Ecclesiastical region Basilicata
al nord dal Sele e dal confine naturale del Vulture, una frontiera che definisce il confine tra la terza e la quarta regione, cioè il Samnium. Dopo varie riforme territoriali e nonostante le vicende intervenute nell’età tardo-antica, in seguito alla caduta dell’Impero romano, la Lucania venne ancora inserita tra le province augustee, come peraltro rimase provincia al momento della invasione longobarda, ma scomparve con l’arrivo dei normanni. La monarchia normanno-sveva istituirà due giustiziarati, quello di Salerno e quello di Basilicata, nome che compare per la prima volta nel «Catalogo dei baroni normanni » del 1154, distretto includente solo parzialmente i territori dell’antica Lucania. Quest’ultima denominazione, passati molti secoli e dopo vari e complessi cambiamenti del territorio, ritornò per volontà del regime fascista che il 27 dicembre 1932 ufficialmente recuperò la denominazione di Lucania. Ma con l’articolo 131 della costituzione repubblicana, il 27 dicembre 1947 la regione venne ribattezzata Basilicata.
HISTORY
I - Evangelizzazione e assetti istituzionali dall’età antica al tardo Medioevo
Il processo di cristianizzazione nei territori dell’antica provincia lucana segue lo stesso ritmo e conosce le stesse caratteristiche delle altre aree dell’Italia meridionale. È stato di recente ribadito e confermato attraverso una rivisitazione della letteratura storica, che al fenomeno aveva dedicato attenzione attraverso un’accorta esegesi, oltre che dei documenti pontifici, delle testimonianze epigrafiche, dei testi letterari e delle fonti agiografiche. La primitiva evangelizzazione delle genti lucane avvenne lungo la via Herculia da cui partono i pellegrinaggi verso la tomba di san Felice a Nola percorrendo molto probabilmente, dopo lo snodo di Nerulum, la via Pompilia nel tratto Consilinum- Salernum-Nola. Di lucani recatisi in pellegrinaggio a Nola sul finire del IV sec. fa fede il terzo dei Carmina natalicia di Paolino il quale annota in occasione della festa liturgica del 14 febbraio del vescovo Felice la presenza di lucani provenienti dalle aride terre del Tanagro. In ogni caso nei primi decenni del secolo seguente questo legame tra la Lucania e il celebre santuario feliciano non si interrompe, come si evince dalla epistola scritta da Uranio, discepolo di Paolino da Nola, secondo la quale il presbitero Postumiano ricordò a Paolino ormai in punto di morte (431) che pendeva ancora un debito di quaranta soldi. Paolino lo rassicurò che ci sarebbe stato subito qualcuno che lo avrebbe saldato. L’attesa non fu lunga; a Nola giunse un «sacerdote della Lucania» inviato dal vescovo Esuperanzio e da suo fratello Ursazio con un dono di cinquanta soldi per il vescovo nolano. Non si conosce chi fosse questo «sanctus episcopus», di quale sede fosse titolare, a quale famiglia appartenesse. È probabile che Esuperanzio esercitasse funzioni liturgico-pastorali per quei gruppi di fedeli non ancora inquadrati entro una precisa circoscrizione ecclesiastica, ma raccolti presso chiese e oratori in comunità private. Della situazione dell’Italia meridionale e della Chiesa lucana in particolare alla fine del V sec. fanno fede le lettere di papa Gelasio datate tra il marzo del 494 e l’agosto del 495. Da esse si ricava lo stato di estrema precarietà istituzionale in cui versavano i territori della Lucania, del Bruzio e della Sicilia. Alcune delle questioni indicate da Gelasio I nella lettera sinodale all’episcopato della Lucania, del Bruzio e della Sicilia interessavano o vedevano coinvolti direttamente sia i vescovi che i territori lucani, con particolare riferimento all’ordinazione degli schiavi e alla consacrazione delle chiese. Alla soluzione della prima vennero coinvolti tre vescovi, Erculenzio, Stefano e Giusto, titolari rispettivamente dei territori diocesani di Potenza, Venosa e Acerenza. Gelasio tra la fine del 494 e l’agosto del 495, alcuni mesi dopo l’invio della lettera sinodale, metteva a parte i tre vescovi delle ricorrenti lamentele pervenute alla Sede apostolica circa l’operato di alcuni vescovi i quali, in difformità alla prassi canonica e alle sue direttive promuovevano alla dignità e all’ufficio clericale gli schiavi. L’altra questione che vide coinvolto direttamente l’episcopato lucano fu la consacrazione delle chiese; ne fu protagonista il già ricordato vescovo di Potenza, Erculenzio, destinatario di un’altra lettera di Gelasio I datata tra il 495 e il 496. È importante sottolineare, alla luce dei documenti citati, che, nell’ultimo decennio del V sec., almeno tre importanti strutture dell’organizzazione ecclesiastica della Lucania risultano saldamente impiantate: gli episcopati di Potenza, di Venosa e di Acerenza. Il primo vescovo venosino di cui si ha notizia è Stefano; quanto alla sede episcopale di Acerenza l’unico, e il primo vescovo conosciuto sul finire del V sec. è Giusto, destinatario oltre che delle lettere indirizzate solidarmente a Erculenzio di Potenza, Stefano di Venosa e Martirio di Terracina, di un’altra lettera riguardante gli affari interni della sua diocesi. Un’ulteriore circoscrizione episcopale ricondotta all’età gelasiana potrebbe essere Metaponto attribuita dal Lanzoni a un vescovo di nome Reparatus sulla scorta di una lettera inviata dallo stesso Gelasio ai due vescovi Erculenzio di Potenza e Stefano di Venosa. Questa ipotesi non è suffragata da alcuna testimonianza documentaria anche se il rinvenimento di un complesso religioso costituito da una basilica e da un battistero ubicato nel castrum della città ripropone il problema della evangelizzazione in un’area costiera, quale è quella metapontina, dove, almeno sino alla fine del VI sec., vi era una comunità ancora attiva nei commerci con la Tripolitania, Antiochia, l’Egitto e il Nord Africa. Va detto, altresì, che entro i confini della Lucania antica ricadevano tra IV e VI sec. altre circoscrizioni ecclesiastiche: Blanda Iulia in prossimità della costa tirrenica di cui è attestato come vescovo nel