Diözese von Avellino
GESCHICHTE
I - Dall’età moderna all’unità italiana
Con le devastazioni del 1440 e il crollo demografico ad Avellino, soppresse dieci parrocchie, la cura animarum fu concentrata nella cattedrale.L’illuminato governo di Maria De Cardona (1513-1564) attuò interventi urbanistici strutturali: ad Avellino eresse il convento dei domenicani (1539) che incrementeranno il patrimonio artistico ecclesiastico, mentre nel 1567 fu edificato il seminario da Ascanio Albertini (1549-1580).
Rifiorirono le confraternite che contribuirono alla coesione sociale anche se, dal Quattrocento, congregavano i ceti agiati e spesso sfuggivano alla vigilanza affidata dal concilio ai vescovi.
Con il Tridentino il rinnovamento religioso e l’esuberanza artistica del barocco entrarono nella predicazione e nella società.
Alle parrocchie si chiese di abbandonare lo stile burocratico per una spiritualità sincera.
Ad Avellino sorgeva dal XIII sec. il convento dei frati minori, in primo piano nella vita culturale e sociale.
Lo storico avellinese Scipione Bella Bona (1602-1656) ne fu il guardiano e Giuseppe M. Cesa (1686-1744), direttore degli studi, promosse la devozione all’Immacolata.
Nel 1589 ad Atripalda fu aperto il convento dei frati minori riformati.
I cappuccini si stabilirono in città (1580) e a Gesualdo, dove il nipote di san Carlo Borromeo, Carlo Gesualdo (1566-1613), aprì il convento dei domenicani (1578).
Il feudatario Camillo Caracciolo (1563-1617) si adoperò molto nel promuovere le opere di carità e volle il monastero di Santa Maria del Monte Carmelo (1620).
S’inasprirono le controversie sui patronati e sulle nomine del clero, la rivolta di Masaniello provocò tumulti.
Il 19 dicembre 1647 la città subì il saccheggio e il vescovo Bartolomeo Giustiniani (1626-1653) riuscì coraggiosamente a salvare l’episcopio.
Nel 1656 la peste fece molte vittime e nel contagio morì il vescovo Lorenzo Pollicini (1653- 1656); tanti i sacerdoti e i religiosi esemplari nel soccorrere gli appestati. Si riaccese la devozione nel popolo.
Nel tempore pestis Tommaso Brancaccio (1656-1669), preso possesso della diocesi, per i tempestosi rapporti con l’amministrazione civica lanciò l’interdetto contro la città e trasferì la curia ad Atripalda.
Alla fine del XVI sec. il clima religioso era intriso di pietà mariana.
La diocesi, nel 1730, contava circa 7000 abitanti in Avellino e raggruppava ventidue paesi con 25.000 abitanti.
Si affermò una classe di intellettuali, di possidenti e commercianti che contese al clero e alla nobiltà il possesso della terra e il potere politico.
Le rendite della mensa vescovile ammontavano a circa 3000 ducati.
Vi erano 600 chierici, perché lo stato clericale era un proficuo investimento e la cura animarum era affidata a venticinque parroci.
Giovanni P. Torti Rogadeo (1726- 1742), dopo il terremoto del 1732, ricostruì il seminario (1739) accanto alla cattedrale.
Il catasto del 1755 dà il quadro delle proprietà della Chiesa, che monopolizzava gran parte del denaro e dei crediti.
A metà del Settecento vi erano 113 confraternite ma, esauritasi la pietà della Controriforma, la morte del padre Cesa (1744) segnò l’inizio del declino di questo mondo.
Felice Leone (1745-1754) nella relazione ad limina (1747) denunciò che «gli amministratori secolari si sono arricchiti con i beni dei luoghi pii».
La riforma del 1753 si attuò con il clero impegnato e il popolo scosso dalle missioni; Benedetto Latilla (1754-1760) istituì i monti frumentari (1756), ma la seconda metà del Settecento fu ugualmente contraddistinta da condizioni d’arretratezza.
Dal 1782 la diocesi era retta da quattro vicari capitolari: il 1° aprile 1792 dopo la lunga sede vacante arrivò in diocesi, con scarso entusiasmo, Sebastiano De Rosa (1792-1810), un pastore che seppe interpretare al meglio la tradizione del buon vescovo meridionale.
Egli s’impegnò nel correggere i costumi e la condotta del clero.
Erano incancreniti i conflitti tra i vari «capitoli» e in cattedrale tra i canonici per l’elargizione dei proventi canonicati, precarie erano le condizioni delle chiese.
Nella relazione ad limina del 1795 vi erano descritte le chiese: 4 collegiate, le 23 con cura d’anime senza rendite, le 3 parrocchiali cittadine e il seminario con 130 alunni.
Con la rivoluzione del 1799 il vescovo si vide costretto ad accontentare il clero rivoluzionario d’estrazione borghese, mentre il sanfedismo arruolò esponenti di ordini religiosi di origine contadina.
Nella reazione sanfedista, il ruolo della Chiesa apparve decisivo.
