Diócesis de Pistoia
HISTORIA
I - Origini e Medioevo
È destituita da ogni fondamento la tradizione che attribuisce a san Romolo, presunto discepolo di san Pietro, la primitiva organizzazione della Chiesa pistoiese, mentre è sicuramente ascrivibile alla fine del V . l’esistenza di un episcopus Pistoriensis ricordato in una lettera di papa Gelasio.Non abbiamo notizie certe dell’origine della cattedrale, ma alcuni reperti archeologici offrono testimonianze tangibili sia di un luogo di culto paleocristiano (IV-V sec.), sia di una cattedrale del periodo longobardo (VIII sec.), che solo nel X . sarà documentata con il titolo di ecclesia domui Sanctorum Zenonis, Rufini et Felicis.
È stato sostenuto, ma la tesi è tuttora controversa, che in età paleocristiana la diocesi pistoiese, coincidente con il municipium romano, sarebbe stata delimitata da confini naturali: il crinale appenninico e il corso dei fiumi Bisenzio, Arno e Pescia.
Risalirebbe invece all’età longobarda il passaggio a Lucca di una parte della Valdinievole, con le pievi di Pescia, Nievole e Celleri (oggi Cerreto Guidi).
La sede episcopale, rimasta vacante e soggetta a Lucca per l’intero VII sec., solo con l’anno 700 riconquistò la propria autonomia, quando fu eletto vescovo il longobardo Giovanni, figlio di Adroald.
Nell’alto Medioevo furono istituite diciannove pievi rurali, che alla fine del X . l’imperatore Ottone III confermò al vescovo di Pistoia.
Il rapporto che in questo periodo il vescovo ebbe con la città, non solo come guida spirituale, ma anche come primus civitatis, si concretizzò nell’XI . in una signoria di fatto, quando fu edificato il palatium episcopi, fortificato e coronato da merlatura.
Nel 1105, al tempo del vescovo Ildibrando e con il suo consenso, la città elesse i propri consoli, scelti tra i notabili della città che già erano stati accolti nel consiglio episcopale.
Il clima di concordia che all’inizio aveva unito il comune cittadino e la Chiesa pistoiese ebbe vita breve: il processo di autonomia e di libertà, una volta avviato, non rimase bloccato entro lo schema della città vescovile.
Furono così progressivamente contestati i diritti civili acquisiti dal vescovo e si affermò il principio della subordinazione degli ecclesiastici allo statuto comunale.
Il contrasto arrivò al punto di rottura nel 1137, quando i consoli trafugarono il tesoro della cattedrale e occuparono il campanile, usandolo come torre civica.
Nella domenica dopo l’Epifania del 1138 il vescovo Atto, di fronte a tutto il clero e al popolo radunato in cattedrale, lesse la sentenza di scomunica dei consoli, che fu revocata un paio d’anni più tardi, quando finalmente fu raggiunta un’intesa.
La rinnovata concordia tra vescovo e comune sarà confermata nel 1145, attorno alla reliquia dell’apostolo Giacomo il Maggiore, che Atto aveva proclamato patrono della città e del comune.
Il culto della sacra reliquia fu oggetto di particolare devozione, tanto che la comunità cittadina volle onorarla con un altare marmoreo ornato da un dossale d’argento con le figure dei dodici apostoli e della Madonna.
Dopo il tentato furto di Vanni Fucci, ladro alla sagrestia de’ belli arredi (Inferno XXIV, 138), nel Trecento fu realizzato un più maestoso altare, tutto in argento, una delle più note e importanti opere dell’oreficeria medievale italiana.
Nel XII e XIII . si assistette all’ampliamento della rete delle pievi e all’istituzione delle chiese parrocchiali, assetto che, documentato dalle liste delle Decime del 1274 con 35 pievi e 182 parrocchie, rimase pressoché immutato fino alle riforme del vescovo Scipione de’ Ricci (1780-1791).
Tra la fine dell’XI e i primi decenni del XII . si registrò una forte presenza vallombrosana, con ben sette monasteri.
La diocesi medievale, nel suo disomogeneo disegno, si estendeva a settentrione tra l’Appennino di Vernio e quello di Bosco Lungo, allora compreso nelle pertinenze del piviere di Lizzano, mentre a meridione seguiva la riva destra dell’Arno dalla confluenza dell’Ombrone, oltre il masso della Golfolina, toccando Capraia, fino a quel Limite che ancor oggi rinvia, nella lunga durata toponomastica, all’esistenza dell’antico confine ecclesiastico.
