Kirchenregion Lombardia
terra di passaggio e di insediamento delle popolazioni barbariche, affascinate dalla civiltà romana;
terra di scontro tra le pretese imperiali del Sacro romano impero e le autonomie cittadine;
oggetto delle brame delle diverse potenze europee nel loro tentativo di controllo del continente;
regione trainante dell’Italia unita e ponte tra essa e le problematiche culturali ed economiche del continente europeo. Occorrerà tenere conto di tutte queste vicende nella sintesi storica, che periodizzeremo secondo la scansione classica: epoca antica o delle origini (dal IV sec. sino all’arrivo dei longobardi);
epoca medievale (nella quale individueremo due tempi: sino alla riforma dell’XI sec. e sino al Rinascimento compiuto);
epoca moderna (anch’essa scandita in tempo della Riforma evangelico-tridentina – XVI-XVII sec. – e tempo delle riforme e delle rivoluzioni – XVIII-XIX sec. –;
epoca contemporanea (XX sec.).
GESCHICHTE
I - Epoca antica o delle origini
L’estensione originaria della regione si lega alla determinazione presa nel concilio di Nicea (325) e confermata da quello di Sardica (343) di assumere le circoscrizioni civili anche nel campo ecclesiale, regolando alla luce di quelle le competenze e le relazioni all’interno di queste. Per quanto riguarda la diffusione del cristianesimo nella regione, dobbiamo ritenere che esso fosse presente già nel III sec. sia nella città capoluogo che nei municipia da essa dipendenti. I dati di Milano sono confermati da quelli di Pavia, un centro militare non meno importante di Milano e dotato anch’esso della zecca (274-285 d.C.): Martino di Tours si convertì (326-328) assistendo a una liturgia della comunità cristiana di Pavia, ove erano di stanza le truppe di suo padre, ufficiale pagano. Un’ulteriore conferma della diffusione del cristianesimo già nel III sec. è data dalle convergenze nei nomi dei martiri di epoca dioclezianea: Alessandro, patrono principale di Bergamo, vi subì il martirio dopo essere fuggito da Milano, come i protomartiri di Como, Carpoforo e compagni; Vittore, Nabore e Felice furono trasla ti da Lodi a Milano. Notizie sicure sul cristianesimo nella regione Lombardia si hanno dal tempo di Costantino, come attestano le sottoscrizioni sinodali: Mirocle di Milano sottoscrive gli atti del sinodo di Roma contro i donatisti (313) e quelli di Arles del 314; il primo vescovo di Brescia, Ursicino, è presente al concilio di Sardica (343); il secondo vescovo di Bergamo, Viatore, lo sarà al concilio di Aquileia del 381. In questo periodo possiamo individuare alcuni elementi in sinergia fra loro. Il primo è l’influsso che ebbe la presenza della corte imperiale a Milano: se essa fu saltuaria al tempo di Costantino e di Costanzo, divenne abituale al tempo di Valentiniano. Ciò comportava per il vescovo della città di essere il tramite ordinario del rapporto tra vescovi e imperatore (can. 9 di Sardica). Lo si vede bene nella vicenda della strage di Tessalonica (390), permessa da Teodosio: i vescovi delegarono ad Ambrogio il richiamo all’imperatore a fare penitenza. Ovviamente questa centralità di Milano fu maggiormente sentita dai municipia limitrofi o suffraganei, al di là della personalità eccezionale di Ambrogio (374-397). Egli, piuttosto, mostra di esercitare delle competenze, che sente – e gli sono riconosciute – come proprie in quanto vescovo della città capoluogo: consacrazione dei vescovi suffraganei, come avvenne per il primo vescovo di Como, Felice (386); per il terzo vescovo di Bergamo, Dominatore (393) e per il quarto vescovo di Pavia, Profuturus (397). Inoltre il vescovo metropolita deve coltivare intense relazioni con i vescovi delle diocesi suffraganee e convocare sinodi locali presso la sua sede, come quello del 390, che indirizzò una lettera sinodica a papa Siricio, o quello del 451, che approvò il Thomus ad Flavianum di papa Leone Magno. Il rapporto di comunione era reciproco: Filastrio di Brescia accorse a Milano per sostenere Ambrogio al tempo della «questione delle basiliche», quando l’imperatrice madre di Valentiniano II pretese una delle basiliche cattoliche di Milano per la comunità