della propria presenza possono lasciare comunità ormai organizzate, con a capo un proprio vescovo;
di esse infatti possono pervenire resti archeologici di luoghi di culto, liste episcopali, sottoscrizioni a concili locali. Anche nella Venetia et Histria i luoghi della prima evangelizzazione furono gli ambiti cittadini, cosicché il primo cristianesimo è un fenomeno prettamente urbano. È quindi da chiedersi quando compaiano comunità locali strutturate con un proprio vescovo o perlomeno a quando risalgano le più antiche attestazioni delle stesse. In epoca precostantiniana, nella Venetia et Histria le comunità organizzate con a capo un vescovo, quindi sedi episcopali, sono relativamente poche. In primo luogo si trova Aquileia: Ermagora, il primo vescovo degli antichi cataloghi episcopali, va ricondotto al corso del III sec. Dopo di lui si trova Ilario (ca 276-285) che subì il martirio e anche il suo secondo successore, Crisogono II (ca 295-307), morì martire. A Verona, importante centro strategico e polo commerciale, una comunità si organizzò sotto la guida del proprio vescovo nella seconda metà del III sec. Se per Padova la prima attestazione certa di un vescovo (Crispino) è dell’anno 344, vari motivi fanno ritenere per certa l’esistenza di una consistente comunità cristiana in epoca precostantiniana, assai probabilmente costituita in sede vescovile già in quell’epoca. La libertà concessa da Costantino permette al cristianesimo di diffondersi ampiamente, di organizzarsi. Sono poche comunque le diocesi, per i dati che attualmente possediamo, che sorgono nel corso di questo secolo. È assegnata alla metà del IV sec. la nascita della sede vescovile a Trento, il cui primo vescovo è Giovino;
nella seconda metà del secolo viene organizzata la diocesi di Altino: il primo vescovo è Eliodoro, che partecipò al concilio aquileiese del 381;
sorgeranno sul finire del secolo le diocesi di Concordia e di Zuglio. Come per il resto dell’Italia settentrionale, sulla regione esercita la funzione metropolitana la sede di Milano. A sant’Ambrogio si deve la celebrazione del concilio di Aquileia del 381, svoltosi sotto la presidenza del vescovo locale Valeriano: il 3 settembre, a due mesi dal concilio di Costantinopoli, trentadue vescovi occidentali confermano la consustanzialità del Padre e del Figlio secondo quanto aveva decretato Nicea;
il concilio mise fine alla presenza dell’arianesimo nell’Illiria. Aquileia assurse al rango di sede metropolitana tra la fine del IV e l’inizio del V sec. La morte di sant’Ambrogio (397) prima, il trasferimento della capitale dell’Impero occidentale a Ravenna (404) poi portarono a un declino del grande prestigio della Chiesa di Milano. Ma proprio in quegli anni Aquileia era all’apice del suo splendore. Era dotata di un’imponente basilica composta di tre aule disposte a «U» la cui erezione avvenne nel secondo decennio del secolo per merito del vescovo Teodoro. Si organizzò una fiorente scuola teologica i cui più cospicui rappresentanti erano Rufino, Cromazio e Girolamo. Accanto allo sforzo teologico, i chierici di Aquileia vivevano un sincero impegno ascetico, in una forma di vita che, con le debite precisazioni, si può dire monastica;
di essi dirà Girolamo: «Gli ecclesiastici di Aquileia formano un coro di beati». Per questa serie di motivi si è concordi nel dire che Aquileia, con Roma, Milano e Torino, rappresentava uno dei più importanti centri spirituali dell’Italia antica. Una vita così intensa non poteva restare chiusa nel perimetro della città, ma si tradusse in slancio missionario. Il Menis con accurate indagini archeologiche, condotte su oltre una trentina di siti, ha stabilito il determinante influsso del modello architettonico basilicale aquileiese su un consistente numero di siti archeologici nel Norico, nella Rezia II, nella Pannonia I, nella Savia. Si tratta di testimonianze preziose che convalidano la tesi di un’importante attività missionaria che da Aquileia si spinse fino al Danubio. È possibile che il vescovo di Aquileia abbia goduto della giurisdizione metropolitana già dal 381, quando presiedette il concilio summenzionato;
una serie di atti seguenti può deporre a favore di tale ipotesi. Nel 389 Cromazio consacrò la basilica di Concordia e istituì il primo vescovo;
con tutta probabilità fu ancora Cromazio che alla fine del secolo organizzò anche la diocesi di Zuglio;
tale genere di provvedimenti non si spiegherebbe se non come esercizio dell’autorità metropolitana. Vi è comunque un indubitabile terminus ante quem, una data prima della quale il vescovo di Aquileia godeva certamente della giurisdizione di metropolita: è l’anno 442. Infatti in quell’anno papa Leone Magno diede ordine al vescovo di Aquileia di radunare un concilio per combattere i focolai di pelagianesimo presenti nella sua provincia. Questa è la prima chiara ed esplicita menzione di una provincia ecclesiastica metropolitana dipendente da Aquileia. Quanto all’estensione della provincia e alle diocesi in essa incluse, possiamo di - sporre di un quadro soddisfacentemente chiaro grazie alle liste di vescovi partecipanti a due sinodi provinciali della fine del VI sec. Il confine meridionale era dato dal corso del Po, fino a Mantova;
il Mincio, che scorre perpendicolare al Po, segnava il confine occidentale che divideva la provincia ecclesiastica di Aquileia da quella di Milano;
entro i confini erano compresi il lago di Garda e le sedi vescovili di Trento e Sabiona;
procedendo a nord il confine era segnato dal corso del Danubio: vi erano così comprese la Raetia II, il Noricum e la Pannonia I. Dunque un territorio vastissimo che andava dal Po a sud al Danubio a nord, dal corso dei fiumi Mincio e Iller a ovest fino al lago Balaton a est. Le sedi vescovili, raggruppate per provincia, erano le seguenti: (Venetia) Asolo, Altino, Belluno, Concordia, Feltre, Oderzo, Padova, Treviso, Trento, Verona, Vicenza, Zuglio;
(Histria) Parenzo, Pola, Pedena, Rovigno, Trieste;
(Raetia II) Sabiona;
(Noricum) Aguntum, Celje, Spittal;
(Pannonia I) Sopron;
(Savia) Lubiana. La prima incursione dei visigoti guidati da Alarico attraverso le Alpi Giulie, avvenuta nel 401, segnò l’inizio di un secolo caratterizzato da continue calate di popolazioni barbariche che misero in crisi la provincia. Il momento più duro per Aquileia si ebbe con la calata degli unni. Nella primavera del 452 Attila poneva l’assedio alla città che alla fine venne devastata;
uguale sorte subirono anche Concordia e Altino. Maggiori conseguenze sulla vita religiosa della provincia ebbe la questione dei Tre Capitoli. Nel 553 al termine del concilio Costantinopolitano II, per volontà dell’imperatore Giustiniano, venivano condannati i teologi Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro e Iba di Edessa e la decisione venne fatta propria dai papi Vigilio e Pelagio. Come in gran parte dell’Occidente, il metropolita di Aquileia e i vescovi della regione non vollero accettare tale condanna, e si schierarono a difesa delle decisioni calcedonesi: era l’inizio dello scisma con Roma. In questa vicenda si manifestò la particolare compattezza dei vescovi della regione attorno al loro metropolita. A questa vicenda si sovrappose, pochi anni dopo, l’invasione longobarda che provocò profondi cambiamenti nel quadro delle istituzioni civili, con forti conseguenze anche per le strutture ecclesiastiche. I longobardi, partiti dalla Pannonia nella primavera del 568, invasero il Friuli e nel 569 procedettero con rapidità all’occupazione della provincia;
avvenne così che in mano ai bizantini rimasero la costa adriatica, le isole della laguna e la penisola istriana, mentre l’entroterra finì per essere in mano ai longobardi. Al momento del loro ingresso, alcuni vescovi della terraferma fuggirono sulla costa controllata dai bizantini. Non così fece il vescovo di Treviso Felice, che andò incontro ad Alboino per ottenere che la città fosse preservata da saccheggi. Il vescovo Paolo di Aquileia abbandonò la città e si rifugiò nell’isola fortificata di Grado, in mano ai bizantini, portando con sé il tesoro della sua Chiesa. Si creava così una situazione singolare: il metropolita aquileiese, deciso oppositore della condanna dei Tre Capitoli, si trovava ora in luogo difeso dai bizantini. Il successore di Paolo, Elia, dedicò la basilica di Grado a sant’Eufemia: con il ricollegarsi al titolo della basilica in cui si svolse il concilio di Calcedonia, Elia dava un chiaro e programmatico segnale di non voler di - scostarsi dalle decisioni di quel concilio e di perseverare nello scisma. Nel 579 in quella basilica Elia presiedette un sinodo nel quale i numerosi vescovi presenti (altri due erano rappresentati da procuratori) ribadivano la loro fedeltà alle decisioni di Calcedonia e ai tre precedenti concili ecumenici, ignorando del tutto il concilio Costantinopolitano II. È da ricordare che al perseverare compatto nello scisma dei vescovi con il metropolita, concorreva anche l’avversione verso i bizantini, velatamente presente fin dal periodo della guerra gotica. Molto probabilmente fu in questa situazione che il metropolita di Aquileia, in polemica con il papa e con l’imperatore, si attribuì il titolo di patriarca. Il livello di compatta adesione dell’episcopato della Venetia et Histria allo scisma lo si poté constatare nel corso dei tentativi condotti negli anni seguenti per far sì che Aquileia abbandonasse lo scisma e tornasse alla comunione con Roma. Bisanzio, non meno di