IV sec. Iulianus, Buxentum (presso Policastro) il cui vescovo Rustico è presente ai concili romani del 501 e del 502 e Consilinum (l’attuale Sala Consilina). Gli assetti istituzionali realizzatisi alla fine del V sec. risultano notevolmente consolidati nella prima metà del secolo seguente. Ne fa fede la presenza a Roma dei vescovi Stefano di Venosa, Giusto di Acerenza e Amando di Potenza, i quali sottoscrivono gli atti dei tre concili celebrati a Roma nel 499, 501 e 502. Particolarmente significativa risulta essere la partecipazione di Stefano ai lavori conciliari, se nel concilio del 502 egli venne registrato due volte: la prima in occasione del dibattito sulla difesa del patrimonio ecclesiastico dalle ingerenze laicali; la seconda insieme con i vescovi Lorenzo di Milano, Pietro di Ravenna, Eulalio di Siracusa, Crusconio di Todi e Massimo di Blera sempre a proposito di questioni patrimoniali. Ma una spia significativa della continuità delle successioni episcopali nelle singole sedi e, quindi, di una riprova del consolidamento degli assetti istituzionali è fornita da alcune lettere di papa Pelagio I inviate intorno alla metà del VI sec. Due sono indirizzate al vescovo Pietro di Potenza, l’altra a Tulliano vescovo di Grumentum. Il quadro istituzionale ecclesiastico che accompagnò il radicamento del cristianesimo in Lucania subisce una regressione, se non una crisi vera e propria, negli ultimi decenni del sec. VI. Nel trentennio intercorrente tra la costituzione del Ducato di Benevento (576) e la morte di Gregorio Magno (604) si registra uno iato nella serie dei vescovi ad Acerenza, a Potenza, a Grumentum e a Venosa. È noto come questa sparizione delle sedi vescovili è stata considerata una conseguenza della invasione dei longobardi nel Mezzogiorno. Ma ciò che rende nel caso della Lucania del tutto parziale il collegamento della scomparsa delle sedi episcopali con la venuta dei longobardi è che alcune di esse scompaiono prima dell’avvento dei longobardi come la Chiesa di Grumento, che registra uno iato dopo il 558 o come quella di Potenza, che scompare dopo il 556-561. Comunque tra la fine del VI e il IX sec. l’ordinamento ecclesiastico della Lucania sembra ormai stabilizzato sulle istituzioni del periodo del primo impianto cristiano, anzi alla fine del VI sec. si registra un’articolazione delle circoscrizioni vescovili. Tra le antiche diocesi cominciò ad emergere Acerenza, che venne inserita nella rete dei gastaldati longobardi in cui era stato diviso il Ducato di Benevento. Nella Divisio Ducatus dell’849 tra Radelgisio e Siconolfo il gastaldato di Acerenza venne incluso nel principato di Salerno. Sarà stato questo ruolo preminente di Acerenza, conservatosi ininterrottamente nell’VIII e IX sec., a indurre il patriarca di Costantinopoli a inserirla nell’elenco delle diocesi suffraganee assegnate, in seguito alla seconda dominazione bizantina del Mezzogiorno, alla nuova sede metropolitica di Otranto. L’ordine trasmesso all’arcivescovo di Otranto, di imporre in tutta l’Apulia e la Calabria la liturgia greca, era un atto politico di significativa importanza per guadagnare all’obbedienza bizantina i territori riconquistati. Ma il disegno dell’imperatore bizantino non ebbe per Acerenza concreta attuazione in quanto le istituzioni ecclesiastiche locali rimasero saldamente legate alla tradizione latina e all’obbedienza al pontefice romano, in continuità con il processo di evangelizzazione iniziato cinque secoli prima. A Salerno, Acerenza rimase legata dai vincoli della comunione metropolitica fin oltre la prima metà dell’XI sec., come si evince dalle bolle di Leone IX del 1051 e di Stefano IX del 1058, sino a quando Niccolò II la liberò dalla giurisdizione dell’arcivescovo di Salerno conferendo ad Acerenza il rango di Chiesa arcivescovile. A restituire con più lucida immagine la gravitazione latina di Acerenza e dell’area dell’Alto Bradano varrà certamente la rete di monasteri che, a differenza delle aree vicine, allinea i suoi ritmi di vita, le sue esperienze religiose, la sua spiritualità sul monachesimo latino. La Basilicata presenta una forte concentrazione di monasteri italo-greci nei territori a sud del Basento e nei territori attraversati dall’Agri e dal Sinni, mentre l’area interna tra il Basento e il Bradano, se si eccettua un unico episodio, quello di Santa Maria del Rifugio di Tricarico, risulta connotata da una robusta presenza benedettina, il cui fulcro rimane, per il territorio dell’Alto Bradano, il monastero di Santa Maria di Banzi (797-798). Una successiva svolta negli assetti istituzionali ecclesiastici della Lucania si produsse nell’XI sec. con l’arrivo dei normanni che conquistano il Mezzogiorno d’Italia. Alla fine del XII sec. risultano definiti gli assetti istituzionali ecclesiastici della Lucania attraverso una rete a maglie strette di diocesi. Delle strutture vescovili tardoantiche permangono tutte le sedi: Potenza, Venosa, Acerenza, mentre il titolo di Grumentum venne traslato a Marsico Nuovo. Tra XI e XII sec. si aggiunsero, pur con tutte le cautele scientifiche, Montemilone, Tolve, Tricarico, Montepeloso, Gravina, Oblano, Turri, Tursi, Latiniano, San Quirico, Oriolo, Cisterna, Vitalba, Melfi, Rapolla, Lavello, Muro Lucano e Satriano. A parte le quattro diocesi (Turri, Latiniano, San Quirico e Oriolo) riferite ai territori dell’attuale Calabria e Gravina, inclusa nei territori della Puglia, la regione lucana nei suoi confini attuali vedeva l’impianto di diciannove diocesi, alle quali nel XIII sec. si aggiunse Matera. È questo il quadro della geografia ecclesiastica della Lucania medievale. La creazione delle diocesi comportò necessariamente l’erezione delle cattedrali la cui funzione di «chiesa madre» nei confronti dei rispettivi territori diventò nell’età medioevale sempre più rilevante sino ad assumere connotati di forte importanza. Va aggiunto che il titulus dedicationis divenne di volta in volta una spia significativa per quanto attiene l’originaria diffusione dei culti basati