A occidente esso si spingeva fino alle plaghe acquitrinose del padule di Fucecchio da cui risaliva, lungo il bacino della Nievole, sino al poggio di Marliana, raggiungendo la pieve di Serra, sulla Pescia maggiore, da cui proseguiva lungo la Lima fino ai dorsi del poggio di Popiglio fino a Bosco Lungo.
Sul lato orientale il limen con la contermine diocesi fiorentina seguiva il corso dell’Ombrone fino all’Arno, all’altezza di Poggio a Cajano, da cui piegava a Gonfienti sul Bisenzio, comprendendo la terra di Prato e risalendone il corso fino alle sue radici montane sull’Appennino di Montepiano.
Questa situazione si mantenne pressoché inalterata fino al XVIII sec., quando la diocesi pistoiese dovette cedere a quella di Pescia, allora costituita, la pieve di Massa Piscatoria, ottenendo in cambio dai vescovi di Bologna i territori della Sambuca sui quali essi esercitavano giurisdizione spirituale.
Anche altrove, come nel caso di Fucecchio e di Castel Martini (San Donnino in Cerbaia), già facenti parti della iudicaria pistoiese ma soggetti in spiritualibus alla diocesi lucchese, si erano verificate sfalsature tra l’amministrazione ecclesiastica e quella civile, a riprova di un faticoso divenire storico le cui tracce si disperdevano nelle profondità altomedievali della convivenza toscana tra longobardi e bizantini.
Tra le chiese soggette alla giurisdizione dei vescovi di Pistoia quella che da più tempo aveva mostrato insofferenza ad accettarne la sovranità era stata la pieve di Prato, che vantava un contenzioso con la matrice diocesana risalente almeno al XII . Questi antichi dissapori erano stati una delle prime occasioni di intervento in materia di riorganizzazione della distrettualizzazione ecclesiastica tentati da Firenze nel periodo immediatamente successivo alla compra di Pisa (1409), quando i fiorentini avevano sollecitato papa Alessandro V affinché consentisse una ridistribuzione delle aree diocesane più confacente alle necessità amministrative e politiche del governo civile.
Allora non si ottennero significativi riconoscimenti, salvo avviare la procedura per formalizzare l’esenzione della propositura pratese dalla giurisdizione dei vescovi di Pistoia; si dovette infatti aspettare un altro mezzo secolo prima che la pieve di Santo Stefano in Prato fosse dichiarata nullius dioecesis (1463), mentre il definitivo riconoscimento di un’autonomia diocesana sarebbe giunto solo nel 1653.
Del resto, al di là della vischiosa continuità delle circoscrizioni territoriali della chiesa, dovuta a una tendenza conservativa assecondata dalla curia pontificia, poco accondiscendente in genere agli adeguamenti imposti dal divenire delle situazioni politiche, l’antica importanza dei vescovi pistoiesi era stata fortemente ridimensionata all’indomani della formazione dello stato territoriale fiorentino quando, a partire dal 1420, con l’elevazione alla dignità arcivescovile della cattedra di san Zanobi, quella di san Zeno era stata resa suffraganea della nuova metropoli ecclesiastica.
II - L’età moderna
Fra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento la cattedrale di San Zeno di Pistoia aveva sei dignità (preposto, arciprete, arcidiacono, decano, primicerio, tesoriere) e undici canonicati: nel giro di un secolo i primi salirono a undici (con il priorato, il sacristato, la rettoria, il custodiato, la prefettura e il penitenziere) e i secondi crebbero di altre quindici unità.Nella stessa chiesa vi erano altri tre corpi ecclesiastici: i cinquantadue cappellani di patronato laicale (per la quasi totalità dell’Opera di San Iacopo e dell’Opera di San Zeno), i chierici (con annessa la scuola ecclesiastica per gli aspiranti sacerdoti, che ancora per tutto il Seicento sostituì il seminario diocesano, non fondato) e i musici.
Su tutti questi collegi governava il capitolo, il cui nucleo più antico aveva ancora la massa comune e a cui competeva anche la collazione sulle proprie dignità e prebende.