Roma, puntava alla ricomposizione dello scisma, dal momento che esso erodeva seriamente la sua autorità nel territorio occupato dai longobardi, con la possibile conseguenza di condurre a un avvicinamento della popolazione locale ai nuovi occupanti. Ricorderemo solo due episodi. L’esarca Smaragdo, c’informa Paolo Diacono, si recò a Grado e personalmente trasse fuori della basilica il patriarca Severo e tre vescovi suffraganei, che colà si trovavano, e li condusse a forza a Ravenna e con minacce di esilio e uso della violenza li costrinse a sottoscrivere la condanna dei Tre Capitoli. Dopo un anno di prigionia i quattro presuli poterono far ritorno a Grado, ma il popolo e gli altri vescovi negarono loro la comunione ecclesiastica. Severo convocò così un sinodo a Marano (probabilmente nel 591), nel corso del quale «sconfessò per iscritto il proprio errore, cioè l’aver comunicato a Ravenna con chi condannava i Tre Capitoli» (Paolo Diacono). Ci sono pervenute tre lettere di papa Gregorio Magno che esortava i vescovi della Venetia et Histria a ritornare alla comunione con Roma. Davanti alle prime richieste di papa Gregorio, il patriarca Severo e i vescovi della regione indirizzarono ben tre lettere: una del solo Severo, una seconda sottoscritta da Severo e dai vescovi del territorio bizantino, una terza sottoscritta dai vescovi del territorio longobardo. Solo quest’ultima è giunta fino a noi. I dieci vescovi firmatari (di Sabiona, Trento, Verona, Vicenza, Asolo, Treviso, Feltre, Belluno, Concordia e Zuglio) ricostruirono le vicende della questione dei Tre Capitoli, rammentarono la promessa dell’imperatore fatta al patriarca Elia di non infastidire i vescovi non in comunione con Roma, riferirono che le loro popolazioni erano talmente infiammate dalla causa che preferivano la morte piuttosto che abbandonare l’antica fede;
inoltre, non erano disposti a rispondere all’invito di partecipare a una convocazione romana perché temevano di essere costretti all’unione con la forza e ricusarono che il papa assumesse la veste di arbitro, dal momento che il diritto stabiliva che nessuno è giudice in causa propria, e il vescovo di Roma era parte in causa. E infine, con un’abile stoccata decisiva, avvertirono che l’azione dell’imperatore, dietro sollecitazione papale, per indurre il patriarca e i vescovi alla comunione con Roma, poteva avere risvolti spiacevoli. Infatti fecero presente che al momento della loro consacrazione ad Aquileia essi avevano promesso fedeltà all’Impero;
cosa sarebbe accaduto alla morte di uno di loro se fosse continuata ancora la persecuzione? I nuovi eletti, piuttosto che farsi consacrare dal metropolita di Aquileia, si sarebbero rivolti ai vescovi delle Gallie;
sarebbe così subentrato un controllo degli arcivescovi franchi e in tal modo il loro territorio sarebbe sfuggito del tutto al controllo dell’Impero con il quale essi (i vescovi allora in carica) restavano l’unico punto di contatto. La lettera ebbe l’esito sperato, dal momento che l’imperatore Maurizio scrisse a papa Gregorio per ingiungergli di non recare ulteriori fastidi ai vescovi della Venetia et Histria e di attendere che si fosse prima liberato il territorio dall’occupazione longobarda per passare poi ad affrontare il tema dello scisma. È in questo tempo che la diocesi di Como, ferma nella sua adesione allo scisma tricapitolino, abbandonò la metropolia di Milano, che aveva ristabilito la comunione con Roma, e divenne suffraganea di Aquileia. Lentamente però si crearono delle crepe nel compatto muro dei difensori dei Tre Capitoli e si ebbero delle defezioni. San Gregorio Magno in una lettera del 599 si rallegrava perché i vescovi Pietro di Altino e Provvidenzio si erano riuniti alla comunione con Roma;
tre anni dopo fu Firmino, vescovo di Trieste, a passare alla comunione con Roma. Non passò molto tempo e vi sarebbe passato anche il patriarca aquileiese residente in Grado. Alla morte del patriarca Severo, nel 607 (o, secondo un’altra versione, alla morte del patriarca Marciano nel 610) il clero di Grado elesse a patriarca Candidiano che aveva abbandonato lo scisma tricapitolino. Il clero aquileiese della terraferma, controllata dai longobardi, rimanendo saldo nello scisma dei Tre Capitoli reagì ed elesse a patriarca l’abate Giovanni: l’elezione avvenne con il sostegno del re longobardo Agilulfo e del duca del Friuli Gisulfo. La doppia elezione originava la divisione del patriarcato tra Aquileia e Grado: la prima soggetta ai longobardi, la seconda ai bizantini;
la prima ferma nello scisma tricapitolino, la seconda in comunione con Roma;
entrambi i vescovi reclamavano per sé il titolo di patriarca. La divisione ecclesiastica rispecchiava e allo stesso tempo rafforzava la divisione politica;
infatti i confini ecclesiastici tra le due aree corrispondevano, tutto sommato, a quelli esistenti tra territorio longobardo e bizantino: il patriarca di Grado esercitava la sua autorità metropolitana sul territorio rimasto in mano ai bizantini, vale a dire la zona costiera e la penisola istriana, mentre l’entroterra, soggetto ai longobardi, faceva capo al patriarca di Aquileia. Dal momento che Aquileia non era più un luogo sicuro per la vicinanza con Grado, il patriarca preferì porre la sua sede nel castello di Cormons. Negli anni seguenti si verificò un nuovo trasferimento di sede del patriarca di Aquileia;
il cambiamento fu causato da una vicenda tutta particolare: il duca Pemmo aveva accolto a Cividale, capitale del ducato, il vescovo di Zuglio. Il patriarca Callisto, ferito nel suo orgoglio, nel 739 lasciò il castello isolato di Cormons e si insediò a Cividale cacciandone il vescovo di Zuglio. Il patriarca di Aquileia e i suoi suffraganei perseverarono nello scisma dei Tre Capitoli sino alla fine del VII sec. Per intervento del re longobardo Cuniberto il patriarca Pietro e i suoi suffraganei nel sinodo di Pavia (698-699) abbandonarono lo scisma tricapitolino ed entrarono nella comunione con Roma. Il re Cuniberto volle che fosse inviata a papa Sergio una legazione per comunicare queste decisioni. Nonostante la ricomposizione dello scisma e il ritorno di Aquileia alla comunione con Roma, i due titoli di patriarca di Aquileia e di patriarca di Grado e le due distinte giurisdizioni metropolitane continuarono a sussistere. Questa situazione venne accettata e sancita anche dal papa. Gregorio II, inviando il pallio al patriarca Sereno di Aquileia, il 1° dicembre 723 gli scriveva facendogli divieto di estendere la sua giurisdizione oltre «i confini della gente longobarda» e gli ingiungeva quindi di non usurpare i diritti metropolitani del patriarca di Grado;
scriveva inoltre al patriarca di Grado e ai vescovi Venetiae seu Istriae considerando questi ultimi suffraganei del patriarca di Grado. La distinzione delle due giurisdizioni metropolitane è ulteriormente sancita da papa Gregorio III in una lettera del 741 al patriarca di Grado Antonino. Con tutto ciò si era ben lungi dall’aver stabilito dei confini definitivi tra le due giurisdizioni metropolitane;
dal momento che tali confini ecclesiastici combaciavano con quelli politici, le variazioni di questi ultimi finivano per riflettersi sui primi. Nel corso dell’VIII sec. infatti i longobardi diressero decisamente le loro mire espansionistiche sulla costa adriatica e sulla penisola istriana;
i patriarchi di Aquileia videro in ciò la possibilità di allargare la loro giurisdizione metropolitana, mentre il patriarca di Grado fece sentire le sue proteste. Nel 770 la penisola istriana venne conquistata dai longobardi e in seguito a ciò fu messa in crisi la giurisdizione di Grado sulla stessa;
i vescovi della regione si consacravano infatti tra loro, disconoscendo in pratica l’autorità metropolitana del patriarca di Grado. L’episcopato di Paolino (786-802), che Carlo Magno aveva voluto come suo collaboratore nella corte di Aquisgrana, sollevò notevolmente il prestigio della sede di Aquileia. Sulla scia di questo prestigio, il patriarca Massenzio fece il tentativo di ricostituire il patriarcato nella sua antica estensione (quella che aveva prima della fuga a Grado del 569) e nell’unicità della guida. Il 6 giugno 827 aprì un sinodo a Mantova al quale prese parte un gran numero di vescovi alla presenza di legati imperiali. Vennero affrontati due problemi: in primo luogo il rapporto di Aquileia con Grado;