ariana. E Bassiano, vescovo di Lodi (375-409), fu accanto ad Ambrogio morente (397). Un secondo elemento da considerare è l’influenza della lunga controversia ariana con i mille rivoli che produsse: Dionigi di Milano (349-360), niceno, fu esiliato per lasciare il posto ad Aussenzio (355- 374), ariano, cui successe Ambrogio che, catecumeno qual era, scelse il battesimo cattolico. Va osservato che la controversia ariana non rimase circoscritta agli ambienti ecclesiastici, ma divenne occasione anche di tensioni politiche. Queste tensioni, e la ferma difesa dell’ortodossia e della disciplina morale, ci permettono di introdurre un terzo elemento caratteristico dell’epoca: il saldo legame con Roma, che non deprimeva una saggia autonomia locale. Ambrogio di Milano, infatti, da una parte afferma: «Ubi Petrus, ibi Ecclesia» e «Noi seguiamo in tutto il modello e la norma della Chiesa romana»; dall’altra parte difende la lavanda dei piedi, che a Milano si compiva dopo il battesimo: «Desidero seguire in tutto la Chiesa di Roma, ma tuttavia anche noi abbiamo, come gli altri uomini, il nostro modo di pensare» (De Sacramentis III, 4-5). In questa prima fase del cristianesimo lombardo le Chiese, per quanto ci è dato sapere, hanno strutture molto simili: accanto al vescovo ci sono presbiteri e diaconi, guidati dall’arcidiacono, suddiaconi e lettori e vi è un notevole impegno di carità verso i più poveri. Sono presenti e si sviluppano rapidamente la vita monastica – sia cenobitica che solitaria – e la verginità consacrata femminile. La vita monastica è attestata – per esempio – da san Martino, da sant’Agostino al momento decisivo della sua conversione, da Eusebio di Cremona. Per la verginità consacrata, accanto a Marcellina, sorella di Ambrogio, dovremmo ricordare Onorata, sorella di Epifanio, vescovo di Pavia (466-497).II - Il Medioevo (VII-XI sec.)
Questa coesione intorno a Milano e questa sinergia nei confronti di Roma e della Chiesa tutta venne sottoposta a laceranti tensioni a causa di due fattori tra loro complementari. Il primo fu il prosieguo delle controversie cristologiche che, con i continui interventi imperiali per nuove definizioni dogmatiche (Enotico, condanna dei Tre Capitoli, aftardocetismo, Ektesis), furono occasione di ripetuti scismi. Né va dimenticata la persistenza dell’arianesimo: mentre Milano sconfisse l’arianesimo attraverso Ambrogio, a Pavia solo al tempo del vescovo Ariperto (652-662) si ebbe la conversione dell’ultimo vescovo ariano della città. In questi frangenti più volte Milano si trovò in contrasto con le diocesi suffraganee, che accentuarono il loro riferimento a Roma o a metropoliti più ortodossi. Proprio a causa della questione dei Tre Capitoli Como, la «figlia di Milano», agli inizi del VII sec. passò al patriarcato di Aquileia, assumendone il rito (rito patriarchino), che abbandonò solo, e a fatica, nel 1598. Il secondo fattore di novità – o di complicazione – fu il crollo dell’Impero romano con il successivo stanziarsi dei goti di Teodorico e dei longobardi. Fu tempo di guerre, che videro i vescovi esercitare una preziosa supplenza anche nel campo civile. Se l’arcivescovo di Milano si trasferì a Genova per quasi settanta anni, a Pavia il vescovo Epifanio (466-497) fu chiamato «pater patriae» per la difesa della popolazione durante le guerre tra Oreste e Odoacre, e dopo di lui il vescovo Massimo (497 ca-513) fu venerato come santo per la sua opera al tempo di Teodorico: soccorso ai profughi, riscatto dei prigionieri, trattative con gli invasori, esortazione alla convivenza tra autoctoni e nuovi insediati. I capi dei goti e quelli dei longobardi cercarono inizialmente di mantenersi separati dai latini, sia privilegiando la confessione ariana sia ponendo le loro capitali in città diverse da Milano. Si pensi al rilievo di Pavia già dal tempo di Teodorico, che vi fece costruire il suo palatium e vi incarcerò Severino Boezio. Ciò favorì le aspirazioni di Pavia e di Monza a legittime autonomie rispetto alla sede metropolitana. In particolare Pavia, costituita in diocesi da secoli, accentuò i suoi riferimenti alla sede romana: Ennodio di