sulle testimonianze martiriali o su altri significativi elementi legati alla devozione alla Vergine, alla pratica dei pellegrinaggi, alle tradizioni indigene e a quant’altro si è accompagnato alla diffusione del cristianesimo. L’individuazione dei tituli dedicationis delle cattedrali costituisce una spia significativa delle tradizioni agiografiche della Chiesa lucana sia per quanto riguarda il nucleo delle cattedrali più antiche sia per quanto attiene il gruppo delle cattedrali sorte tra XI e XII sec. Per le diocesi tardoantiche sembrano prevalere, accanto alle dedicazioni mariane della cattedrale di Acerenza, cui venne aggiunto successivamente quello di san Canio, e della seconda cattedrale di Grumento, dedicazioni a santi locali come sant’Oronzo per Potenza, san Laverio per Grumento, san Felice per la seconda e sant’Andrea per la terza cattedrale di Venosa. Per le altre cattedrali erette nei secoli centrali del Medioevo risultano prevalenti le dedicazioni mariane (Tricarico, Montepeloso, Rapolla, Muro Lucano, Melfi) alle quali vanno aggiunte quelle a san Pietro (Satriano), a san Michele Arcangelo (Tursi), a san Mauro (Lavello), a san Gianuario (Marsico Nuovo). Il Martirologio Gerolimiano, che registra santi e martiri dei primi quattro secoli del cristianesimo, elenca Valentinus e Leontinus il 19, 20 e 21 agosto; Iacintus, Quintus, Felicianus, Lucius il 29 ottobre; Honoratus, Reductula, Victoria il 18 dicembre; Felix, Arontinus, Sabinianus (Savianus), Honoratus il 26 e 27 di agosto; Vitus, Modestus e Crescentius il 15 agosto. Non sappiamo se si tratti di martiri lucani o cultualizzati in Lucania, ciò che va rilevato è che alcuni sono recepiti nel Martirologio della Santissima Trinità di Venosa datato tra la fine dell’XI sec. e la metà del XII sec. Riguardo la distrettuazione ecclesiastica subdiocesana, per il periodo tardoantico l’unico riferimento a una istituzione subdiocesana, volta all’inquadramento dei fedeli e allo svolgimento della cura d’anime, è presente nella sede vescovile di Grumentum e riguarda la chiesa di Santa Maria. Tali non possono essere considerate le chiese di nuova erezione fondate da privati, siano essi laici o chierici, pur presenti sul territorio lucano, in quanto non deputate ad assolvere alle funzioni sacramentali proprie delle parrocchie. Nel tardo Medioevo sono, invece, documentate unità pastorali deputate alla cura d’anime, le parrocchie appunto. Per Matera se ne contano tre, anche a Potenza nel XIII sec. sono attestate due parrocchie, oltre a quella della cattedrale. Il contatto con le plebi rurali è accentuato. Il monastero diventa l’elemento di polarizzazione degli interessi religiosi della comunità contadina. I monasteri svolgono funzioni di supplenza rispetto ai compiti di cura d’anime dei vescovi e dei preti inseriti nel tessuto delle città, sedi primarie del potere e delle attività politiche, ma non va trascurata l’attività di assistenza religiosa che i grandi monasteri, sia greci che latini, esercitano nei confronti dei coloni e dei servi inseriti nelle varie proprietà sparse per le campagne. Sino alla metà dell’XI sec. la Basilicata non ha potuto vantare un ordinamento metropolitico che facesse leva su un capoluogo indigeno. La pluralità delle esperienze religiose, la gravitazione di alcune aree nell’obbedienza del patriarcato di Costantinopoli, l’intelaiatura dei monasteri italo-greci, la frantumazione istituzionale del tessuto politico-amministrativo hanno favorito un particolarismo istituzionale e hanno determinato una sorta di subalternità a centri ecclesiastici di più antica e consolidata tradizione. Una delle discriminanti della mancata ricomposizione unitaria della regione è costituita, tra l’altro, dalla compresenza di aree longobardizzate e, quindi, con una decisa polarizzazione verso strutture latino-occidentali, e di aree bizantinizzate con un’altrettanto spiccata determinazione verso matrici di ascendenza greco-orientale. Sta di fatto che Acerenza risultava nel 983 suffraganea dell’arcidiocesi di Salerno, mentre nel 1025 Montemilone, Lavello e Cisterna rientravano tra le suffraganee della sede metropolitica di Bari. Ma la situazione cambiava radicalmente nel decennio 1050-1060 quando, verosimilmente dopo il sinodo del 1067, Alessandro II sottraeva Acerenza alla giurisdizione di Salerno e la elevava al rango di sede metropolitana. Ma trent’anni più tardi l’arcivescovo di Salerno contestò l’erezione della sede metropolitana acheruntina così da ottenere da Urbano II il 20 luglio 1098 una bolla con la quale veniva riconosciuto all’arcivescovo di Salerno una sorta di primato. L’erezione di nuove cattedrali e il rifacimento o restauro di quelle esistenti comportò l’introduzione di collegi canonicali destinati all’ufficiatura liturgica della Ecclesia matrix della diocesi e allo svolgimento di quei compiti pastorali legati all’esistenza del battistero, inizialmente unico per l’intero distretto ecclesiastico. In Basilicata la documentazione in questo specifico campo di ricerca risulta inadeguata; non sono pervenute né sillogi normative e statutarie relative agli ideali ispiratori delle scelte di vita dei chierici, né bolle anteriori al XIII sec. relative all’intervento dei vescovi nei confronti dei capitoli, né tantomeno trattati di spiritualità riguardanti la dottrina del sacerdozio. Gli unici elementi disponibili, riferiti alla tarda età medievale, sono sostanzialmente tre: le sottoscrizioni da parte di singoli canonici degli atti rogati nell’ambito delle diocesi di appartenenza che attestano indirettamente l’esistenza dei capitoli, le note obituarie dei calendari e dei libri vitae, le fonti liturgiche.II - L’età moderna e contemporanea