a tale proposito si dichiarò che Grado era una pieve appartenente all’arcidiocesi di Aquileia. Quanto agli episcopati istriani, il sinodo fece proprie le istanze di chierici e fedeli della penisola e dichiarò le sedi vescovili dell’Istria dipendenti dalla giurisdizione metropolitana di Aquileia. A Roma, nuovamente informato nell’846 dal patriarca di Grado Venerio, papa Sergio II disse che considerava la questione sub iudice finché non fosse stata decisa da un sinodo romano (che non ebbe mai luogo). Di fatto il patriarcato di Grado continuò ad esistere, ma privato dell’Istria e ridotto alla sola fascia lagunare sulla quale sorgevano sei sedi suffraganee: Malamocco, Olivolo, Torcello, Iesolo, Cittanova Eracliana e Caorle. Insomma la provincia ecclesiastica gradense corrispondeva ora al ducato veneziano, che proprio in quel tempo trovava la strada della sua crescente autonomia. Negli anni precedenti anche la metropolia di Aquileia aveva subito una ridisegnazione dei suoi confini settentrionali. Nel 798 Carlo Magno aveva elevato la sede di Salisburgo al rango di metropolitana assegnandole come suffraganee le sedi di Sabiona e le diocesi bavaresi organizzate nella prima metà del secolo. Inutilmente il patriarca Orso sostenne che la giurisdizione di Aquileia si estendeva oltre le Alpi. Il 14 giugno 811 ad Aquisgrana Carlo Magno emanò un diploma imperiale con il quale stabiliva definitivamente il corso del fiume Drava quale confine delle due circoscrizioni metropolitane. Da un punto di vista politico, e non solo ecclesiastico, siamo alla presenza di due ambiti che seguiranno vicende loro proprie: Venezia, che si avvia ad essere un ducato indipendente, e l’entroterra, che a metà del X sec. sarà organizzato in una marca con sede a Verona. Quanto a Venezia, rammentiamo brevemente alcune tappe significative. Nell’811 il duca Agnello Particiaco scelse come sede l’isola di Rivoalto, che rimase per sempre il centro del potere politico veneziano. A sottolineare la particolare dignità del luogo, nell’828-829 vennero traslate le reliquie di san Marco al quale la tradizione attribuiva la prima evangelizzazione nella laguna: non furono collocate nella chiesa vescovile del ducato, bensì nella cappella del palazzo ducale;
il massimo esponente del potere locale era quindi il custode delle preziose reliquie del santo patrono. Il culto del patrono divenne in tal modo un importante elemento di rafforzamento di un comune senso di appartenenza e di indipendenza. Il fatto che la provincia lagunare gradense corrispondesse al territorio del ducato non poteva che rafforzare la coscienza della propria autonomia. Se pur formalmente il ducato era sotto la tutela bizantina, di fatto doveva sostenersi con le proprie forze. La conclusione di un patto con l’imperatore Lotario nell’840 (riguardante questioni di confini e di commerci) comportava per lo meno il riconoscimento del ducato come una controparte con cui trattare e chiarì i rapporti tra Venezia e il potere politico dell’entroterra. Nella terraferma, durante la prima metà del X sec., le invasioni degli ungari portarono gravi devastazioni. I patriarchi di Aquileia si resero particolarmente benemeriti nella difesa del territorio e nell’opera di ricostruzione;
ciò guadagnò loro i particolari favori degli imperatori Ottoni, che fecero ampie concessioni territoriali ai patriarchi. I sovrani della dinastia ottoniana accordarono l’esercizio di diritti sovrani anche ad altri vescovi del territorio veneto, incentivando così un processo di potenziamento di alcuni episcopati già precedentemente iniziato. Nel 951 Ottone I ottenne la corona del Regno italico e l’anno seguente costituì un particolare distretto territoriale comprendente il territorio trentino, i comitati veneti e il territorio friulano: si trattava della Marca veronese, con capitale la città di Verona. Il governo venne in seguito affidato al duca di Baviera e di poi a quello di Carinzia. Un punto in comune delle vicende delle Chiese venete di questo periodo è il potenziamento delle funzioni politiche degli episcopati. La restaurazione politica avviata da Ottone I, e proseguita dai suoi successori, voleva mettere fine al frazionamento feudale del territorio;
inoltre, nel perseguire tale intento, gli imperatori sassoni preferirono affidarsi ai vescovi ai quali concessero l’esercizio di diritti sovrani. In tal modo il potere vescovile, che era già considerevole sotto l’aspetto patrimoniale, crebbe notevolmente anche in campo politico. Nel 967 Ottone I concesse al vescovo di Verona diritti di esazione fiscale sulle porte cittadine e sui mercati, nonché il diritto di amministrare la giustizia nei territori di proprietà dell’episcopato. L’episcopato di Padova da parte di Berengario I aveva goduto di ampie donazioni, che segnavano l’avvio di un distretto signorile episcopale (897: donazione della curtis di Sacco con relativi diritti giurisdizionali;
915: donate tutte le vie pubbliche della valle del Brenta e tutte le terre spettanti al fisco regio);
nel 964 il vescovo di Padova ottenne da Ottone I la conferma di tali diritti, oltre alla facoltà di erigere castelli, di stabilire luoghi di mercato e altre prerogative. Anche al vescovo di Vicenza vennero confermate precedenti donazioni berengariane;
Ottone III concesse al vescovo l’esenzione dall’intervento dei pubblici ufficiali e l’antico teatro romano (la Berga) fu assegnato come luogo di amministrazione della giustizia. Nel 969 Ottone I concesse all’episcopato di Treviso il castello di Asolo, l’esenzione dai pubblici ufficiali, la facoltà di dirimere controversie e confermò importanti diritti di esazione fiscale sul fiume Sile. Con i loro diplomi gli imperatori sassoni riconobbero ai patriarchi di Aquileia i meriti assunti nella difesa del territorio ed elargirono loro ampi patrimoni fondiari e l’esercizio di speciali diritti;
si costituì in tal modo una rete di legami feudali per cui all’inizio del nuovo millennio il patriarca si mosse come l’effettivo signore del Friuli. Con diploma del 3 aprile 1077, l’imperatore Enrico IV concesse al patriarca Sigeardo la contea del Friuli e i poteri ducali: si trattava di un principato che comprendeva tutto il Friuli e che a partire dal XII sec. fu nominato comunemente «Patria»;
fino al 1420 fu soggetto al governo temporale del patriarca. Cinquant’anni prima, nel 1027, l’imperatore Corrado II aveva assegnato la contea di Trento al vescovo Uldarico II, dando così inizio al principato vescovile trentino. Gli imperatori sassoni consideravano i vescovi, di cui rafforzarono i ruoli pubblici, non solo un elemento di unità dell’Impero, ma (particolarmente Ottone III ed Enrico II il Santo) anche protagonisti della linea riformistica e moralizzatrice da loro adottata, irrinunciabile per garantire la stabilità politica;
mossi dall’intento di assicurarsi vescovi all’altezza del compito, gli imperatori sassoni si attribuirono il diritto di nominare i vescovi. Non mancarono così in questo periodo pastori notevoli quali Raterio sulla cattedra di Verona (931- 968), Rodolfo a Vicenza (967-973), Popone ad Aquileia (1019-1041). Quest’ultimo non lavorò soltanto con straordinaria energia per rivitalizzare la vita economica del Friuli e per rafforzarne la coesione politica, ma rinsaldò i legami delle diocesi appartenenti alla sua metropolia. La solenne consacrazione, nel 1031, della basilica di Aquileia da lui restaurata fu una manifestazione dell’unità dei vescovi suffraganei attorno al patriarca. Popone cercò di imporre le proprie prerogative metropolitane anche sulla fascia litoranea soggetta a Grado e nel 1023 compì un devastante saccheggio a danno della basilica gradense;
ma l’anno successivo il papa ingiunse a Popone di recedere dalla sua occupazione dell’isola e di non attentare più ai diritti metropolitani di Grado. Quando a Roma, a metà dell’XI sec., si inaugurò la stagione della riforma della Chiesa (riforma gregoriana), i vescovi del patriarcato aquileiese rimasero attaccati al sistema politico ed ecclesiastico tradizionale, continuando a muoversi in una linea filoimperiale. Allo scoppio della lotta per le investiture tra Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV, il patriarca Sigeadro (e così pure i suoi tre successori) furono rigorosamente filoimperiali. Solo con il concordato di Worms del 1122 tramontò la subordinazione degli episcopati al potere regio. A partire dall’inizio del XII sec. cominciò a emergere il peso politico dei ceti cittadini che stavano organizzando il loro ruolo nella vita pubblica: nascevano nei più importanti centri veneti le prime magistrature consolari e si inaugurava così il cammino di crescita ed evoluzione dei comuni. Fin da subito i comuni urbani ambirono ad allargare il loro controllo politico al territorio circostante e perseguirono tale scopo erodendo in modo particolare gli spazi in cui si esercitava l’autorità temporale vescovile, alla fine del XII sec. ormai in forte declino. Tra la fine del XII sec. e l’inizio del XIII si era stabilizzato il quadro delle circoscrizioni diocesane riunite attorno alle due sedi patriarcali di Aquileia e di Grado. Suffraganee della prima erano le diocesi di Como, Trento, Verona, Mantova, Vicenza, Padova, Treviso, Ceneda, Feltre, Belluno, Concordia, Trieste, Capodistria, Cittanova d’Istria, Parenzo, Pola e Pedena. Suffraganee di Grado erano Olivolo (dall’XI sec. i vescovi vennero sempre più indicati come vescovi di Castello, isola in cui sorge la cattedrale), Chioggia, Torcello, Cittanova Eracliana, Iesolo, Caorle e (dopo che nel 1155 papa Adriano V le rese soggette a Grado) Zara, Veglia, Arbe, Ossero e Lesina. Notevole impulso alla vita religiosa delle Chiese venete venne impresso dagli ordini mendicanti che si insediarono nel territorio fin dai primi decenni del Duecento. I francescani ebbero un’ampia diffusione;
i domenicani ebbero tra le loro sedi più prestigiose Padova, ove giunsero nel 1226 e trovarono il favore degli studiosi della città universitaria, e Venezia, ove eressero la chiesa e convento dei Santi Giovanni e Paolo su un terreno donato dalla Repubblica;
molto diffusi anche gli eremitani di sant’Agostino. La presenza degli ordini mendicanti fu incisiva nella predicazione, nella riflessione teologica e nella spiritualità dei laici attraverso l’organizzazione degli ordini terziari. Non mancarono tra loro i santi, come ad esempio i domenicani san Pietro di Verona, caduto vittima nel 1252 di eretici fanatici, e Niccolò Boccasini (papa Benedetto XI) di Treviso. Il più celebre è in ogni caso il francescano sant’Antonio di Padova, che svolse un’intensa attività apostolica attraverso la predicazione e gli interventi in campo sociale (pacificazioni, lotta all’usura);