Il 2 maggio 1799, i francesi entrati in città depredarono il tesoro del duomo; assaltato l’episcopio, il vescovo fu ristretto in Sant’Elmo.
Dopo gli anni rivoluzionari il terremoto del 1805 danneggiò chiese e seminario.
Nel concordato del 1818, la diocesi di Frigento viene incorporata definitivamente a quella di Avellino.
Con la Restaurazione, la massoneria e la carboneria si ramificarono nello Stato e diversi sacerdoti aderirono alla vendita carbonara.
I moti del 1820-1821 e del 1848 riacutizzarono le divisioni nei fedeli.
La fioritura cattolico-liberale del 1848 favorì la diffusione di idee che la borghesia e parte del clero, come i padri scolopi, coltivavano.
Francesco Gallo (1855-1896), ostile all’unità, ricostruì il duomo con enormi sacrifici e pubblicò un Catechismo per l’istruzione dei fedeli.
L’atteggiamento del vescovo «nell’infaustum annum 1860» fu frutto della convinzione della maggioranza dei vescovi meridionali dell’incompatibilità tra fede e ideologia liberale.
Nel 1861 il consigliere per gli affari ecclesiastici pretese che fosse eletto il vicario capitolare, per la «quasi-vacanza» della sede.
I canonici si rifiutarono e Gallo fu inviato ad audiendum verbum reale a Torino.
Nel 1861 apparvero su «L’Irpino» una serie di articoli – Il Sacerdote al suo popolo – che descrissero gli avvenimenti unitari come una rivoluzione religiosa.
Ma il clero liberale non fu premiato dalla politica del governo.
I decreti di P. S. Mancini, del 1861, e le leggi eversive del 1866-1867 colpirono la Chiesa compromettendo la trama di religiosità incentrata sui conventi.
Ad Avellino nasceva il 16 gennaio 1872 il «missionario della missione», il beato Paolo Manna (1872-1952).
Sollecitato dalla congregazione del concilio, il vescovo Gallo indisse il sinodo (1859), che però non si tenne «propter acerbitatem temporum».
Nel 1894, con scarsi risultati, promosse un comitato diocesano, affinché l’Azione cattolica fosse presente nella società.
II - Dall’età liberale al concilio Vaticano II
L’emigrazione tra la fine del XIX e gli anni Venti del XX sec. spopolò la diocesi: una diaspora oltreoceano dovuta alla crisi economica.Il sinodo (1906), preparato con tre visite pastorali, impresse una svolta nella vita ecclesiale.
Il vescovo Serafino Angelini (1896-1908) esortò i sacerdoti, tra resistenze, all’osservanza delle «leggi sinodali».
Ebbe cura per il clero con l’Unione sacerdotale del Sacro Cuore, e del laicato con la rifondazione del Comitato cattolico diocesano (1898) per «formare buoni cristiani e virtuosi cittadini».
Nel 1907 Angelini eresse il «seminario centrale » per Avellino, Montevergine, Ariano Irpino, Nusco, Sant’Angelo dei Lombardi e Boiano.
Organizzò la catechesi nelle parrocchie con la scuola di religione e la congregazione catechistica, una pastorale moderna perché «la società civile ha bisogno assoluto di mezzi efficaci di riabilitazione ».
Il programma del vescovo ebbe ne «La Gazzetta Popolare» di Francesco Greco (1860-1922) l’«organo degli interessi cattolici ».
Alla sua prematura morte gli successe l’amico Giuseppe Padula (1908-1928) che s’impegnò ad attuare il sinodo: «il vademecum di ogni sacerdote» Nel 1913 riunì i parroci per coordinare l’Azione cattolica e istituì il Comitato delle donne cattoliche (1914).
Il movimento cattolico languiva per l’estraneità alla vita culturale, dove le idee liberali esercitavano l’egemonia.
Ma non mancarono intellettuali cattolici quali Antonio Galasso (1833-1891), Paolo R. Troiano (1863-1909), Modestino Del Gaizo (1854-1921) e, prima della conversione al fascismo razzista, Giovanni Preziosi (1881-1945).
Nel primo decennio del Novecento, la massoneria allignò nella borghesia.
Il giovane Guido Dorso sul foglio «La fiaccola» (1914) scriveva che l’anticlericalismo doveva far posto alla laicizzazione, perché la Chiesa non è «nemica della esterna libertà ma di quella interna. È necessario opporre una spiritualità a un’altra ».
Allo scoppio della grande guerra (1914-1918) «La Gazzetta Popolare» mitigò i facili entusiasmi.
Non s’incrinò l’attaccamento alle tradizioni religiose e la Chiesa nel dopoguerra accrebbe di prestigio.
Le condizioni socio-religiose erano descritte nella relazione ad limina del 1921: «non serpeggiano gravi errori contro la fede, ma sono diffuse pratiche di superstizione» e «mancano dei buoni predicatori e confessori ».
Nel decennio dell’episcopato avellinese di Francesco Petronelli (1929-1939) fiorì l’Azione cattolica.