Di fatto, quindi, all’interno della cattedrale, sopra un personale di un centinaio di ecclesiastici non comandava il vescovo, bensì il capitolo stesso: i suoi contrasti con i vescovi per la nomina di alcuni canonici si trascinarono per decenni.
La mensa episcopale pistoiese rendeva alla fine del Cinquecento tremilacinquecento scudi, ma era gravata da una pensione di cinquecento scudi, riducendo così le reali possibilità di governo del vescovo; un secolo dopo si segnalava un’ulteriore diminuzione della rendita per circa un migliaio di scudi.
In quattro secoli si avvicendarono su questa cattedra ventisei vescovi, per circa tre quarti di estrazione fiorentina e solo nel 1700 si ebbe un vescovo nativo della diocesi, Francesco Frosini, dopo il quale ci fu soltanto un altro pistoiese, Giuseppe Ippoliti, nel 1776.
Ancora sul volgere del Cinquecento in città vi erano ventinove chiese con cura d’anime, per una popolazione che oscillava intorno alle ottomila unità; un secolo dopo Pistoia contava circa novemila abitanti sotto la cura di ventisette chiese parrocchiali.
Fra queste e le altre chiese cittadine (almeno una decina di oratori) trovavano collocazione un centinaio di cappellanie semplici, in larga prevalenza di giuspatronato laicale (circa l’ottanta per cento, se non di più grazie alle partecipazioni ai patronati misti) e ancora alla fine del Settecento la libera collazione vescovile su tutti i benefici diocesani si attestava sulla bassa quota del quindici per cento.
Il quadro era completato da dodici confraternite laicali e da sei ospedali diversamente specializzati.
Nella campagna sorgevano trentaquattro chiese plebane, centoventuno chiese parrocchiali, trentacinque oratori, settantotto cappellanie semplici e dodici ospedali: oltre a queste strutture laicali, quasi tutte le chiese curate avevano una propria fabbriceria gestita dai laici.
Del resto, nella Chiesa pistoiese un particolare rilievo era assunto proprio dai «luoghi pii», veri centri del potere laicale dentro le istituzioni ecclesiastiche: le Opere di San Iacopo, di San Zeno, quelle dei due santuari di Santa Maria dell’Umiltà e della Madonna del Letto, e altri ancora.
Le risorse di cui disponevano erano ingenti e la loro gestione consentiva un intervento diretto persino negli apparati liturgici e nelle condizioni di vita del clero diocesano: la sola Opera di San Iacopo sceglieva e stipendiava ventotto cappellani, dodici chierici e un sacrestano, mentre l’Opera della Madonna dell’Umiltà assumeva per l’ufficiatura della chiesa ben sedici sacerdoti, compresi i due curati.
Folta era anche la presenza di case religiose: una decina fra conventi e monasteri maschili (cresciuti di un’unità in un secolo) e una quindicina di monasteri femminili.
Fra le case religiose maschili un ruolo primario era detenuto da quelle dei francescani e dei domenicani, ma negli anni Quaranta del XVI . erano arrivati anche i cappuccini.
In questi istituti vivevano oltre cinquecento religiosi, con una presenza particolarmente massiccia di monache.
Nel 1559 era fallito un primo tentativo di introdurre la clausura nei monasteri femminili a causa della resistenza opposta al vescovo Pietro Francesco Galliani da parte del ceto di governo comunale, e ancora per alcune decine d’anni le monache avevano potuto contare sulla solidarietà dei loro parenti maschi.
Ma in un’altra stagione, a partire dai primi anni del Seicento, al vescovo Alessandro Del Caccia riuscì l’impresa d’imporre la clausura: momento prioritario, questo, della sua lunga attività episcopale dedicata alla più complessiva, seppur tardiva, applicazione della riforma disciplinare post-tridentina nella diocesi.
La nuova disciplina investì anche le sette case di terziarie (tre domenicane e quattro francescane) presenti fuori della città, nelle aspre zone di montagna, e che vivevano senza voti solenni né clausura, ampliando la sfera del controllo vescovile a danno dei mendicanti.
Nei monasteri femminili pistoiesi rimasero, però, forti tensioni, difficoltà di convivenza e aspirazioni a rompere l’isolamento claustrale, come ci fanno supporre anche i casi di santità simulata e di quietismo che vi si verificarono.