morto nel 1231, fu subito oggetto di un culto che si allargò su scala mondiale. Sulla scia degli ordini maschili seguirono numerose le fondazioni degli ordini femminili. Altro fattore non trascurabile nella storia religiosa veneta è la nascita nel 1222, sulla base di preesistenti scuole, dell’università di Padova;
essa fu per secoli l’unico studio generale del territorio veneto e uno degli atenei più celebri d’Europa;
il vescovo padovano aveva il ruolo di cancelliere e quindi il potere di conferire i gradi accademici. Nel 1363 papa Urbano V concesse la facoltà di teologia. La fioritura della vita religiosa che si registra nelle Chiese venete durante questo secolo venne gravemente turbata, ma non comunque compromessa nel suo sviluppo, dalle vicende politiche di Ezzelino III da Romano (1194-1259), il quale, grazie all’appoggio dell’imperatore Federico II, nel corso degli anni Trenta si impadronì di Verona, Vicenza, Padova, Ceneda, Treviso e Belluno, instaurando così il suo predominio sull’area veneta. Si trattò del primo, ancora non maturo, costituirsi di un governo di tipo signorile;
alla sua morte, questa prima signoria venne cancellata. La realizzazione di Ezzelino era comunque la prima avvisaglia di un nuovo fenomeno politico che avrebbe caratterizzato l’imminente futuro della terra veneta: il costituirsi di signorie. Il corso del Trecento è caratterizzato dai tentativi, menzionati qui in una successione estremamente schematica, di instaurare una loro egemonia sul Veneto centrale da parte dei da Camino di Treviso, dei della Scala di Verona, dei da Carrara di Padova e infine dei Visconti di Milano;
sul finire del secolo Venezia intervenne decisamente nella terraferma per allargare ormai in quella direzione il suo dominio. La politica unicamente marittima che Venezia aveva condotto da secoli, venne mutata in seguito alla «guerra di Chioggia ». Nel corso di quel conflitto, scoppiato nel 1378, i genovesi si erano alleati ai Carraresi di Padova ed erano arrivati a occupare la città di Chioggia e a cingere d’assedio Venezia. Alla fine furono i genovesi che dovettero accettare la resa, ma Venezia era uscita stremata da quel conflitto e la pace di Torino (1381) le imponeva clausole particolarmente gravose, specialmente in tema di diritti di navigazione. Invece Venezia da quel momento intraprese una rapida avanzata nella terraferma. Vennero di seguito annessi i territori di Treviso (1388, la città era già stata in precedenza soggetta a Venezia) e nel 1404 le città di Vicenza, Feltre e Belluno;
l’anno seguente Padova e Verona;
nel 1420 venne annesso lo stato patriarcale di Aquileia. Con la vittoria riportata a Maclodio sui Visconti di Milano, la frontiera con il ducato di Milano venne portata in pieno territorio lombardo: facevano parte ormai della Repubblica le città di Brescia e di Bergamo. Così nel 1430 la Repubblica estendeva il suo dominio sulla terraferma sopra un territorio che andava dall’Isonzo all’Adda. Nel corso di queste conquiste Venezia si preoccupò di esercitare il suo controllo sulle strutture ecclesiastiche, insediando a capo delle sedi vescovili annesse al suo dominio degli ecclesiastici di fiducia, appartenenti al patriziato veneziano. Venezia aveva ben presente che per rafforzare l’esercizio della sua sovranità era di vitale importanza fare in modo che le cariche ecclesiastiche di maggior rango venissero occupate da uomini di particolare fiducia. Si decise pertanto, via via che la terraferma veniva conquistata, che i benefici maggiori dovevano essere assegnati con il sistema delle probae. Tale sistema consisteva nel raccogliere i nomi di coloro che si autocandidavano a un beneficio resosi vacante;
i nomi raccolti venivano sottoposti alla votazione del senato e il nome di colui che raccoglieva il maggior numero di suffragi veniva presentato al papa facendo pressione affinché conferisse il beneficio al candidato. I motivi non confessati di questo sistema erano avere nelle cariche ecclesiastiche cittadini fidati piuttosto che estranei e ridurre la libertà di scelta del papa. Tale sistema era entrato in vigore nella seconda metà del Trecento;
la prima testimonianza è la proba per il vescovato di Modone nel 1363. Nel 1413 si stabilì che agli episcopati di Treviso, Ceneda, Padova, Vicenza, Verona e Zara si doveva provvedere attraverso la proba in senato;
nel 1422 il sistema venne esteso alle sedi di Feltre e di Belluno;
particolare punto di contrasto con Roma la sua applicazione per la sede di Aquileia. Con una legge del 1437 il senato stabiliva che i benefici ecclesiastici dovevano essere assegnati ai cittadini veneti e non già agli estranei, come era tendenza della curia romana. La Repubblica non riusciva sempre nella realizzazione di questo suo intento e così il conferimento dei benefici maggiori accendeva tra Venezia e la Sede apostolica sempre nuove ed aspre contese. I candidati scelti da Venezia erano in genere appartenenti al patriziato veneziano, di buona preparazione culturale, talora autentici umanisti;
non si può mancare di notare la particolare bontà di un buon numero di scelte operate, come la nomina di Fantino Dandolo a Padova, Pietro Barozzi prima a Belluno e poi a Padova, Ludovico Barbo a Treviso, Antonio Pizzamano a Feltre. A metà del secolo ebbe luogo un’importante riorganizzazione della struttura diocesana veneziana e della metropolia gradense. Il vescovo da cui la città di Venezia dipendeva risiedeva nell’isola di Castello, sede suffraganea del patriarca di Grado, il quale dal 1156 aveva fissato la sua sede a Venezia, in San Silvestro. Papa Niccolò V, l’8 ottobre 1451, poneva fine alla sede patriarcale di Grado come pure alla diocesi di Castello, e in quella sede erigeva la sede patriarcale di Venezia, il cui titolare si doveva per il futuro chiamare «patriarca di Venezia»;
la nuova diocesi di Venezia era formata dal territorio delle due precedenti diocesi di Grado e di Castello (complessivamente 20.000 abitanti, metà dei quali dimoranti nella città di Venezia). Nella bolla contenente il provvedimento, Niccolò V spiegava tale decisione con la volontà di adeguare la struttura ecclesiastica allo splendore e alla potenza raggiunta dalla città di Venezia e dal suo dominio;
non espressamente dichiarato, ma determinante era stato lo scopo di porre al fianco di un governo che difendeva fieramente le sue prerogative in campo ecclesiastico, un’autorità religiosa di prestigio che avesse presa diretta sulla popolazione e richiamasse un più stretto legame con Roma. Tale provvedimento riorganizzativo resta particolare nella sua speciale portata e comunque non è unico. Infatti per tutto il corso del Quattrocento si snoda una lunga serie di soppressioni di diocesi, di accorpamenti, di ridisegnazioni di confini;
tale genere di provvedimenti, continuati in numero più ridotto ma con conseguenze non meno incisive nei secoli seguenti, mutò in maniera profonda l’assetto territoriale delle diocesi venete. Si verificano in questo periodo nel territorio della Serenissima importanti fenomeni di ripresa religiosa animati da personalità di intensa vita spirituale. Importante sotto questo aspetto fu la riforma di ordini religiosi. A Venezia, nell’isola di San Giorgio in Alga, nel 1404 alcuni giovani nobili diedero vita a una comunità di canonici regolari allo scopo di realizzare, pur senza voti, una vita comune animata dalla pratica della povertà, dal culto liturgico, dalla cura spirituale. L’animatore, Gabriele Condulmer, divenne in seguito papa con il nome di Eugenio IV;
fece parte della comunità san Lorenzo Giustiniani, in seguito primo patriarca di Venezia che diede nuovo slancio alla diocesi attraverso importanti e mirate riforme. Ludovico Barbo fece del monastero di Santa Giustina di Padova il laboratorio di una profonda riforma della vita monastica benedettina, che da quella sede conobbe un’irradiazione notevole. Passato poi alla sede vescovile di Treviso (1437-1443), il Barbo intraprese un’energica attività riformatrice nella diocesi. A Padova i vescovi Fantino Dandolo (1448-1459) e il giovane Pietro Barozzi (1487-1507) promossero una serie di interventi riformatori nella vita religiosa e nell’organizzazione della diocesi, servendosi della celebrazione di sinodi diocesani e di visite pastorali. All’inizio del nuovo secolo le potenze europee si collegarono tra loro nella lega di Cambrai al fine di colpire la potenza raggiunta dalla Repubblica veneta. Alla lega aderì anche papa Giulio II, che ne divenne di fatto l’animatore. La devastante sconfitta di Agnadello del 1509 sembrò aprire le porte alla caduta definitiva della Repubblica. L’anno seguente papa Giulio II concluse con Venezia una pace separata nella quale impose delle capitolazioni di carattere ecclesiastico, la più importante delle quali stabiliva la libera collazione delle diocesi da parte del papa, privando così la Serenissima del diritto di nomina dei vescovi attraverso il sistema delle probae;
un’altra clausola proibiva alla Serenissima di imporre decime al clero. Tali provvedimenti costituirono un grave colpo per la Repubblica che aveva sviluppato un forte senso di indipendenza, che comportava la tutela di prerogative in campo ecclesiastico. Invano nel 1531 e nel 1543 la Serenissima fece tentativi presso la Sede apostolica per un ristabilimento del diritto di nomina dei vescovi. Quanto alle nomine vescovili, si fece strada un tacito accordo: nel corso del Cinquecento infatti le sedi venete furono nelle mani di prelati appartenenti al patriziato veneziano;