Il vescovo ricostituì con dodici giovani sacerdoti la congregazione missionaria Maria Santissima della Purità (1934), e negli anni Trenta la Fuci si diffuse anche nelle diocesi vicine.
In preparazione al Congresso eucaristico diocesano si svolsero congressi ad Atripalda (1930) e a Fontanarosa (1931).
Nel 1937 sorse l’Opera delle vocazioni e si celebrò il primo congresso catechistico diocesano.
Nel 1939 Luigi Gedda partecipò al congresso della gioventù maschile d’Azione cattolica.
Il vescovo nella crisi con il fascismo si mostrò attento a distinguere la Chiesa dal regime: «Il regime della forza ha una formula assai semplice: si comanda, si vuole, bisogna obbedire: se alcuno resiste vi sarà la violenza, gli si farà piegare la testa.
Così pensarono alla pace i tiranni e sbagliarono: ebbero forse i corpi ma non le anime».
L’enciclica di Pio XI Non abbiamo bisogno scatenò la reazione anticlericale, il 30 maggio 1931 studenti fascisti tentarono di assaltare associazioni cattoliche devastando una sede dell’Azione cattolica nella periferia cittadina.
Nel 1939, alla vigilia della guerra, l’Ac accolse Guido L. Bentivoglio (1939-1949) in un anno «ricco di fausti e dolorosi avvenimenti mentre le nazioni si trovano dinanzi a bivii».
L’Ac era senza dirigenti chiamati alle armi e, ciò malgrado, al convegno della gioventù cattolica (1942) parteciparono trecento giovani.
Nel 1943 il bombardamento alleato distrusse l’episcopio e il seminario.
La guerra affievolì il senso religioso con il calo di circa il cinquanta per cento di fedeli alla messa domenicale.
Il vescovo canonista si adoperò per un sentire comune del clero nella pastorale e nella disciplina.
Nel I congresso mariano (1946) si auspicò che «le rivendicazioni sociali e politiche del Magnificat diventino patrimonio della nuova Italia».
Si mobilitarono nelle parrocchie i comitati civici e, nel 1943, in quella del Santissimo Rosario si costituì la Democrazia cristiana provinciale.
La preoccupazione dei parroci era per la Costituente, affinché «nell’ora difficile che attraversiamo» difendesse la religione.
Nel 1948 per le apprensioni politico-sociali si volle la peregrinatio della Madonna di Montevergine e la missione della pro civitate christiana.
Negli anni Cinquanta covava una rottura con la tradizione, che si divenne netta con il Vaticano II.
I fronti della pastorale per Gioacchino Pedicini (1950-1967), vescovo del concilio, erano la santificazione del clero e l’Azione cattolica.
La paura del sorpasso delle sinistre impegnò l’Azione cattolica, i comitati civici e alcuni sacerdoti nella prima linea politica.
Nel 1956 si celebrò il sinodo.
Cresceva il desiderio d’infrangere l’isolamento tra sacerdoti.
L’apertura a sinistra (1956) che vide tra i fautori Fiorentino Sullo, ex fucino, innescò contrasti tra il vescovo e la sinistra Dc.
Si promosse per la formazione dei laici la settimana sociale (1957) e una stagione di congressi: mariano (1954) ed eucaristico (1959).
Il seminario ricostruito era centro d’iniziative, come la tre giorni sul concilio ecumenico e le vocazioni sacerdotali (1963).
Per il vescovo «il senso della parrocchialità da noi si può dire che quasi non esista» e, «Nelle considerazioni, dopo la seconda visita pastorale» (1964) s’interrogava se certi «Parroci avessero compreso l’importanza della visita pastorale».
Alcune parrocchie avevano edifici trascurati, quasi inesistente era la catechesi per gli adulti.
Nel 1959 al catechismo si registrò una frequenza di 6894 alunni con un deficit del 55,43 per cento.
Si sperimentò una pastorale dinamica con settimane liturgiche parrocchiali. Nel 1966 fu aperta la Scuola di teologia per laici.
Il 6 agosto 1967 fece ingresso in diocesi Pasquale Venezia (1967-1987).
Nel primo convegno pastorale (1973) si manifestò l’esigenza della «conversione personale e comunitaria».
Dall’indagine pastorale del 1973 emerse una deludente attività parrocchiale: «risulta che le nostre parrocchie non riescono a porsi come luogo di formazione del cristiano adulto».
Era tempo d’inquieta ricerca e di contestazione.
Si propose la nascita dei consigli pastorali e l’intimità con la parola di Dio tramite incontri familiari, formazione di gruppi d’animatori di Ac e scuole di pastorale.
La primavera conciliare coincise con la crisi del modello sacerdotale e laicale.
Tempi di esperimenti e di gruppi spontanei che ebbero momenti d’autentica comunione nella carità pastorale del vescovo e nei convegni.
Nel 1975 fu posta mano ai restauri del duomo, ma il terremoto del 1980 rovinò chiese e progetti e la cattedrale fu restituita ai fedeli nel 1985.
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Chiesa di Santa Maria Assunta
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QUELLE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.