Diözese von Massa Marittima - Piombino
GESCHICHTE
I - Le origini e l’età medievale
La diocesi ebbe la sua prima sede nella città etrusca e poi romana di Populonia: la più antica notizia della Chiesa populoniense risale al 13 marzo 495, allorché il vescovo Asello partecipò al sinodo romano.A Pianosa esiste tuttavia una catacomba con caratteristiche cristiane che sembra risalire, per le sue origini, al IV . Per quanto riguarda i confini del territorio diocesano, è ipotizzabile che essi coincidessero con quelli della circoscrizione civile fino all’epoca longobarda, allorché Populonia acquisì la fascia costiera tra Bolgheri e San Vincenzo, già volterrana.
Un ulteriore tentativo di modificare i limiti diocesani si registrò tra il X e l’XI . a danno della diocesi di Roselle, ma la questione fu definitivamente risolta a favore di quest’ultima dal papa Gregorio VII nel 1076.
In origine la chiesa episcopale di Populonia era dedicata a santa Maria, in seguito, almeno dall’XI sec., prevalse la titolatura a san Cerbone, il santo vescovo della seconda metà del VI . Durante il suo episcopato, i longobardi invasero il territorio ed egli dovette rifugiarsi all’isola d’Elba, dove trovò la morte.
L’occupazione longobarda e la scomparsa del presule provocarono una profonda crisi, cui cercò di ovviare nel 591 papa Gregorio Magno, che affidò la diocesi al vescovo di Roselle.
La città di Populonia era già in forte decadenza in età imperiale e il suo declino continuò inarrestabile: il colpo di grazia fu dato nell’809 dalla devastazione operata dai pirati saraceni.
Allora lo stesso vescovo la abbandonò per la più sicura bassa val di Cornia, insediandosi a Suvereto.
Da qui, poco dopo la metà dell’XI sec., i presuli si trasferirono a Massa Marittima: la prima testimonianza risale al 1062.
Nei decenni successivi i vescovi riuscirono a esercitare diritti signorili sulla città, riconosciuti poi dagli imperatori alla fine del XII . ma non più accettati dal comune cittadino, che lottò duramente nei primi decenni del Duecento per sottrarsi a ogni controllo vescovile.
Nel 1138 la diocesi di Massa Marittima entrò a far parte della metropoli ecclesiastica pisana.
Le prime testimonianze sull’esistenza di forme di monachesimo eremitico risalgono alla fine del VI . nell’isola di Montecristo.
Alla metà dell’VIII . appartengono invece le più antiche attestazioni di cenobitismo maschile, con la fondazione del monastero di San Pietro di Palazzolo presso l’attuale Monteverdi, riccamente dotato nel 754 da uno dei suoi fondatori, il pisano Walfredo.
La fioritura monastica iniziata dalla seconda metà del X . dette anche in questa diocesi i suoi frutti con la presenza dei benedettini a Montecristo e con la fondazione dei monasteri maschili di San Giustiniano di Falesia presso Piombino (eretto nel 1022 dai conti Gherardeschi e passato alle clarisse nel 1256), di San Pietro di Acquaviva presso Campiglia Marittima (trasformato in prepositura nell’ultimo quarto del Duecento) e di San Quirico di Populonia (passato ai guglielmiti nel 1259) e del cenobio femminile di Santa Maria di Asca presso Castagneto Carducci (fondata forse dai conti Gherardeschi e trasformato nella seconda metà del Trecento in prepositura maschile).
Nel corso del XIII . la diocesi vide la presenza dei guglielmiti mentre prima della metà del secolo s’insediarono i francescani e le clarisse.