si distinsero particolarmente le famiglie dei Grimani, dei Corner e dei Pisani, famiglie «papaliste », vale a dire con forti agganci a Roma. La strada delle carriere ecclesiastiche, della realizzazione di dinastie familiari su sedi vescovili diventa una strada da percorrere per famiglie che vogliono distinguersi e affermare una loro preminenza in seno a una società oligarchica. Nella prima metà del Cinquecento furono presenti e operanti nel territorio veneto esperienze di una vivace rinascita spirituale e pastorale. All’inizio del secolo Gasparo Contarini, Vincenzo Querini, Nicolò Tiepolo e altri diedero vita nella casa dell’amico Paolo Giustiniani a un cenacolo di giovani desiderosi di perseguire la loro santificazione personale. Il Giustiniani e il Querini entrarono poi nell’eremo di Camaldoli (1510-1511) e in seguito stesero il noto programma di riforma indirizzato a Leone X. Contemporaneamente il Contarini superava una profonda crisi interiore;
uomo di alta cultura, di intensa vita spirituale, fu capace di cogliere nelle dottrine dei riformati istanze e nuclei di verità condivisibili. A Venezia, nel 1522, fu introdotto l’Oratorio del Divino Amore da san Gaetano da Thiene e venne organizzato l’ospedale degli incurabili. Si ebbero le prime presenze di chierici regolari: Giampietro Carafa, assieme a san Gaetano, portò a Venezia i teatini;
mentre il patrizio Girolamo Emiliani (o Miani) nel 1534 dava vita alla Compagnia dei Servi dei Poveri (somaschi). A Verona il vescovo Gian Matteo Giberti (1524-1543) si dedicò a un’intensa attività pastorale che toccava vari settori come l’innalzamento morale e culturale del clero, la formazione catechistica dei fedeli, l’organizzazione di confraternite. Era diffusa una spiritualità fervente, aperta alle novità, animata da istanze di riforma. In questo contesto si situa il grande successo delle opere di Erasmo a Padova nei primi anni Trenta: nella celebre città universitaria gli scritti del noto umanista ebbero un successo più alto che in ogni altra città italiana. Quale fascino esercitasse la corrente spirituale dell’evangelismo è testimoniato anche dalla vasta diffusione del Beneficio di Cristo, opera ispirata al pensiero teologico di Juan de Valdés. In questo clima si comprende come le dottrine riformate abbiano precocemente iniziato a mettere radici nel territorio veneto. Uno degli epicentri principali era la città di Venezia, centro di circolazione di merci, di uomini e di idee. Già nel 1520 in città circolavano copie delle opere che Lutero aveva pubblicato in quell’anno quali Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, La cattività babilonese della Chiesa, La libertà del cristiano. Di quattro anni più tardi è un’annotazione che testimonia che a Padova non poche persone avevano letto le opere di Lutero e le avevano apprezzate perché fondate sulla sola Scrittura. Cominciarono così le prime misure di contrasto: il nunzio Tommaso Campeggi nel 1524 chiese in collegio il rogo delle opere di Lutero;
alla fine di quell’anno il patriarca di Aquileia emanò un decreto contro i detentori, i lettori e i diffusori di opere di scrittori riformati. Nel 1531 il francescano Bartolomeo Fonzio dovette abbandonare la città di Venezia per aver predicato le dottrine di Lutero;
ma l’anno seguente Giampietro Carafa inviò a Roma un quadro allarmante sulla situazione della diffusione delle dottrine eretiche;
particolarmente preoccupati in materia furono i dispacci del nunzio Girolamo Aleandro. Un fenomeno peculiare fu il successo che ebbe in Veneto il movimento anabattista, la cui presenza e attività di proselitismo interessarono varie zone quali la città di Venezia, il territorio di Vicenza, di Cittadella, di Padova, il Friuli. A Vicenza, nella cerchia del nobile Giangiorgio Trissino, trovano buona accoglienza le dottrine calviniste. Da parte sua il governo intervenne nell’opera di disciplinamento dottrinale. Nel 1542 prese a funzionare con regolarità il tribunale dell’Inquisizione composto formalmente dal nunzio, dal patriarca di Venezia e da un inquisitore;
da parte sua la Repubblica, volendo difendere le sue prerogative sovrane e allo stesso tempo controllare la legittimità degli atti del tribunale canonico, nel 1547 stabilì che alle sedute di quell’organo dovessero esser presenti tre magistrati da lei designati, i Tre Savii all’Eresia. Il governo della Serenissima mise mano ad arginare la diffusione della stampa sospetta ed eretica dando mandato al nunzio, all'inquisitore e ai Tre Savi di compilare un elenco di libri da mettere al bando in tutto il territorio del Dominio. Quando si riunì il concilio di Trento, evento centrale della riforma cattolica e base del successivo disciplinamento, Venezia non inviò suoi rappresentanti diplomatici. Durante i primi due periodi del concilio (1545-1547;
1551-1552) i vescovi della Repubblica che presero parte ai lavori furono pochi e, salvo qualche eccezione, poco preparati. La presenza di prelati veneti, tra i quali i patriarchi di Venezia e di Aquileia, fu massiccia nel terzo periodo del concilio (1562-1563), al quale presenziarono anche due rappresentanti diplomatici. Non molti mesi dopo la conclusione del concilio, la Repubblica veneta (22 luglio 1564) dispose che i vescovi del Dominio curassero l’osservanza dei decreti conciliari. Molti vescovi si segnalarono per un’intensa attività riformatrice sulla scia di quanto aveva stabilito il concilio. A Treviso Giorgio Corner, che celebrò numerosi sinodi e visite pastorali, morì in concetto di santità. A Verona il cardinale Agostino Valier e dopo di lui il nipote Alberto. A Padova Niccolò Ormaneto e Federico Corner. Intensa l’opera condotta a Vicenza da Matteo e Michele Priuli. Ad Aquileia il patriarca Francesco Barbaro lavorò con dedizione all’attuazione dei decreti conciliari nella parte veneta della diocesi;
la sua attività fu però ostacolata da limitazioni nella parte austriaca. Appunto il Barbaro convocò, secondo le direttive tridentine, il concilio provinciale che si svolse nell’ottobre del 1596: vi intervennero personalmente i vescovi di Como, Vicenza, Padova, Treviso, Ceneda, Feltre, Parenzo, Pola e Pedena;
inviarono un loro procuratore i vescovi di Verona, Trento, Belluno, Concordia, Trieste e Cittanova. Negli anni immediatamente seguenti il concilio, vediamo dar vita ai seminari in molte diocesi venete. Magari non in tutti i casi si era in grado di adempiere fin da subito a tutti i requisiti disposti dal concilio, ma in ogni caso il fenomeno mostra la convinzione con la quale molti vescovi decisero di dar vita ad una delle colonne della riforma tridentina;
una rapida carrellata delle date di fondazione è quanto mai eloquente: 1566 Treviso e Vicenza, 1567 Verona, 1568 Belluno, 1570 Padova, 1581 Venezia, 1587 Ceneda. Nel corso del Cinquecento i rapporti tra Venezia e Roma non erano mai stati del tutto sereni;
motivi di attrito, quando non di contesa, erano dati dalla politica beneficiale, dalle questioni giurisdizionali, dalla proprietà ecclesiastica, dal diritto di navigazione sull’Adriatico. Alla fine del secolo si andò affermando alla guida della Repubblica un gruppo di patrizi, i «giovani », che erano animati da una più gelosa salvaguardia delle prerogative del governo in campo ecclesiastico e auspicavano una maggior presa di distanza nei confronti di Roma. Tra le punte di diamante della nuova classe dirigente sono da segnalare il doge Lorenzo Donà e il celebre servita Paolo Sarpi, consultore in iure. Si assiste così alla fine del secolo a una sotterranea, serpeggiante tensione tra Venezia e Roma, che esplose platealmente all’inizio del Seicento con la celebre questione dell’Interdetto. Il senato, che nel corso del Cinquecento era stato accomodante verso Roma in materia di censura, nel 1596 abolì tutti i privilegi papali di stampa e si rifiutò di pubblicare l’Indice promulgato da Clemente VIII. Altro settore nel quale il governo concentrò la sua attenzione erano le proprietà ecclesiastiche assai estese, sulle quali era assai difficile riscuotere decime;
il senato tra il 1602 e il 1605 emanò delle leggi con cui vietava agli ecclesiastici la possibilità di ottenere per prelazione terreni appartenenti a laici, e di costruire chiese e oratori senza aver prima l’autorizzazione del senato. Nell’estate del 1600 a rinfocolare la tensione con Roma si era messa la nomina del nuovo patriarca. Da parte sua la curia romana rivendicava la libertà della Chiesa non rendendosi conto che, se la difesa del principio era doverosa, le sue pretese si indirizzavano a istituti anacronistici (come il privilegium fori), non concepibili nello Stato moderno, che non poteva ammettere che in settori importanti quali il fisco e l’amministrazione della giustizia ci fossero delle isole sottratte alla sua autorità. Si giunse alla sfida aperta nell’autunno del 1605. Paolo V chiedeva la consegna all’autorità ecclesiastica di due chierici incarcerati per ordine del Consiglio dei Dieci e denunciava una grave lesione al privilegium fori;