Alla fine dell’età moderna la diocesi pistoiese conobbe un piccolo ampliamento.
Nel 1784, grazie alla politica di Pietro Leopoldo, le furono aggregate le chiese parrocchiali della Sambuca, di Treppio, di Torri, di Pàvana, di Frassignoni, di San Pellegrino del Cassero e di Fossato, scorporate dalla diocesi di Bologna.
In quest’epoca una tormentata vicenda sconvolse l’assetto istituzionale della diocesi pistoiese: lo scorporo dal suo territorio della diocesi di Prato, già prepositura nullius dioecesis (1473) che già prima del 1416 papa Gregorio XII aveva sottratto alla dipendenza da Pistoia.
Nella prima metà del Seicento il vescovo Del Caccia si batté strenuamente, insieme con il capitolo e il consiglio cittadino e, finché visse, con successo contro la pretesa autonomia della Chiesa pratese.
Alla sua morte, però, il 22 settembre 1653 papa Innocenzo X elevò Prato in città e la sua chiesa collegiata, Santo Stefano, in cattedrale, unendola in perpetuo aeque principaliter alla cattedrale di Pistoia.
Se per i pistoiesi fu una sconfitta, neppure i pratesi ottennero una grande vittoria.
Non solo il vescovo rimaneva unico e con residenza principale a Pistoia, ma la nuova Chiesa pratese non ebbe neppure un territorio corrispondente alla sua comunità civile: su quarantuno parrocchie rurali a occidente della città ben ventinove rimasero sotto la diocesi pistoiese e su quarantuno parrocchie a oriente del fiume Bisenzio dodici rimasero nella diocesi fiorentina.
Il più noto collaboratore del granduca Pietro Leopoldo nell’opera di riforma delle istituzioni e della disciplina ecclesiastiche in Toscana fu proprio il vescovo di Pistoia e Prato Scipione de’ Ricci.
Particolarmente importante fu la sua attività riformatrice nella diocesi: un’attività che gli fruttò l’ostilità di larghi strati della popolazione, colpita sia nel proprio sentimento religioso, sia nelle conseguenze della vendita dei patrimoni ecclesiastici.
Un gran clamore accolse nel mondo cattolico la pubblicazione degli Atti e Decreti del sinodo diocesano da lui convocato nel 1786.
Sulla traccia di tesi preparate da teologi d’orientamento giansenista, il sinodo pistoiese combatté la diffusione del culto del Sacro Cuore di Gesù e la devozione nei confronti delle reliquie, introdusse la lingua volgare nella celebrazione della messa, abolì gli altari laterali nelle chiese e vietò di celebrare più messe contemporaneamente nella stessa chiesa.
Le sollevazioni popolari travolsero l’esperimento ricciano ben prima che arrivasse la formale condanna papale.
Nel 1787 scoppiò a Prato un violento tumulto popolare, suscitato dalla notizia che il vescovo voleva sopprimere la cappella della Santa Cintola di Maria, posta nella cattedrale e oggetto di un culto plurisecolare; nello stesso periodo cominciò a venir meno l’accordo con il granduca.
Nuovi tumulti scoppiarono nell’aprile del 1790: il Ricci dovette fuggire dalla sua diocesi e, dopo la partenza di Pietro Leopoldo per Vienna, nel 1791 dovette rinunciare alla cattedra vescovile.
Durante la reazione contro l’occupazione francese, il Ricci venne imprigionato, e nel 1805, durante il periodo napoleonico, ormai sempre più isolato ritrattò e accettò la bolla papale Auctorem Fidei, che nel 1794 aveva condannato il sinodo di Pistoia.
III - L’età contemporanea
Il ricordo dell’esperienza del Ricci segnò profondamente la memoria della Chiesa toscana del XIX . e con evidenza particolare nella vita delle diocesi pistoiese e pratese, unite aeque principaliter fino alla nomina di un autonomo vescovo pratese nel 1954.Un «effetto ricciano» continuò a pesare negativamente sui vescovi toscani per tutto l’Ottocento; infatti fino al pontificato di Leone XIII la sinodalità è praticamente assente in Toscana.
Enrico Bindi, vescovo di Pistoia e Prato, in uno dei suoi rari interventi al concilio Vaticano I chiese che non si usasse più il termine «pistorienses» come sinonimo di giansenisti, rivendicando la piena ortodossia e la devozione a Roma dei sacerdoti e fedeli delle sue diocesi.