Sono undici le diocesi presenti in età moderna sul territorio di Basilicata: Anglona e Tursi, Campagna e Satriano, Lavello, Marsico, Matera e Acerenza, Melfi e Rapolla, Montepeloso, Muro Lucano, Policastro, Potenza, Tricarico. La giurisdizione di alcune di queste diocesi venne esercitata anche su paesi di province limitrofe, come Policastro, che comprende per la maggior parte comuni campani; Marsico, Campagna e Satriano, che si estendono anche nel Principato Citra; la diocesi di Matera e Acerenza che, sino al 1663, fa parte della Terra d’Otranto in Puglia. Il sistema diocesano della Basilicata subisce poche trasformazioni nel corso dell’età moderna. Durante il pontificato di Clemente VII il vescovado di Rapolla venne unito a quello di Melfi; la diocesi di Satriano venne unita aeque principaliter a Campagna; la sede vescovile di Anglona venne trasferita a Tursi. Sono tentativi di completare il processo di latinizzazione delle strutture ecclesiastiche ancora in atto nell’area lucana profondamente impregnata di grecità. Nello stesso periodo, grazie agli accordi intercorsi tra il pontefice e Carlo V, diventano di «presentazione regia» l’arcidiocesi di Matera e Acerenza e la diocesi di Potenza. Da una analisi strutturale delle diocesi lucane risulta evidente la mancanza di omogeneità delle circoscrizioni, alcune molto piccole, come Montepeloso, Venosa e Lavello che comprendono il solo centro abitato, e altre assai ampie, come Tursi, Tricarico, Matera e Acerenza, quest’ultima discontinuamente intersecata in territori sottoposti alla giurisdizione vescovile di Gravina, Montepeloso e Tricarico. Alla frammentazione delle diocesi di Basilicata va aggiunto il problema di una viabilità rovinosa, a causa della quale spesso era possibile viaggiare soltanto a dorso di mulo; e ancora il problema della pericolosità dei percorsi e il clima, freddissimo in inverno, soffocante e malarico in estate, soprattutto in alcune zone del materano, del metapontino e del tursitano. Le zone litoranee, altresì, erano esposte continuamente al pericolo di incursioni e saccheggi. Le sedi vescovili della Basilicata non sono, perciò, molto ambite e la loro complessa realtà territoriale ha finito per limitare pesantemente l’azione pastorale dei vescovi che in esse si sono trovati a operare. Il concilio di Trento delinea la nuova figura del vescovo residente e attento conoscitore della diocesi, oltre che codificatore rigoroso, controllore e incrementatore della preparazione del clero e del livello religioso delle masse, diffusore della dottrina cristiana, contrastando, spesso, inquinamenti della fede, pratiche magiche, abusi di ogni genere. Missione pastorale particolarmente difficile da affrontare ed esperire nella composita realtà lucana. Il problema iniziale che i vescovi designati alle diocesi di Basilicata dovettero affrontare fu quello della residenza in luoghi dove, spesso, trovavano soltanto sedi fatiscenti e clima poco adatto alle loro precarie condizioni di salute. Alcuni vescovi, però, risiedevano nelle diocesi già prima che il concilio di Trento ne prescrivesse l’obbligo, come Giovanni Michele Saraceno, vescovo di Acerenza e Matera, il quale negli anni Quaranta del Cinquecento curò anche la visita pastorale all’arcidiocesi a lui affidata, lasciando una documentazione rara e preziosa della realtà socioreligiosa di un territorio lucano in epoca pretridentina. Per l’erezione dei seminari il concilio di Trento aveva previsto una tassa sui benefici dei sacerdoti, sulle confraternite, sui luoghi pii e su tutte le rendite provenienti dai beni ecclesiastici. Per i vescovi lucani fu molto difficile mettere in atto queste disposizioni, benché i vescovi della Basilicata avvertissero la necessità improrogabile di un salto di qualità nella formazione del clero locale. Dalle relationes ad limina si evincono le forti lamentele dei vescovi circa l’inconsistenza delle rendite e dei benefici che rendeva impossibile di fatto l’istituzione dei seminari in Basilicata. Nella seconda metà del Cinquecento ne nacquero soltanto tre: a Muro Lucano nel 1565, a Policastro nel 1591, a Melfi nel 1597, mentre per la nascita di altri seminari bisognò attendere il secolo successivo. Alcuni vescovi, come Sebastiano Barnaba di Potenza e Fera di Marsico, sopperirono nel frattempo con l’avvio, a proprie spese, di scuole di grammatica. Comunque, i seminari lucani, anche istituiti, non ebbero mai vita facile e si dibatterono sempre tra disparate difficoltà economiche. Sulle visite pastorali in Basilicata effettuate nel primo periodo post-tridentino si conosce poco per la scarsa documentazione. Acquistano, pertanto, notevole importanza i due atti visitali compiuti a Potenza dal vescovo Tiberio Carrafa nel 1566 e nel 1571, benché esse siano limitate alla sola visita della città e manchino del tutto della visita al territorio diocesano. Attenta allo status animarum e a quello sociale è l’altra visita post-tridentina di cui si conserva la documentazione, ma sino ad oggi studiata poco approfonditamente, compiuta nel 1558 nella diocesi di Tricarico dal vescovo Giovanni Battista Santonio. Più numerosi i sinodi diocesani celebrati in Basilicata nella seconda metà del Cinquecento di cui si conserva memoria. Il primo fu tenuto a Muro Lucano da Filesio de’ Cittadinis nel 1565; due vengono celebrati nel 1567 da Marzio de’ Marzi Medici nella diocesi di Marsico e da Sigismondo Saraceno nell’arcidiocesi di Matera e Acerenza; uno a Lavello da Lucio Maranta; cinque, sul cadere del secolo, a Venosa da Rodolfo da Tossignano nel 1589, a Potenza da Sebastiano Barnaba nel 1593, a Policastro dal vescovo Spinelli nel 1596, a Melfi da Placido della Marra nel 1598, a Tursi da Ascanio Giacobazio nel 1599. Appare evidente l’impegno di mettere immediatamente in atto nelle diocesi della Basilicata, già all’indomani della chiusura del Tridentino, i decreti di riforma, da parte di alcuni vescovi che avevano partecipato direttamente ai lavori conciliari, come de’ Marzi Medici, Saraceno, Maranta, oppure di personalità particolarmente forti quali de’ Cittadinis, Spinelli, Della Marra, all’opera dei quali si deve, non a caso, anche la fondazione degli unici tre seminari sorti in questo periodo in Basilicata. Sull’azione pastorale dei vescovi lucani di età moderna, nonché sulla stessa organizzazione ecclesiastica e sulla vita religiosa delle diocesi, influirono in maniera negativa, oltre alle difficoltà territoriali e climatiche, anche le condizioni demografiche, sociali ed economiche della Basilicata, rese più drammatiche da una serie di crisi agrarie che si susseguirono, a distanza di breve tempo, tra il secondo Cinquecento e la prima parte del Seicento, messe in risalto dall’aumentata pressione fiscale esercitata dagli spagnoli sul Mezzogiorno d’Italia. Decrementi demografici si registrano nella diocesi di Tricarico con un calo di popolazione del 13,3 per cento, ma anche nella diocesi di Anglona e Tursi, dove a seguito dell’abbandono delle campagne venne registrata la scomparsa di interi villaggi. Questa realtà fluttuante diventò incontrollabile per i vescovi, i quali nelle relazioni ad limina registrarono dati vaghi e sommari fino alla metà del Seicento. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta e la fine del Seicento l’impegno pastorale dei vescovi lucani venne reso molto difficile anche a seguito di carestie, moti sociali, pestilenze, emergenze alimentari, terremoti, nonché dal dilagare del banditismo nelle campagne, che impediva spesso ai vescovi di recarsi a Roma o di effettuare le stesse visite pastorali, e al clero di riu - nirsi in sinodo diocesano. Prima del concilio di Trento i vescovi abitualmente non risiedevano nelle diocesi e il clero locale era arbitro assoluto nelle realtà di provincia e la potenza achipresbiterale appariva illimitata. L’applicazione del decreto tridentino sulla residenza portò a contatto, e inevitabilmente in conflitto, i vescovi, decisi a difendere la propria giurisdizione e gli ecclesiastici, gelosi di prerogative a essi riconosciute da sempre. Nell’archivio diocesano di Melfi sono trascritti in numerosi volumi le liti tra vescovi e clero o tra vescovi e frati; ma questo accadeva anche per Anglona e Tursi dove attori erano gli abati commendatari e nota è la lunga controversia insorta tra i vescovi di Marsico e l’arciprete di Saponara che esercitava addirittura le funzioni vescovili, giudicando cause matrimoniali e convocando sinodi. Ma tesi erano anche i rapporti tra vescovi residenti in Basilicata e feudatari che intendevano usurpare la giurisdizione ecclesiastica. Peraltro non sereni erano i rapporti dei vescovi con le popolazioni lucane, la cui mentalità e la cui religiosità apparivano molto lontane dai modelli proposti dal concilio di Trento. La situazione delle diocesi di Basilicata in età moderna era composita: l’opera dell’episcopato non si presentava facile, era necessario un notevole impegno costante nel tempo e un lavoro capillare e paziente, coniugato, allo stesso tempo con l’avvio di grandi progetti di riforma religiosa, che spesso, nella realtà lucana, si rivelarono destinati all’insuccesso. Le generazioni episcopali e i loro approcci pastorali sono differenti. La prima generazione di vescovi postconciliari è quella che aggredì con forza e costanza la realtà religioso-ecclesiastica delle diocesi lucane, rimuovendo abusi e prescrivendo norme per il clero e per il popolo: è la generazione dei vescovi Marzi Medici, de’ Cittadinis, Spinelli, Della Marra. Alquanto diversa è la seconda generazione, quella dei vescovi che guidarono le diocesi lucane tra i primi del Seicento e gli anni Trenta dello stesso secolo. Questi vescovi non emularono i loro predecessori in divulgazione riformatrice e creatività rispetto alle norme tridentine, ma i vescovi della seconda generazione seguirono, altresì, la via della ripetitività e dell’imposizione con minacce di scomunica che fecero prendere corpo a un processo di accentramento e di rafforzamento del potere giurisdizionale dei vescovi. A questa seconda generazione appartengono i vescovi Diodato Scaglia di Melfi, ma anche Andrea Pierbenedetti di Venosa che portò nella diocesi lo stile borromeiano del vescovo curatore di anime. La terza generazione fu quella dei vescovi che operarono nel pieno della crisi di metà Seicento. All’impotenza, alla rassegnazione, al disinteresse di alcuni vescovi lucani che traspare dalle scarne e spesso ripetitive relazioni alla Santa Sede, fa riscontro l’impegno di altri vescovi che, proprio dalla crisi materiale e morale dei fedeli e del clero, sembrano trarre maggiore forza per agire pastoralmente. È il caso del domenicano Giuseppe Maria Ciantes, vescovo di Marsico, che dopo un tenace impegno in Basilicata e dopo scontri ruvidi con clero e popolo, preferì ritornare sconfitto nel convento di Santa Maria della Minerva a Roma per dedicarsi allo studio. Unica in questo periodo è la figura di Juan Caramuel de Lobkowitz, monaco cisterciense, famoso teologo, matematico, architetto, che aveva girato buona parte dell’Europa e che nel 1657, proveniente dalla Boemia, fu designato vescovo a Campagna dove rimase sino al 1673 con, in verità, poca presenza fisica, perché appena possibile si recava a Napoli, all’Accademia degli Investiganti, di orientamento cartesiano. Il XVIII sec. non vide l’inserimento della Basilicata nelle linee di riforma del Tridentino; gli sforzi, pur presenti nell’episcopato lucano, si rivelarono perdenti. Non venivano riscontrate le condizioni effettive per il governo delle diocesi, tanto che il vescovo di Campagna e Satriano Saverio Fontana per tutto il tempo del suo episcopato, dal 1714 al 1736, affrontò nei tribunali napoletani continue liti con i baroni e il clero locale, tanto da impedirgli di rispettare l’obbligo della residenza. Come pure i vescovi di Marsico, Donato Anzani (1710-1732) e Alessandro Puoti (1732- 1744), non furono in grado di compiere la visita ad limina perché impediti dalle molte liti che sostenevano a Roma e a Napoli in difesa dei diritti della Chiesa contro il clero locale ricettizio che gestiva un patrimonio, di natura laica e privata, amministrato «in massa comune» dai soli preti nativi del luogo partecipanti al privilegio di gestione di questa autentica «azienda clerale». In questo quadro non fu secondario il processo di riforma dei rapporti fra Stato e