pretendeva inoltre che la Serenissima abolisse le leggi sulla proprietà ecclesiastica. La Repubblica fu irremovibile nel suo rifiuto: in caso contrario sarebbe stata messa in crisi la sua sovranità. Così nel maggio del 1606 l’interdetto su tutto il territorio della Repubblica, minacciato dal papa un mese prima, divenne operante. La conciliazione ebbe luogo quasi un anno dopo, il 21 aprile 1607, e a raccoglierne i maggiori vantaggi fu di fatto Venezia, che non aveva ritirato le leggi sulla proprietà ecclesiastica e neppure negato le sue pretese nel processare ecclesiastici che avessero infranto leggi statali. Negli anni Venti il gruppo dei «giovani », agguerrito sostenitore dell’indipendenza della Repubblica nei confronti della Sede apostolica, dava segni di declino e di una non più granitica compattezza;
ciò nonostante negli anni che seguirono continuò a giocare ancora un ruolo di rilievo. Possiamo cogliere nei seguenti fatti i sintomi di un significativo mutamento di tendenza in seno alla classe dirigente: nel 1620 la maggioranza dei senatori era favorevole al ritorno dei gesuiti che al tempo dell’Interdetto erano stati espulsi per aver obbedito a Roma;
nel 1624 diveniva doge Giovanni Corner, esponente di una delle famiglie papaliste del patriziato;
infine nel 1631, dopo un’elezione combattuta per le sue sfumature politiche, venne creato patriarca di Venezia il cardinale Federico Corner, che godeva di ottimi legami con la corte di Roma. Tali cambiamenti segnano come ormai superato il periodo dell’Interdetto, quale lotta condotta all’ultimo scontro su questioni di principio;
nondimeno negli anni seguenti non mancarono motivi di tensione su questioni di principio tra Venezia e Roma (arresto di servi dell’ambasciatore veneto in Roma;
la questione dell’iscrizione della Sala Regia in Vaticano;
la disputa sulle nomine vescovili), ma se anche il confronto giunse talora a livelli di guardia, non si arrivò mai allo scontro frontale, anche perché nella classe dirigente veneziana, specie per influsso degli ambasciatori veneti, si faceva largo la coscienza di dover affrontare le questioni aperte con Roma su un terreno di sano realismo. I vescovi alla guida delle diocesi venete durante il Seicento erano per la stragrande maggioranza dei veneziani, in maggior parte appartenenti al patriziato, questi ultimi anzi occupavano immancabilmente le sedi più prestigiose;
erano in minoranza i vescovi nativi della terraferma. In media possedevano un livello di istruzione alto, essendo molti addottorati in diritto o, in minore percentuale, in teologia. La loro attività si svolgeva nei binari segnati dal concilio Tridentino: svolgimento di visite pastorali, convocazione di sinodi diocesani, organizzazione e irrobustimento dell’insegnamento catechistico tra il popolo. Non si può omettere qui di nominare la grande figura di Gregorio Barbarigo vescovo di Padova dal 1664 al 1697 e la sua intensa opera di rinnovamento di quella diocesi. La progressiva assimilazione delle direttive tridentine tra i fedeli e il clero doveva farsi strada in una concomitante situazione di ignoranza religiosa e di abusi morali. L’attività pastorale doveva fare i conti con gli interventi e i controlli dell’autorità secolare della Repubblica;
altro tema alquanto ricorrente nelle diocesi nel corso di questo secolo, come del successivo, furono i contrasti dei vescovi con i capitoli cattedrali, gelosi e tenaci difensori delle prerogative ed esenzioni accumulate nei secoli, che in alcuni casi ne facevano dei corpi sottratti all’autorità vescovile. Nel corso del Settecento, nel solco di quel tradizionale spirito di indipendenza che l’aveva caratterizzata davanti all’autorità ecclesiastica, la Serenissima subì l’influsso delle dottrine giurisdizionaliste imperversanti in Europa e rafforzò i suoi controlli e interventi in vari ambiti della vita della Chiesa. Papa Benedetto XIV, celebre giurista, era intenzionato a contenere gli interventi della Repubblica sulla proprietà ecclesiastica, sulle limitazioni degli appelli ai tribunali romani, circa il placet sui documenti da e per Roma. Proprio sui provvedimenti presi da Venezia in quest’ultima materia scoppiò nel 1754 un’aspra vertenza tra la Serenissima e Roma;
si giunse a un soffio da un nuovo interdetto, ma la morte di Benedetto XIV nel 1758 e la successiva elezione del veneziano Carlo Rezzonico (Clemente XIII) portarono a una tregua. Fu tra il 1767 e il 1768 che vennero emanate delle leggi caratterizzate da un ancor più deciso spirito giurisdizionalista: il divieto di cumulo di benefici, il divieto di far uscire denaro dai confini della Repubblica, il divieto ai parroci di chiedere dispense al nunzio con l’obbligo di chiederle al patriarca, il divieto ai vescovi di allontanarsi dalle loro sedi senza aver prima ottenuto il permesso governativo, la soppressione di diversi monasteri e conventi. Nel contempo gli interventi del giurisdizionalismo absburgico procuravano un radicale ridisegnamento dell’organizzazione circoscrizionale del patriarcato di Aquileia. Infatti, cedendo alle pressioni dell’imperatrice Maria Teresa, papa Benedetto XIV diede un nuovo assetto territoriale alla diocesi di Aquileia e ridisegnò i confini della provincia ecclesiastica. Si trattò di una serie di provvedimenti emanati gradualmente tra il 1751 e il 1753. Con bolla del 6 luglio 1751 il papa soppresse la diocesi e provincia ecclesiastica di Aquileia e ne affidò la temporanea amministrazione, fino a nuovi provvedimenti, al cardinale Daniele Dolfin, ultimo patriarca di Aquileia. In seguito con due nuove bolle (rispettivamente del 18 aprile 1752 e del 19 gennaio 1753) divise il territorio del soppresso patriarcato nel modo seguente: la parte politicamente soggetta all’Impero venne istituita in arcidiocesi con sede a Gorizia e la parte soggetta alla Repubblica veneta venne eretta in arcidiocesi con sede a Udine. Con uguale criterio venne divisa anche la provincia ecclesiastica: a Udine fu assegnata la giurisdizione metropolitana sulle diocesi venete che per innanzi erano soggette ad Aquileia (Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Feltre, Belluno, Ceneda, Concordia, Parenzo, Pola, Capodistria ed Emona);
a Gorizia viene assegnata la giurisdizione metropolitana sulle suffraganee di Aquileia in territorio imperiale: Como, Trento, Trieste e Pedena. Pochi anni più tardi, in seguito alle reiterate pressioni dell’imperatore Giuseppe II, che non ammetteva il governo pastorale da parte di stranieri in territori soggetti all’Impero, si verificò un nuovo adeguamento dei confini delle circoscrizioni diocesane a quelli politici tra Impero e Repubblica veneta. Con provvedimento concistoriale del 1785, operativo però l’anno seguente, la diocesi di Trento cedeva a quella di Brescia le parrocchie di Tignale e Bagolino, in compenso riceveva dalla diocesi di Verona le parrocchie di Avio e Brentonico, da quella di Padova Casotto e Pedemonte e dalla diocesi di Feltre la Valsugana e il Primiero. Tre anni più tardi, nel 1788, nuovamente su istanza di Giuseppe II, papa Pio VI soppresse l’arcidiocesi di Gorizia, le diocesi di Trieste e Pedena e stabilì l’erezione di una nuova diocesi il cui territorio era costituito dal territorio delle tre diocesi soppresse e dal territorio austriaco delle diocesi di Parenzo e di Pola;
la sede della nuova diocesi era stabilita nella città di Gradisca, sul fiume Isonzo;
la giurisdizione metropolitana della soppressa sede di Gorizia era trasferita alla sede di Lubiana, di cui Gradisca doveva essere suffraganea. Appena tre anni dopo (1791), ancora una volta su istanza imperiale (era imperatore Leopoldo II), papa Pio VI ritornava su questi provvedimenti annullandoli in parte: si stabilì il ritorno della sede vescovile da Gradisca a Gorizia, con un territorio limitato alla sola contea;
la diocesi restava soggetta al metropolita di Lubiana. Veniva inoltre fatta risorgere la soppressa diocesi di Trieste. Nella primavera del 1796 Napoleone diede inizio alla campagna d’Italia e il senato veneto proclamava l’11 giugno la neutralità, che comunque non mise al riparo la Repubblica dai travolgenti successi francesi. E pure se vi furono delle sollevazioni locali in nome dell’antica Repubblica in concomitanza con l’arrivo delle truppe francesi nelle città venete, gruppi di democratici presero in mano la situazione, licenziarono i rettori veneti e proclamarono le municipalità provvisorie alle quali non mancò in tanti casi il sostegno di parte del clero. Il 12 maggio 1797 il Maggior Consiglio di Venezia, sottomettendosi a un’ingiunzione di Napoleone, dichiarava la fine della Repubblica e abdicava la sua sovranità: si trattò dell’ultimo atto della Repubblica, nel quale si faceva raccomandazione di perseverare nella religione dei padri. Con il trattato di Campoformido del 17 ottobre 1797 Napoleone Bonaparte cedeva all’Austria il territorio veneto dall’Isonzo al Mincio, la penisola istriana e la Dalmazia. Dopo che sul finire del 1805 Napoleone sconfisse pesantemente l’Austria ad Austerlitz, il Veneto (come pure la Dalmazia e l’Istria) ritornò in mano ai francesi;
infatti con la pace di Presburgo (25 dicembre) tali territori vennero annessi al Regno d’Italia, vassallo dell’Impero napoleonico. Così tra il 1806 e il 1814 sulle Chiese venete venne applicata la legislazione ecclesiastica elaborata dal ministero del culto di Milano e applicata in loco attraverso delegati speciali. Non è il caso di indulgere a una semplicistica lettura unilaterale e retorica delle ristrutturazioni del quadro ecclesiastico operate da parte napoleonica leggendo in esse esclusivamente l’espressione di un accanimento dissacratore o di una volontà distruttrice nei confronti della Chiesa. Va ricordato che l’intervento statale in questioni ecclesiastiche non costituì una novità assoluta: esso si era verificato con il giurisdizionalismo dell’ultima fase della Repubblica, come pure con il giuseppinismo degli anni di dominazione austriaca (1798-1805). Una prima serie di provvedimenti si occupò del clero secolare e regolare: ai vescovi e ai capitoli si assegnavano degli introiti fissi quale rimborso di beni immobili indemaniati;