II - L’età moderna e contemporanea
In età moderna la diocesi di Massa-Populonia si espandeva su un territorio variegato, fra colline, valli, spiagge e isole, e sottoposto a diverse sovranità politiche.Il granduca di Toscana dominava, oltre la città vescovile di Massa Marittima, Campiglia, Castagneto, Bolgheri, Monteverdi, Canneto, Castiglioncello, Donoratico, Segalari, Frassine, parte di Monterotondo, Perolla, il forte di San Vincenzo e la Torre Nuova di Campiglia, nonché la cittadina fortificata di Portoferraio nell’isola d’Elba; il principe di Piombino aveva domini tanto nel continente che nelle isole (Piombino, Populonia, Suvereto, Belvedere, Follonica e Valle; Rio, Marciana, Capoliveri, Poggio, Campo, Sant’Ilario e San Pietro nell’isola d’Elba, e le isole di Pianosa e di Montecristo, quasi deserte); la signoria della Repubblica di Genova si restringeva all’isola di Capraia, già feudo della famiglia corso-genovese dei De Mari; il re di Spagna, anzi il più vicino viceré di Napoli, possedeva nell’Elba, senz’alcun titolo se non la potenza militare, Portolongone con le fortezze di Focardo, di Rio, di Marciana e di Campo.
Perfino il lontano imperatore si poteva intromettere da Vienna a causa dei diritti vantati sul principato piombinese.
Una tale situazione creò sempre problemi al governo spirituale della diocesi.
Gli abitanti dell’isola di Capraia furono pressoché abbandonati al loro destino e gli scontri fra la parrocchia e il convento dei francescani furono mediati più dai magistrati genovesi, raggiungibili con la galea della Repubblica, che dalla curia vescovile massetana.
Se i granduchi si prodigavano nell’offrire i propri servigi – e le proprie galee – ai vescovi in visita a Portoferraio, i principi di Piombino, indispettiti per la lunghissima contesa sui feudi di Valle e Montione, accentuarono la loro autonoma sovranità sul proprio territorio, arrivando sino a proteggere apertamente anche i chierici colpiti per i loro comportamenti irregolari dal tribunale vescovile e i comandanti delle guarnigioni spagnole vietavano ai presuli di ispezionare le chiese curate delle loro fortezze, reclamando per queste l’esclusiva subordinazione al cappellano maggiore di Napoli.
Segnale di questa debolezza dell’autorità vescovile fu la vicenda della nascita del monastero femminile di Sant’Anastasia a Piombino, nei primi anni del Seicento: il vescovo dovette accettare le condizioni poste dai maggiorenti locali, che con la loro tenace resistenza ai precetti romani impedirono che le loro figlie e sorelle dovessero subire il regime della clausura.
La condizione della giurisdizione vescovile peggiorò con la nuova dinastia dei Lorena e toccò il fondo in epoca napoleonica.
Lo smantellamento delle galee destinate al pattugliamento contro le incursioni dei barbareschi nel canale elbano impedì ai vescovi di recarsi nell’isola e rese più pericolose le comunicazioni fra quel territorio e la sua cattedrale.
Poi, nel 1787, nell’ambito di una più complessa trattativa internazionale per l’istituzione della nuova diocesi di Pontremoli, l’isola di Capraia fu formalmente smembrata dalla diocesi massetana per essere annessa alla Chiesa di Luni-Sarzana.
Infine, agli inizi del XIX . giunsero i due colpi più gravi: con un decreto emanato dal cardinale legato Giovanni Battista Caprara l’8 dicembre del 1802 l’isola d’Elba, allora appartenente alla Repubblica francese, fu separata da questa diocesi per essere aggregata a quella di Ajaccio in Corsica; quattro anni dopo, con un decreto del 26 aprile, il principe di Piombino Felice Baciocchi aggregò alla diocesi di Ajaccio anche tutta quella porzione continentale della diocesi di Massa Marittima che apparteneva allo Stato di Piombino.
Solo la Restaurazione riportò la diocesi massetana ai confini del 1790.
In quest’epoca moderna Massa Marittima era una diocesi povera, economicamente e demograficamente.
Ancora agli inizi del Seicento la popolazione diocesana ammontava a meno di undicimila abitanti, dei quali nemmeno ottomila erano adulti.
Intorno alla metà del secolo, il vescovo Accarigi denunciava la crisi demografica di molte località.
Nei primi decenni del Settecento la situazione non pareva migliore, forse con la sola eccezione di Campiglia: ancora alla fine del secolo gli abitanti di Massa non superavano le cinquecento unità e, soprattutto, variavano secondo le stagioni dell’anno per evitare le conseguenze della «mal aria».
Anche le strutture istituzionali della Chiesa massetana presentavano gli stessi caratteri di rarefazione e di miseria.