Chiesa messo in atto nel Regno di Napoli da Bernardo Tanucci, ministro di Carlo III e Ferdinando IV, sostenitore convinto delle prerogative e dell’indipendenza del monarca nei confronti dei privilegi e delle pretese della curia romana. Tanucci rappresentava l’eredità dell’anticurialismo e del regalismo napoletani, il cui massimo esponente era stato Pietro Giannone. La lotta anti-curalista napoletana veniva concretizzata nel 1741 con il «Trattato di accomodamento tra la Santa Sede e la Corte di Napoli», in virtù del quale vennero ridotte le immunità ecclesiastiche e i beni della Chiesa furono assoggettati ai tributi ordinari; vennero limitate le ordinazioni sacerdotali, abolite alcune congregazioni religiose e regolamentata la diffusione di altre. Il processo di riforma rappresentato dal «Trattato di accomodamento» sostituì ai vecchi abusi dei baroni e del clero ricettizio, nuovi e più gravi indebolimenti dell’autorità pastorale dei vescovi lucani. Lo avvertì limpidamente il vescovo di Campagna e Satriano, Angelo Anzani (1736-1770), fautore di una pastoralità riformista legata ai dettami tridentini, che avverte il dramma dei vescovi di quegli anni rappresentato dallo sguardo di sospetto del clero e dei fedeli, nei confronti dei compiti episcopali volti a condurre clero e popolo verso una coscienza istituzionale e «romana» della fede. L’ultimo segmento del Settecento rappresentò per i vescovi lucani il più burrascoso, peraltro come per tutti i vescovi del Meridione d’Italia. Fu questo un periodo agitato e vorticoso non solo per i pastori di stampo tridentino, ma anche per i vescovi «regalisti» e filo-tannucciani, come Andrea Serrao di Potenza che, arrivato in questa città, sospese ogni rapporto ufficiale con Roma e instaurò rapporti formali con la corte napoletana. Questo non portò alla risoluzione dei cronici problemi finanziari che avevano sempre reso impossibili le realizzazioni delle strutture ecclesiastiche; fu per questi motivi che Serrao dovette rinunciare anch’egli al seminario nella diocesi di Potenza. Serrao progressivamente maturò un distacco dal riformismo borbonico, anche a seguito del deludente riavvicinamento della corte di Napoli alla Santa Sede. In questo quadro complesso arrivò nel 1799 anche a Potenza il governo repubblicano, conseguenza delle idee rivoluzionarie francesi. Serrao prese viva parte agli eventi del 1799, come peraltro, l’arcivescovo di Matera e Acerenza, Camillo Cattaneo, che partecipa all’innalzamento a Matera dell’albero della libertà. Ma nell’episcopato lucano erano presenti anche vescovi filo-monarchici e contrari al movimento rivoluzionario, come il vescovo di Policastro, Ludovico Lodovici, stretto collaboratore del cardinale Ruffo nelle imprese controrivoluzionarie. La presenza composita, e articolata su fronti avversi, di esponenti dell’episcopato lucano durante i fatti del 1799, rappresenta in maniera intensa le profonde lacerazioni che gli ultimi tratti dell’età moderna produssero in Basilicata, non solo nel mondo laico, ma anche in quello ecclesiastico. Terminato il periodo rivoluzionario e unificato, nel 1816, l’intero territorio meridionale sotto la denominazione di «Regno delle Due Sicilie», con Ferdinando di Borbone sovrano al di qua e al di là del Faro, le Chiese dell’intero Meridione videro un generale processo di riassestamento dettato dalle volontà del concordato che venne stipulato tra la corte borbonica e la Santa Sede. A Terracina il 16 febbraio 1818 il cardinale Consalvi e il cavaliere Medici sottoscrissero il concordato che Ferdinando I ratificò il 25 febbraio e il papa Pio VII il 7 marzo. Nei patti si legge che occorre diminuire il numero delle diocesi. Questo antico problema per il territorio meridionale dell’Italia si era già posto all’epoca del «Trattato di accomodamento » del 1741 per sopprimere le diocesi piccole «oscure» e povere. La stessa Santa Sede aveva deciso di intervenire durante gli anni centrali del pontificato di Pio VII, papa nel turbolento periodo del 1800- 1823, istituendo una commissione per procedere alla valutazione delle eventuali diocesi da sopprimere, ai lavori della quale venne chiamato anche il vescovo di Marsico, Paolo Gazzilli, che morì proprio nell’anno della firma del concordato di Terracina. A seguito di questi percorsi di ristrutturazione le diocesi lucane vedono la soppressione di Lavello aggregata a Venosa; Marsico unita aeque principaliter a Potenza; Matera unita aeque principaliter ad Acerenza e la diocesi di Satriano unita in amministrazione perpetua a Conza. Rimanevano le incongruenze di Marsico suffraganea di Salerno e Potenza suffraganea di Acerenza. Per i vescovi meridionali l’età contemporanea si aprì, visto il concordato del 1818, con l’espletamento di compiti generalmente affidati a funzionari di Stato. È questo un effetto diretto del concordato che riconosceva il cattolicesimo quale religione di Stato, assegnava larghi poteri e dotazioni economiche ai vescovi, metteva il braccio secolare a disposizione della Chiesa per imporre alla collettività norme religiose ed etiche. Nella prima metà dell’Ottocento l’esercizio del governo episcopale in Basilicata era ancora difficile: il vescovo di Muro, Giovanni Filippo Ferrone, non venne accettato dal capitolo perché non era un «diocesano»; il vescovo di Potenza, Marolda, dovette difendersi dalle contestazioni delle tre chiese di Potenza, in lotta fra loro, ma coalizzate contro il vescovo; e ancora a Potenza nel 1834 due arcipreti impugnarono l’operato del vescovo presentando critiche sul sinodo che, secondo loro, ledeva gli antichi diritti delle due collegiate potentine. Il sommovimento quarantottesco toccò le sfere ecclesiastiche e anche i sacerdoti potentini parteciparono ai moti risorgimentali che caratterizzarono il capoluogo e, per armare la guardia nazionale, i tre capitoli della città si tassarono per una generosa offerta di 200 ducati «per il bene della nazione». Anche gli eventi naturali scuotono le chiese lucane e le coinvolgono in atti di pietà e di