la facoltà teologica dell’università di Padova venne soppressa;
vennero aboliti diritti di giuspatronato di nobili e di comunità;
si stabiliva la concentrazione dei religiosi, secondo l’ordine di appartenenza, in un numero più ridotto di case, mentre i beni appartenenti alle case soppresse venivano incamerati dal demanio. Quanto ai religiosi, si giunse al provvedimento drastico del 1810 il quale stabiliva che, eccezione fatta per «gli ospitalieri, le suore della carità e le altre case per l’educazione delle femmine che giudicheremo conservare con decreti speciali», tutti gli ordini e congregazioni religiose erano soppressi, i loro beni incamerati dal demanio, i loro membri rispediti ai paesi natali con divieto di vestire l’abito religioso, i sacerdoti assegnati in servizio alle parrocchie. Tale provvedimento ebbe conseguenze assai gravi per quel che riguarda il patrimonio artistico, si verificarono infatti dispersioni e distruzioni. Con due decreti (1806 e 1807) venivano indemaniati i beni delle confraternite laiche e ne veniva decretata la soppressione: nella sola diocesi di Verona furono 536 le confraternite e associazioni laicali che cessarono di esistere. Una volta caduto Napoleone, il congresso di Vienna assegnò il territorio dell’antica Repubblica veneta all’Impero austriaco. Nell’aprile del 1815 venne decretata la nascita del Regno lombardo-veneto: il rappresentante dell’imperatore aveva sede a Milano, mentre il territorio era diviso in due governi regionali;
il territorio veneto era organizzato in otto delegazioni (Venezia, Udine, Belluno, Treviso, Padova, Vicenza, Verona e Rovigo) a loro volta suddivise in comuni. Il dominio austriaco durò fino al 1866. Subentrando a Napoleone, l’Austria tutto sommato colse i frutti della sua politica ecclesiastica: in molti casi leggi ecclesiastiche napoleoniche permasero senza sostanziali mutamenti. L’imperatore Francesco I, ispirato da un’autentica mentalità giuseppinistica, rivendicava a sé il ruolo di tutela della Chiesa e quindi si arrogava il diritto di intervenire nella sua organizzazione. Un ambito cui venne messo mano fu la ridisegnazione territoriale delle circoscrizioni diocesane. Su istanza dell’imperatore Francesco I, papa Pio VII, con la bolla De salute dominici gregis, promulgata il 1° maggio 1818, stabiliva quanto segue. La sede di Udine, in quel momento vacante, veniva privata della dignità di sede arcivescovile e veniva così soppressa la provincia ecclesiastica di Udine. La diocesi di Udine e le sue diocesi suffraganee diventavano suffraganee di Venezia. La sede patriarcale di Venezia si trovava così ad avere per suffraganee Udine, fino a quel momento sede metropolitana, le diocesi di Belluno, Concordia, Ceneda, Feltre, Padova, Treviso, Verona, Vicenza, Cittanova d’Istria, Capodistria, Parenzo e Pola (fino a quel momento suffraganee di Udine) e Chioggia (già in precedenza suffraganea di Venezia). Le due diocesi di Caorle e di Torcello, suffraganee di Venezia, venivano soppresse (già lo erano state civilmente durante l’occupazione francese) e il loro territorio era inglobato nella diocesi di Venezia. Le due diocesi di Belluno e Feltre venivano unite aeque principaliter: restavano due persone giuridiche distinte e quindi autonome l’una dall’altra e con pari dignità, ma soggette alla guida di un unico vescovo, al quale era fatto obbligo di risiedere sei mesi in una diocesi e sei nell’altra. La diocesi di Adria venne sottratta alla provincia ecclesiastica di Ravenna e resa suffraganea di Venezia. Allo scopo di garantire una migliore comunicazione tra le parrocchie e i vescovi si procedette riguardo a quasi tutte le diocesi venete a trasferimenti di giurisdizione, che si verificarono in due modi. Innanzitutto vennero abolite le cosiddette parrocchie di salto, vale a dire parrocchie che si trovavano fuori dei confini della diocesi da cui dipendevano e formavano una vera e propria isola all’interno delle diocesi nelle quali il territorio di tali parrocchie insisteva: ad es. le parrocchie di Precenicco, Driolassa, Ontagnano, Flambruzzo, Campomolle e altre che facevano parte della diocesi di Gorizia, ma erano delle isole nel territorio della diocesi di Udine, vennero trasferite alla giurisdizione di quest’ultima sede;
le parrocchie di Mussolente e Casoni, dipendenti dalla diocesi di Belluno, pur trovandosi circondate dalla diocesi di Treviso, vennero sottratte alla giurisdizione diocesana di Belluno e su - bordinate a quella di Treviso. In altro modo la ridisegnazione territoriale delle diocesi venete avvenne attraverso cambiamenti, in alcuni casi notevoli, dei confini delle circoscrizioni: ricordiamo, a titolo di esempio, il caso della diocesi di Vicenza che ricevette da quella di Padova la zona pedemontana composta di dieci parrocchie, mentre Padova ricevette da Vicenza un corridoio territoriale, al cui centro si trovava la popolosa Cittadella, che congiungeva la zona di pianura della diocesi con il territorio montuoso dell’altopiano di Asiago;
Padova inoltre ricevette tre parrocchie dalle diocesi di Verona, Adria e Feltre;
le sei parrocchie che la diocesi di Adria aveva sulla riva destra del Po vennero aggregate alla diocesi di Ferrara. Dieci anni più tardi, papa Leone XII, accogliendo le istanze dell’imperatore che desiderava una sostanziosa riduzione del numero delle diocesi in Istria e in Dalmazia, procedette ad un radicale provvedimento di riorganizzazione ecclesiastica di quelle regioni. Rientrava nel quadro di questa politica ecclesiastica giuseppinistica la nomina di alcuni vescovi di lingua tedesca quali l’ungherese Giovanni Ladislao Pyrker a patriarca di Venezia (1821-1827) e Giuseppe Grasser prima a Treviso (1822-1828) e poi a Verona (1828-1839). Inoltre le relazioni ufficiali delle diocesi con la Santa Sede erano soggette a controllo dall’autorità secolare, mentre la pubblicazione di documenti papali in diocesi doveva ottenere la previa autorizzazione governativa. Ma la miglior manifestazione dello spirito giuseppinista furono le direttive frequenti, perentorie, dettagliate fino alla pedanteria che il governatore regionale veneto impartì in vari settori della vita religiosa. La materia di tali interventi riguardava questioni di natura celebrativa, compilazione dei registri parrocchiali, libri da tenere nelle biblioteche parrocchiali;
si esercitava la sorveglianza sulle lettere pastorali;
si davano direttive sull’insegnamento nei seminari e si esigeva dalle direzioni dei singoli istituti un rapporto annuale sul corso degli studi. Questo stato di cose fece sì che consistenti settori del clero (specie se di origine borghese e popolare) condividessero le aspirazioni indipendentiste;
alcuni, anzi, rivestirono ruoli ispiratori nelle associazioni patriottiche, animati dalla prospettiva del raggiungimento della libertà della Chiesa nella sua attività pastorale. Quando scoppiarono i moti del 1848 non mancarono i sacerdoti che vi presero parte con entusiasmo;
lo stesso patriarca di Venezia, Jacopo Monico, accolse da principio con entusiasmo la rinascita della Repubblica veneta. La Chiesa veneta poté conoscere nuovi e più ampi spazi di autonomia d’azione con il concordato siglato tra la Santa Sede e l’Austria il 18 agosto 1855. Il governo vescovile conobbe maggiore libertà: poté corrispondere liberamente con la Santa Sede;
erigere, sopprimere e accorpare parrocchie;
dirigere gli studi del seminario;
convocare il sinodo e pubblicarne gli atti. Maggiore autonomia fu accordata all’autorità ecclesiastica per quel che riguardava la censura, la legislazione matrimoniale, gli ordini religiosi. All’autorità secolare fu comunque ancora riservato il diritto di conferma delle nomine vescovili e il controllo sull’amministrazione del patrimonio ecclesiastico. La maggiore autonomia si collocò in ogni caso in un quadro di alleanza tra trono e altare che non mancò di essere criticato da alcuni esponenti del clero. In questo contesto di maggiore indipendenza delle chiese locali si riunì nel 1859 a Venezia il primo concilio provinciale veneto convocato dal patriarca Angelo Ramazzotti. Fin oltre le soglie del Novecento, i vescovi veneti si richiameranno nella loro attività pastorale alle norme sancite da questo concilio locale. In quei decenni si assistette nelle diocesi a una fioritura di congregazioni religiose che vennero in parte a colmare i vuoti lasciati dagli antichi istituti soppressi in epoca napoleonica;
a favorire la fondazione di nuovi istituti fu anche il concordato del 1855 che concedeva ai vescovi locali la facoltà di fondare nuovi ordini e a questi ultimi di intrattenere liberi rapporti con la curia romana. Le nuove congregazioni erano caratterizzate da una particolare attenzione ai problemi sociali ed educativi posti dalla presente situazione;
a puro titolo di esempio menzioniamo alcuni tra i più noti istituti: le Figlie e i Figli della Carità (canossiane e canossiani, 1808 e 1831) a Verona;