Il clero secolare della diocesi era addirittura insufficiente a ricoprire il numero dei non molti uffici ecclesiastici esistenti: nel 1590 nella città di Massa si contavano appena cinque sacerdoti, un suddiacono e quattro chierici in minoribus; nel 1665 Bandino Accarigi dichiarava che i sacerdoti cittadini potevano essere al massimo quattordici, comprendendovi però anche i frati.
In tutta la diocesi, poi, ancora negli anni Sessanta del Seicento gli ecclesiastici secolari non superavano complessivamente le ottanta unità, negli anni Ottanta erano saliti a un centinaio, a cui era da aggiungere una cinquantina di regolari.
Nel nuovo secolo, però, si verificò una pur modica crescita: negli anni Trenta del Settecento il Ciani denunciava la presenza di duecento ecclesiastici secolari, quaranta regolari, cinquantasei monache e ben quindici eremiti per circa venticinquemila fedeli (comprendendo anche i bambini).
Sul finire del Settecento, la cattedrale massetana di San Cerbone, divenuta suffraganea della metropolitana di Siena, nel 1459 aveva un capitolo composto solo da otto canonicati.
La sua mensa episcopale rendeva circa settecentocinquanta scudi romani: assai meno di un secolo prima.
Secondo i dati fiscali della Camera apostolica, ancora nel Seicento si stimava che la mensa massetana potesse rendere ogni anno al suo beneficiario fra i 1700 e i 2000 scudi fiorentini, provenienti per poco più della metà dall’azienda della Magona del Ferro del Granducato di Toscana, e per il resto da legna, granaglie ed erbaggi delle bandite di San Lorenzo in Corte di Piombino, di Baratti, di Campo alla Lite e della Marsiliana, nonché da censi e canoni di affitti.
Spesso, però, questa rendita era gravata da pensioni che potevano giungere fino alla sua metà.
Del resto, per tutta l’età medicea la cattedra massetana fu di pertinenza quasi esclusiva dei patrizi senesi e lo stesso vescovo più impegnato nell’attuazione del programma del Tridentino, il futuro arcivescovo di Siena Alessandro Petrucci, dovette ricorrere spesso al proprio patrimonio personale, creando non pochi problemi finanziari alla sua famiglia.
Anche in età leopoldina Massa ebbe con Pietro Vannucci un vescovo particolarmente impegnato nell’adempimento personale dei suoi compiti episcopali, a tal punto da contrarre la malaria: a lui si deve l’istituzione del seminario diocesano negli anni Ottanta, nei locali del soppresso convento dei minori conventuali.
Il 20 giugno 1816 l’arcivescovo di Siena Antonio Zondadari, dando esecuzione canonica alla bolla di papa Pio VII Singulari omnipotentis Dei Providentia, restituì a Massa «civitatem Plumbini cum suis adnessis et dependentiis, insuperque Insulam Ilvae, et alias insulas Pianosa, Montecristo, Cerbolo et Palmajola nuncupatas...» e due anni dopo, il 24 dicembre 1818, il nuovo vescovo Giuseppe Mancini poté prendere possesso della diocesi mentre si chiudeva il burrascoso periodo napoleonico.
II territorio diocesano, del quale nel 1839 il Repetti indicava la superficie di 475 miglia toscane quadrate, si estende attualmente nelle provincie di Pisa, Grosseto e Livorno.
Nel 1978 la diocesi rinunciava all’antico riferimento toponomastico populonense per acquisire quello di Piombino, già centro amministrativo del principato degli Appiani, mentre la matrice piombinese, intitolata a Sant’Antimo Martire, già chiesa conventuale, diveniva «concattedrale».
L’attuale assetto (53 parrocchie divise nei sei vicariati foranei di Massa Marittima-Follonica; Piombino; Campiglia Marittima; Castagneto Carducci; Elba Occidentale e Elba Orientale) è delineato nel decreto di monsignor Lorenzo Vivaldo del 28 giugno 1986.
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Diözese von Massa Marittima - Piombino
Chiesa di San Cerbone vescovo
-
La facciata della cattedrale di San Cerbone a Massa Marittima -
Il Fonte Battesimale -
Veduta dell’aula dall’ingresso -
Il presbiterio
Diözesen
QUELLE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.