soccorso alle popolazioni: il terremoto del 1826, ma soprattutto quello del 1857, che nella sola provincia di Potenza provocò 9732 morti, fanno emergere i sentimenti di sofferenza dell’episcopato lucano, che mai abbandona le popolazioni colpite, e che traspare da atti concreti e da lettere pastorali particolarmente significative. Con il processo di unificazione nazionale anche le Chiese lucane compresero che l’epoca delle concessioni governative al mondo religioso stava per concludersi. Molti decreti, in partenza da Torino, rivedevano completamente la legislazione ecclesiastica, abolendo, fra l’altro, il concordato del 1818 e ponendo fine al regime di chiese ricettizie. Solo a Potenza vennero incamerati dallo Stato e venduti 117 lotti rurali e 113 lotti urbani che appartenevano prima delle leggi eversive alla mensa vescovile, al seminario, al capitolo e a varie chiese e monasteri. Le lettere pastorali, le relazioni ad limina, gli atti delle visite pastorali dei vescovi della Basilicata mettono in luce i rapporti ruvidi con il nuovo Stato liberale unitario, soprattutto da parte dei pastori costretti alla lontananza forzata dalle loro diocesi a seguito degli avvenimenti del 1860. Leone XIII sollecitò il cattolicesimo ad adattarsi ai tempi nuovi, senza perdere di vista l’obiettivo finale che restava il medesimo additato da Pio IX, ricostruire un ordine civile cristiano. Il progetto di Leone XIII per l’Italia prevedeva la creazione di una solida ed effettiva collegialità episcopale, istituzionalmente concretizzata con la fondazione delle regioni ecclesiastiche e la conseguente partenza delle conferenze regionali dei vescovi. Prima della creazione delle Conferenze episcopali regionali non si riscontra nei vescovi della penisola una coscienza collegiale del loro ministero. Il 24 agosto 1889 giunse all’episcopato italiano una «Lettera circolare », inviata dalla congregazione dei vescovi e regolari, che indicava i confini delle diciassette regioni ecclesiastiche in cui venne divisa l’Italia e prescriveva adunanze collettive annuali per ogni regione conciliare. Il documento vaticano chiedeva che le conferenze regionali promuovessero l’uniformità della disciplina ecclesiastica, redigessero atti collettivi, individuassero linee comuni per superare le difficoltà di governo delle singole diocesi, uniformassero nell’ambito regionale la formazione del clero, potenziassero l’attività religioso-sociale del laicato. I diciotto arcivescovi, vescovi e abate ordinario della nuova regione salernitano-lucana, comprendente le tre province ecclesiastiche di Salerno, Acerenza e Matera, Conza, Amalfi, Cava e Sarno, Melfi e Rapolla e l’abbazia nullius della Santissima Trinità di Cava, si riunirono per la prima volta nel settembre 1891 a Pagani e rivolsero al clero e al popolo delle rispettive diocesi una lettera pastorale collettiva. Nelle prime battute i vescovi spiegavano che il papa aveva voluto che i vescovi italiani non attendessero al solo governo delle diocesi, isolati, senza una conoscenza reciproca, senza scambiarsi idee e consigli, senza di - scutere. «La lotta contro l’insegnamento cristiano è fiera e pertinace», scrivevano i vescovi, per questo erano lieti di incontrarsi, abbracciarsi come fratelli, comunicarsi le idee, «avvicinare fra loro le forze dirigenti la cristiana società». All’inizio di un nuovo cammino di collegialità, quella dei vescovi salernitano-lucani nei confronti dell’istruzione vaticana del 24 agosto 1889 era una concreta reazione entusiasta, non solo affidata alla tradizionale e incondizionata fiducia nella divina Provvidenza. In questo clima in mutamento il cattolicesimo lucano si accostò alla dimensione sociale dell’impegno, coinvolgendo vescovi, clero e laici in imprese nuove per la Basilicata. A Matera, nei primissimi anni del Novecento, il vescovo Raffaele Rossi governò quella diocesi all’insegna del più intenso attivismo e nella piena attuazione della Rerum Novarum. Il 10 maggio 1900 iniziò le pubblicazioni il settimanale cattolico «La scintilla», sotto la direzione del sacerdote Nicola Fanelli, ed ebbe vita fino al 1911, anno in cui cessò le pubblicazioni, dopo che era diventato nel 1901 l’organo ufficiale di tutte le diocesi lucane, tranne quella di Anglona-Tursi che ne aveva uno proprio, «La stella di Anglona». A Potenza venne fondato nel 1908 il quindicinale cattolico «La Provincia» diretto, e in buona parte redatto, da don Vincenzo D’Elia, segretario e uomo di fiducia del vescovo. Venne così riscattata la terra potentina dal disinteresse, sino ad allora evidente, nei confronti del movimento cattolico e che costrinse nel 1900 il vescovo Ignazio Monterisi a restituire in bianco il modulo dell’inchiesta che tentava di registrare l’interesse, nelle varie regioni ecclesiastiche italiane, nei confronti dell’Opera dei congressi. Gli argomenti trattati e la rottura degli schemi consueti della stampa a impronta clericale indussero la Santa Sede, attraverso l’invito della Congregazione concistoriale e tramite la volontà deliberativa del nuovo vescovo potentino, Roberto Razzoli, a emanare, per «La Provincia», il decreto di chiusura il 31 gennaio 1915. Segni di un cattolicesimo in mutamento erano anche la presenza, agli inizi del Novecento, di comitati diocesani dell’Opera dei congressi ad Acerenza, Matera, Tursi, Venosa e la celebrazione a Potenza, nel giugno 1912, del primo convegno cattolico basilicatese. I primi eventi bellici mondiali incisero profondamente sullo stato delle diocesi e sulla religiosità del popolo lucano. Anselmo Pecci, arcivescovo di Acerenza e Matera, in una pastorale del 1921 stigmatizzò questa situazione sottolineando come buona parte degli uomini lucani di ritorno dalla guerra non frequentavano più le chiese, i sacramenti, i catechismi per gli adulti e si erano allontanati dall’antica integrità di vita per professare una religione fatta solo di feste popolari, fuochi di artificio e pubblici spettacoli. Anche con le Chiese lucane il fascismo fu inizialmente generoso, stanziando