Fin dal suo ingresso in diocesi (1867) il presule aveva espresso il proposito di indire un sinodo diocesano che ribadisse ancora una volta la condanna di quello ricciano, mentre sentiva la necessità di riconsacrare la città al Sacro Cuore nella ricorrenza degli eventi che ne avevano soppresso la devozione; una riconsacrazione che sarebbe stata rinnovata ancora nel 1917 dal vescovo Vettori con una pastorale tutta intessuta di accenti antiricciani.
La condanna romana veniva ripetuta, nel sinodo del 1892, da Marcello Mazzanti che si preoccupava anche di confermare alla segreteria di Stato l’attaccamento e la forte devozione alla Santa Sede del clero diocesano.
Dopo le dimissioni del Ricci gli episcopati di Falchi Picchinesi (1791- 1803) e Toli (1803-1833) si erano caratterizzati per uno spirito di mediazione che teneva conto degli orientamenti del potere politico dominante.
Il Toli affidava l’incarico di vicario a Pistoia al canonico Fabrizio Cellesi e la direzione del seminario a Tommaso Comparini, segnalatisi come decisi avversari delle riforme ricciane.
Il rapporto del vescovo con i francesi fu caratterizzato da spirito di collaborazione, come dimostra la sua presenza nel 1811 al concilio di Parigi e l’azione di pacificazione svolta nel febbraio 1814 di fronte a un tumulto popolare antifrancese.
Il ritorno di Ferdinando III fu salutato dal presule con un Te Deum e un solenne discorso che preludeva a un rapporto molto buono ben presto instauratosi con la famiglia granducale: di una sua influenza a corte è a esempio riprova la nomina episcopale di alcuni suoi collaboratori.
Nella Relatio del 1818, pur esprimendo il proprio compiacimento per il ripristino della tradizione, il vescovo non nascondeva qualche preoccupazione per la permanenza di convincimenti giansenisti in alcuni sacerdoti, problema al quale la Santa Sede si mostrò assai sensibile, chiedendo che essi fossero deferiti a Roma.
Dalla morte del Toli (1833) fino all’episcopato di Niccolai (1849-1857) si assiste a una certa prevalenza della sede fiorentina su quella suffraganea pistoiese-pratese, che risulta quasi «vacante ».
I successori del Toli, Gilardoni, Rossi e lo stesso Niccolai, provenivano dalla diocesi fiorentina, godevano della stima e dell’appoggio dell’arcivescovo Morali e del suo successore Minucci.
Dopo il periodo napoleonico infatti Morali – che dalla diocesi fiorentina si era allontanato rifugiandosi a Pisa per lo scontro giuridico-canonico relativo al riconoscimento del vescovo di nomina imperiale Osmond, divenuto arcivescovo di Firenze, rappresentava il punto di riferimento più sicuro e forte per la riorganizzazione della Chiesa toscana nel periodo della Restaurazione.
Sia Rossi che Niccolai avevano fatto parte del collegio degli Eugeniani che a Firenze vantava un’antica tradizione; Rossi era stato presentato a Roma dallo stesso Morali, Niccolai proveniva dalla certosa di Firenze, dove era entrato alla fine del XVIII . e che aveva abbandonato all’indomani del decreto napoleonico di soppressione del monastero per dedicarsi all’attività pastorale.
Egli veniva nominato da Portici nel 1849, dove Pio IX era esiliato e dove il presule lo aveva seguito con gli incarichi di consultore della Congregazione per i vescovi e regolari e di delegato apostolico per la visita dei monasteri degli olivetani e delle trappe d’Italia.
Va comunque sottolineata anche l’importanza del vicario capitolare G.
Breschi che dalla morte del Niccolai nel 1857 fino alla nomina del Bindi di fatto resse il governo della diocesi pistoiese; egli, pur non potendo aspirare alla dignità episcopale perché in aperto contrasto con il governo nazionale, influì sulla scelta del nuovo vescovo grazie ai buoni rapporti che intratteneva con monsignor Franchi, già nunzio in Toscana e ancora molto influente.
Con Enrico Bindi (1867- 1871) si assiste al ritorno di un sacerdote pistoiese alla guida della diocesi; questi emerge come figura emblematica di una élite di sacerdoti che, formatisi nel seminario pratese, avrebbero occupato a metà Ottocento numerose sedi vescovili di rilievo nella regione.