le dorotee fondate a Vicenza nel 1836 dal vescovo intransigente Giovanni Antonio Farina. Con l’annessione al Regno d’Italia avvenuta nel 1866 la Chiesa veneta dovette vivere il difficile confronto con la modernità, incarnata in ambito politico dallo stato laico, ispirato al principio della netta separazione tra sfera civile e sfera religiosa e animato sovente da atteggiamenti ostili nei confronti dell’autorità ecclesiastica;
stato laico che concedeva alla Chiesa libertà di organizzarsi nei riti e di riflettere nei dogmi, ma che tendeva a limitare ogni influsso e intervento della stessa nella vita pubblica. Si possono qui ricordare come provvedimenti esemplari: l’applicazione in Veneto, avvenuta nel 1866, della legge Rattazzi per cui veniva negato il riconoscimento giuridico alle congregazioni religiose e i loro beni venivano incamerati dal demanio;
nel 1873, la soppressione della facoltà universitaria di teologia esistente nell’ateneo patavino. Per far fronte alla mutata situazione si rese necessaria una riorganizzazione della Chiesa nei suoi modi di farsi presente nella società. Essendo le parrocchie la struttura territoriale che più rendeva presente la Chiesa tra i fedeli, il suo ruolo venne rafforzato, talché si fecero carico di attività e compiti di natura sociale e assistenziale. Prese vita un cattolicesimo di carattere sociale e intransigente insieme;
un cattolicesimo caratterizzato da iniziative di carattere sociale (associazioni cattoliche, Opera dei congressi, cooperative, stampa locale) promosse da laici, animato da uno spirito di intransigenza, da una volontà di contrapposizione verso la modernità. L’iniziativa più significativa fu senza dubbio l’Opera dei congressi. Essa nacque dall’esigenza di organizzare la presenza dei cattolici nel campo assistenziale e culturale. Ideatore e animatore ne fu l’avvocato veneziano Giambattista Paganuzzi, conservatore, che pensava a una organizzazione che si impegnasse nella difesa dei diritti della Chiesa, lesi in più ambiti dal nuovo stato liberale. Nel 1874 si tenne a Venezia un congresso cattolico, e si stabilì la celebrazione di un nuovo congresso per l’anno successivo a Firenze ove ebbe luogo la costituzione dell’Opera dei congressi e si diede vita ai comitati esecutivi per l’organizzazione di pellegrinaggi e di congressi regionali, per l’attuazione delle deliberazioni dei congressi. Nelle singole diocesi prese vita una fitta rete di associazioni e attività di carattere religioso e assistenziale quali comitati parrocchiali dell’Opera dei congressi, casse rurali, società di mutuo soccorso, latterie e cooperative sociali. Nel 1896 in diocesi di Padova facevano capo all’Opera dei congressi 118 comitati parrocchiali con oltre 4000 iscritti, mentre oltre duecento sono gli aderenti ai circoli giovanili;
quaranta casse rurali, venti società operaie, undici associazioni varie, altre sette svicolate da tale organismo. A Verona si contano quarantasette casse rurali, trenta società operaie, diciassette associazioni di vario tipo. Il cattolicesimo veneto fece sentire la sua presenza anche attraverso la stampa. Sullo scorcio dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo nacquero in più luoghi i settimanali diocesani attraverso i quali le Chiese locali fecero sentire la loro voce. Significativamente i titoli esprimono un riferimento alla base popolare di cui si propongono quali portavoce. Il nuovo secolo sorse vedendo l’avanzata del partito socialista, le agitazioni sociali, gli scioperi;
le strutture dell’Opera dei congressi (cooperative, associazioni di mutuo soccorso) si mostrano insufficienti ad affrontare i nuovi problemi e di fatto nel 1904 si avrà lo scioglimento dell’Opera;
si avvertiva inoltre l’opportunità di un ingresso di cattolici in politica, ambito loro precluso dal non expedit. Si verificavano tentativi di dar vita a organizzazioni di rappresentanza operaia (si pensi alle «unioni operaie» di Vicenza), e intervenivano i primi accordi tra cattolici e liberali per convogliare voti su candidati alle elezioni politiche;
d’altro canto queste nuove iniziative provocarono la reazione dei circoli intransigenti. Quando nel 1915 scoppiò la prima guerra mondiale il territorio veneto venne investito in pieno, fu indubbiamente la porzione di suolo nazionale che dovette sopportare il maggior peso del conflitto (il fronte di guerra tra Italia e Austria correva quasi completamente nelle terre venete) con le sue nefaste conseguenze: occupazione nemica, fenomeno dei profughi, mancanza di cibo e fame tra la popolazione civile, chiese e istituti religiosi requisiti e occupati. I vescovi veneti, tra i quali sono numerose le figure che si segnalano per un’intensa vita spirituale e un operoso zelo pastorale, diventarono punto di riferimento morale per le popolazioni travolte dal conflitto, si prodigarono in una vigile presenza tra i fedeli e nell’attività assistenziale. L’annessione di nuovi territori poneva problemi di organizzazione delle strutture ecclesiastiche: la diocesi di Bressanone era stata drasticamente ridimensionata, fallì il tentativo di annetterle la parte tedesca della diocesi di Trento;
la ridefinizione delle due circoscrizioni diocesane avrà luogo solamente nel 1964. Gli anni dell’occupazione tedesca nella seconda guerra mondiale, particolarmente segnati da eventi luttuosi, videro i vescovi veneti impegnati nella difesa delle loro popolazioni, nel portare sostegno agli sfollati, nel tentativo di strappare alla prigionia o alla morte i loro sacerdoti e prigionieri di qualsivoglia credo politico. Si può qui appena accennare (rimandando alle relative voci) ai nomi di Girolamo Bortignon, giovane ed energico vescovo di Belluno, annessa al Terzo Reich;
l’intrepido Antonio Mantiero di Treviso;
Carlo Zinato di Vicenza;
il cardinale Adeodato Piazza a Venezia, che si adoperò per ottenere la scarcerazione di prigionieri politici, per mettere in salvo ricercati. Vittorio D’Alessi di Pordenone aprì le porte dell’episcopio all’accoglienza di poveri e organizzò in seguito attività assistenziali per i profughi dell’Istria. Questa consonanza di condotta aveva trovato la sua espressione nella «Notificazione » che i vescovi veneti stilarono il 20 aprile 1944: in essa l’episcopato veneto usava parole di ferma e chiara riprovazione per le azioni compiute dai fascisti e dagli occupatori quali le rappresaglie spinte fino all’incendio di interi paesi, i rastrellamenti, le deportazioni. Le ricerche che da alcuni anni si vanno svolgendo (si pensi ad esempio agli studi di Tramontin, di Gios) hanno ormai dipanato un quadro dal quale risulta il consistente contributo di parroci e di laici cattolici al movimento resistenziale. Attualmente la regione ecclesiastica Triveneto si estende sul territorio delle tre regioni civili Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Trentino-Alto Adige e conta un totale di quindici diocesi. In detta regione si trovano aggregate le seguenti province ecclesiastiche: la provincia ecclesiastica veneta che ha per metropolita il patriarca di Venezia e conta come suffraganee le sedi di Adria- Rovigo, Belluno-Feltre, Chioggia, Concordia- Pordenone, Padova, Treviso, Verona, Vicenza e Vittorio Veneto;
la provincia ecclesiastica di Trento con la sede arcivescovile di Trento e la suffraganea di Bolzano- Bressanone;
la provincia ecclesiastica di Gorizia con la sede arcivescovile di Gorizia e la suffraganea di Trieste;
e infine la sede arcivescovile di Udine, sede metropolitana senza suffraganee.
Bibliografia
G. Fedalto, Aquileia. Una Chiesa due patriarcati, Roma 1999. Circa i mutamenti di confine delle singole circoscrizioni diocesane e della regione ecclesiastica, ci si può avvalere dell’utile quadro cronologico dettagliato, anche se suscettibile di integrazioni e limitato agli anni compresi dall’811 al 1939, contenuto in RDI Venetiae-Histriae, Dalmatia;relativamente all’epoca medievale, si veda anche C. Violante, Le istituzioni ecclesiastiche nell’Italia centro-settentrionale durante il Medioevo: province, diocesi, sedi vescovili, in Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, a c. di G. Rossetti, Bologna 1977, 87-98. Trattazioni sulla vita e l’organizzazione religiosa del territorio triveneto si trovano anche nelle storie regionali;
segnaliamo i titoli più rappresentativi: Storia della cultura veneta, dir. da G. Arnaldi-M. Pastore Stocchi, 6 voll., Vicenza 1976-1986;
Istituto Trentino di Cultura, Storia del Trentino, II-V, Bologna 2000-2004;
P. Paschini, Storia del Friuli, a c. di G. Fornasir, Udine 19904;
G. C. Menis, Storia del Friuli: dalle origini alla caduta dello stato patriarcale, 1420, Udine 19969. Nel 1991 comparve il volume che inaugurò la collana «Storia religiosa del Veneto» nella quale a ogni diocesi della provincia ecclesiastica veneta è dedicato un volume: I. Patriarcato di Venezia, a c. di S. Tramontin, Padova 1991;
II. Diocesi di Chioggia, a c. di D. De Antoni, Padova 1992;
III. Diocesi di Vittorio Veneto, a c. di N. Faldon, Padova 1993;
IV. Diocesi di Treviso, a c. di L. Pesce, Padova 1994;
V. Diocesi di Vicenza, a c. di E. Reato, Padova 1994;
VI. Diocesi di Padova, a c. di P. Gios, Padova 1996;
VII. Diocesi di Belluno e Feltre, a c. di N. Tiezza, Padova 1996;
VIII. Dario Cervato, Diocesi di Verona, Padova 1999;
IX. Diocesi di Adria-Rovigo, a c. di G. Romanato, Padova 2001;
X. Diocesi di Concordia, 388-1974, a c. di A. Scottà, Padova 2004.
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Regioni ecclesiastiche
FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.