tre milioni per gli edifici ecclesiastici danneggiati e portando nelle scuole il crocifisso. Questo incoraggiò inizialmente i programmi pastorali dell’episcopato di Basilicata, ma trascorsi solo pochi anni, a una richiesta economica dell’episcopato salernitanolucano il governo precisò che le finanze dello Stato non potevano sostenere gli oneri richiesti. La medesima conferenza salernitano-lucana affermava, altresì, alla fine degli anni Venti, di non poter continuare nell’opera di educazione della gioventù «se non d’accordo coi dirigenti l’istituzione nazionale dei Balilla», segno di un modus vivendi con il regime segnato anche da forme di incontro. Negli anni a cavallo tra le due guerre le Chiese della Basilicata videro la lunga azione pastorale di alcuni vescovi di notevole valore come Augusto Bertazzoni a Potenza e Marsico dal 1930 al 1962; Anselmo Filippo Pecci a Matera e Acerenza dal 1907 al 1945; Raffaello Delle Nocche a Tricarico dal 1922 al 1960, i quali hanno lasciato segni tangibili nell’opera di riscatto morale e sociale delle popolazioni lucane: l’ospedale a Tricarico, il seminario regionale a Potenza, la casa di ricovero per anziani a Matera. Negli anni del fascismo, e nonostante la presenza del conflitto mondiale negli ultimi periodi, si consolidò anche in Basilicata l’organizzazione del laicato nelle strutture dell’Azione cattolica, che già dagli anni Trenta conobbe, specie a Potenza e Matera, un notevole sviluppo. Questo movimento portò in Basilicata all’appoggio dei cattolici alla Democrazia cristiana nei primi confronti elettorali dell’Italia repubblicana. Gli impegni delle Chiese lucane dopo la conclusione del concilio ecumenico Vaticano II andarono nella direzione dell’inserimento nella vita ecclesiale del laicato attraverso le strutture di partecipazione; a favore della ristrutturazione delle organizzazioni cattoliche e il coordinamento dell’apostolato; verso la necessità di un continuo aggiornamento teologico e pastorale del clero unito alla diffusione della cultura teologica e per lo sviluppo di una pastorale aperta al mondo del lavoro. Da questi intenti derivarono concretamente in Basilicata il riordinamento delle curie diocesane; la riforma dei vicariati foranei; la costituzione dei consigli presbiterali e pastorali; l’istituzione del centro vocazionale lucano approvato dai vescovi nel 1970. Non tutti i vescovi lucani riuscirono a portare avanti un progetto di riforma per le diocesi. Queste lentezze, e talune difficoltà nella ricezione del Vaticano II, fecero avviare anche in alcune diocesi della Basilicata quei processi di dissenso presenti in altre regioni d’Italia. Soprattutto molti giovani, in assonanza con le forme di lotta studentesca del Sessantotto, richiesero più spontaneità nella preghiera e nei ruoli, soprattutto sacerdotali, e aderirono a movimenti ecclesiali di base. L’inizio di un nuovo corso per le Chiese della Basilicata è segnato dai provvedimenti emessi dalla Santa Sede nel 1976. Il primo provvedimento pose fine alla secolare polverizzazione delle diocesi, non più funzionale al mutato contesto storico, e creò in Basilicata nuclei diocesani più accorpati: Potenza, Marsico e Muro Lucano; Melfi, Rampolla e Venosa, Acerenza; Tricarico; Tursi, Lagonegro; Matera, Irsina. Il secondo decreto vaticano soppresse la conferenza episcopale salernitano-lucana e creò una conferenza episcopale lucana autonoma, adeguando la regione ecclesiastica a quella civile. Il terzo decreto elevò l’arcidiocesi di Potenza a sede metropolitica, costituendo un’unica provincia ecclesiastica in Basilicata, con tutte le diocesi della regione suffraganee di Potenza, come segno e simbolo di un’unità sempre più organica per le strutture e le iniziative pastorali. Il naturale entusiasmo per i nuovi assetti regionali venne smorzato dal tragico sisma del 23 novembre 1980. L’intera Basilicata fu scossa e fortemente ferita. All’indomani del terremoto un forte segnale di volontà di ripresa venne dato proprio dalle Chiese di Basilicata con il convegno promosso dalla Caritas e sostenuto dalla conferenza episcopale della Basilicata, tenutosi a Paestum dal 24 al 26 aprile 1981, sul tema «Le popolazioni terremotate interpellano la Chiesa di Basilicata». Nel messaggio finale si scorge tutta la volontà delle Chiese lucane di riappropriarsi del futuro per ricostruire quanto era stato distrutto. Questa volontà venne concretizzata da segnali tangibili come l’istituzione di un nuovo seminario maggiore interdiocesano di Basilicata, unitamente all’erezione dell’istituto teologico, che fra il 1988 e il 1993 prendono consistenza; e ancora attraverso il riordinamento delle diocesi lucane, all’interno della generale ristrutturazione delle diocesi italiane. Il decreto pontificio del 30 settembre 1986 definiva per la regione ecclesistica Basilicata le diocesi di Acerenza; Matera-Irsina; Melfi-Rapolla- Venosa; Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo; Tricarico; Tursi-Lagonegro. A questi segnali di cammino della Basilicata cattolica, va aggiunta la creazione dell’università degli studi, che con legge del 14 maggio 1981 porta l’istituzione accademica in una regione che ne era priva. Il 23 novembre 1983 i vescovi della Basilicata, in una solenne concelebrazione tenuta nel giorno inaugurale dell’ateneo lucano, attraverso le parole del presidente Giuseppe Vairo rilevano che l’università «è un lieto auspicio che vuol essere anche un impegno per la rinascita culturale, socio-economica, civile e morale della Regione». Nell’aprile del 1991 la visita alla Basilicata del papa Giovanni Paolo II, con le sue presenze al nuovo edificio del seminario maggiore di Basilicata, alla terza sessione del sinodo di Potenza, all’apertura delle celebrazioni per il decennale dell’università, impresse un segno di conferma al rinnovamento compiuto nell’oggi dalle Chiese lucane, protese, altresì, verso il futuro.Bibliography
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SOURCE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.