Legato al Guasti e agli ambienti conciliatoristi e moderatamente riformatori del cattolicesimo toscano, il Bindi pur avendo suscitato a Roma qualche diffidenza per l’atteggiamento assunto nel 1848-1849, fu da vescovo intransigente difensore delle posizioni «romane», pur senza assumere i toni polemici de «La Civiltà Cattolica»; al concilio Vaticano I si segnalò all’interno della maggioranza infallibilista e per l’attività svolta come segretario del gruppo di vescovi denominato «circolo dell’Italia centrale».
Le sue lettere pastorali evidenziano l’ampliarsi di prospettive e di tematiche ai grandi temi della Chiesa e del rapporto con la società e lo Stato.
Ancora pistoiese e legato al Bindi, che lo aveva proposto, fu il suo successore Niccolò Sozzifanti (1871-1883), del quale rimase il ricordo di un’intensa attività caritativa per la quale attingeva anche al patrimonio familiare: egli infatti fu tra i fondatori della società San Vincenzo de’ Paoli.
Con Sozzifanti si nota la crescente importanza assunta dalla formazione teologica nelle facoltà pontificie dalle cui file uscirono anche i suoi successori, Mazzanti (1885-1908) e Sarti (1909-1915).
Nell’attività pastorale del primo si coglie il superamento del clima politico di contrapposizione tra Chiesa e Stato; il suo incoraggiamento alle prime organizzazioni del movimento cattolico denotava una certa attenzione ai temi sociali.
Anche le sue lettere pastorali sottolineano un’accentuazione della presenza della Chiesa rispetto ai problemi della società, secondo le linee indicate dal pontificato leoniano.
Negli anni della crisi modernista la posizione del vescovo, che era stato docente di Sacra Scrittura nell’ateneo pisano, appare duttile e articolata, senza provvedimenti repressivi verso i sacerdoti legati a Murri.
Una linea di continuità che caratterizzò anche l’episcopato del Sarti, proveniente dalla diocesi ambrosiana e legato al Ferrari; la sua attività si era focalizzata attorno ai problemi dell’istruzione religiosa (rinnovamento dei metodi e scuole di catechismo) e della pastorale operaia.
Ancora i temi della società, sconvolta dalla grande guerra e delle successive lotte politico-sociali, caratterizzano le lettere pastorali del Vettori (1915-1932) che intese richiamare i doveri connessi all’uso, anche sociale, della ricchezza con la prospettiva della «restaurazione » del regno di Cristo nella società auspicato da Pio XI nella Quas primas.
Durante il suo episcopato, nel 1916, Benedetto XV decise l’ampliamento della diocesi di Prato, che acquistò la configurazione territoriale che avrebbe mantenuto fino al 1975, acquisendo ventisette parrocchie dalla diocesi di Pistoia e dodici da quella fiorentina.
Con l’episcopato di Giuseppe De Bernardi (1933-1953) si evidenziava il mutato clima dei rapporti politicoecclesiastici dopo la firma dei patti Lateranensi: le relazioni informative descrivevano un prelato che «dimostra fiancheggiare con simpatia direttive del Regime».
Un orientamento confermato dall’appello rivolto dal vescovo ai sacerdoti in occasione della guerra d’Etiopia, presentata come «missione di civiltà e di progresso» per la cui riuscita egli li chiamava alla preghiera.
Significativa in questo senso anche l’azione svolta dal settimanale diocesano «L’Alfiere», favorevole al nazionalsocialismo e all’antisemitismo – pur con qualche riserva sulle leggi razziali – e allineato alla politica del regime anche sulla guerra di Spagna.
Egli si distinse per l’attività sul piano organizzativo: nuove chiese, istituti di assistenza sociale, sinodo diocesano nel 1936 per adeguare la normativa dopo il codice pio-benedettino e la celebrazione del concilio etrusco nel 1933.
Nel dopoguerra la sua azione si esplicò in modo zelante sul piano pastorale, ripetendo senza alcuna autonomia o spunti di originalità le linee comuni dell’episcopato italiano modellate sulle direttive romane.
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Diócesis de Pistoia
Chiesa di San Zeno
Diócesis
FUENTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.