Pavia (514-521), di origini milanesi, venne incaricato da papa Ormisda (514-523) di due legazioni a Costantinopoli, per cercare di superare lo scisma acaciano, ma ancor più preziosa fu l’opera di mediazione nel dialogo tra papa Gregorio Magno (590-604) e la regina Teodolinda (†628), che culminò nel 603 con il battesimo cattolico, celebrato a Monza, di Adaloaldo (602-626), cui seguì la conversione al cattolicesimo del popolo longobardo. Tensioni dottrinali e nuove condizioni politiche allentarono i legami ecclesiali con la metropoli: quando nel 711 Armentario di Pavia (711-722) fu ordinato dal papa, a nulla valsero le proteste di Milano, poiché ciò era avvenuto «secondo la tradizione». Forse un correttivo al rischio centrifugo fu portato dai franchi, e in particolare da Carlo Magno (742-814), che nella sua opera di unificazione europea fu capace di tener conto anche delle tradizioni locali, valorizzandole opportunamente. È il caso delle scuole palatine, raccomandate nell’Admonitio generalis del 789, che si propongono come eredi di «una ben salutare consuetudine che sappiamo diffusa per tutta l’Italia» (concilio di Vaison, 529). È questo il tempo del definitivo consolidarsi delle pievi e dell’organizzazione monastica sotto la regola benedettina, che troviamo diffusa in tutta la regione ecclesiastica. Tutti questi fenomeni, nel loro reciproco intersecarsi, complicarono almeno per un certo tempo la cartina della regione, favorendo una duplice estensione del territorio controllato da questa o quella diocesi e delle autonomie dei grandi monasteri, che erosero l’autorità dei vescovi. È il caso di Pavia che nell’XI-XII sec. estese la sua giurisdizione su alcune pievi della diocesi di Milano (Sesto Calende, Cairate), di Vercelli (Penago), di Lodi (Postino), di Cremona (Pagazzano). Infine va ricordato che anche la regione Lombardia visse la tentazione comune, evidenziatasi soprattutto nel X sec., del controllo della sede episcopale da parte delle grandi famiglie locali: i Supponidi a Brescia; le fazioni rivali dei Vittani (guelfi) e dei Rusca (ghibellini) a Como.III - Dalla riforma gregoriana alla riforma tridentina (XI-XVI sec.)
La riforma dell’XI sec. fu salutare per la regione ecclesiastica e deve molto all’influsso della pataria, che da Milano si diffuse in tutta la regione, e che favorì il rilancio della figura episcopale e la vita comune del clero, riproponendo il primato della pastorale e il celibato sacerdotale. Ciò accentuò molto il riferimento a Roma, cuore e motore della riforma: accanto a Pier Damiani, legato papale per Milano, vediamo Giovanni da Lodi (1026-1106) e Anselmo da Baggio (1040 ca-1086), divenuto vescovo di Lucca che, esiliato, si rifugiò a Mantova a continuarvi l’opera della riforma. Lo scontro tra l’imperatore Enrico IV e papa Gregorio VII provocò a una presa di posizione più netta nei confronti di Roma: il vescovo di Como, Rainaldo (1063-1084), si schierò accanto al papa, al pari di Cremona, mentre Arnolfo di Bergamo nel sinodo di Bressanone (1080) approvò la deposizione di Gregorio VII. I vescovi lombardi, riuniti in sinodo a Milano nel 1098, lo deposero: segno che il legame con Roma era essenziale per la provincia ecclesiastica. D’altra parte le resistenze alla riforma non furono di poco conto. Pier Damiani solo con sapiente abilità ebbe ragione delle contestazioni del clero alla sua visita (sinodo del 1059), mentre Adelmanno di Brescia (1055-1061) fu ferito a morte dai suoi stessi canonici. Ma proprio queste resistenze interne, stimolarono i laici a sostenere la riforma e a sentirsi così protagonisti della società, ponendo le condizioni per quella nuova forma di governo che sarà il comune. Questa nuova realtà fece del riferimento ecclesiale un elemento fondamentale (il Carroccio), ma ciò non fu senza conseguenze. Così, quando Milano distrusse Lodi (1111) per garantirsi la libertà dei percorsi fluviali e ingaggiò una guerra decennale con Como (1118-1127), temendo di vedersi chiuse le vie per il Nord Europa, queste due città si allearono con Federico Barbarossa, condividendone le scelte ecclesiali: Como appoggiò l’antipapa Vittore IV (1159-1164) contro Alessandro III (1159-1181), approfondendo così il solco con Milano e le altre città lombarde. Comune alla regione fu la presenza di ordini religiosi, che sostennero la riforma della Chiesa: Cluny fondò numerosi priorati – Pontida (1076), Fontanella (1080) –; Vallombrosa offrì a Bergamo il vescovo Gregorio (1133-1146); i cisterciensi di Cîteaux furono presto presenti nelle zone paludose di Chiaravalle (1135) e di Morimondo (1136). Rapidamente e capillarmente si diffusero gli ordini mendicanti: gli umiliati, particolarmente diffusi a Como, Brescia e Milano; i domenicani, riconosciuti da Onorio III (1216-1227) nel 1216, eressero il loro primo convento a Bergamo nel 1220 e nel loro secondo capitolo generale (30 maggio 1221) già istituirono la Provincia Lombardiae. Contemporaneo e travolgente lo sviluppo dei francescani (1221 a Milano), dei carmelitani (1268 da Lodi a Milano), degli eremitani di Sant’Agostino (fondati nel 1243), dei serviti (1280 a Milano): tutti insieme – senza dimenticare i rami femminili di questi ordini – ci dicono la sete di spiritualità che si diffuse con autenticità nella regione. Accanto agli ordini mendicanti, segno dell’importanza che si dava all’evangelica vivendi forma, abbiamo il diffondersi delle eresie pauperistiche: Innocenzo III (1198- 1216) stipulò un accordo con i Poveri cattolici lombardi, della famiglia dei Poveri di Lione; l’assassinio dell’inquisitore per la Lombardia, il domenicano Pietro da Verona (6 aprile 1252), presso Seveso (diocesi di Milano) fu organizzato, pare, da gruppi ereticali di stanza a Lodi. I frutti di santità non furono pochi sia tra i religiosi che tra i laici e li troviamo in tutta la regione, spesso proclamati dal popolo e con frutti ancora presenti come le beate Caterina e Giuliana, che verso il 1450 fondarono la comunità eremitica di Sant’Ambrogio ad Nemus sul Sacro Monte di Varese: insieme agli umiliati sono tipica espressione della spiritualità lombarda. Tra i laici, poi, ricordiamo Omobono Tucenghi (1115/1120-1197), patrono di Cremona, canonizzato a soli due anni dalla morte al pari di Francesco d’Assisi; Obizio di Brescia (†1204), Gerardo dei Tintori a Monza (†1207), Gualtiero di Lodi (†1223): tutti si dedicarono a malati, poveri, lebbrosi, ospitandoli nelle loro stesse abitazioni. Nell’epoca delle signorie (XIII-XIV sec.) abbiamo il controllo delle elezioni episcopali da parte delle grandi famiglie: a Milano i Visconti furono a lungo vescovi e signori della città (Ottone: 1262-1295; Giovanni I: 1339-1354); a Pavia i Beccaria controllarono l’elezione del vescovo sino a che non vennero esautorati dai Visconti; a Brescia Berardo Maggi (1275-1308) fu signore della città dal 1298 alla morte; a Mantova i Gonzaga si tramandarono ininterrottamente l’episcopato dal 1466 al 1620. Non fu sempre un male, se pensiamo che i signori furono mecenati e promossero l’arte e la cultura: lo splendore artistico cui i Gonzaga portarono Mantova; lo Studium generale di Pavia, nucleo della futura prestigiosa università, e la splendida Certosa sono dono dei Visconti, mentre agli Sforza dobbiamo a Milano la Ca’ Granda (1456) e a Pavia l’ospedale di San Matteo (1449). Signori laici e prelati sembravano fare a gara nelle opere di carità, sostenendo le confraternite, che in innumerevoli e popolati hospitali accoglievano pellegrini, orfani, vedove, carcerati; fondando i numerosi ospedali maggiori e i monti di pietà (Milano, 1483), diffusi da fra Michele Carcano di Milano, che concretò la predicazione di Bernardino da Siena in Lombardia.IV - La Riforma protestante
Caratteri comuni sembrano doversi riscontrare nell’epoca della Riforma e della Controriforma sia negli elementi negativi sia in quelli positivi. In generale, in effetti, tutte le diocesi lombarde erano afflitte dal cumulo dei benefici e dalle prolungate assenze dei loro vescovi, spesso impegnati al servizio della Santa Sede; dalle numerose e intricate esenzioni degli ordini religiosi, dalla critica dei laici, che cedevano spesso al lassismo morale. Le idee dei riformati o protestanti, pertanto, ebbero buona accoglienza nella regione: se già nel 1520 a Milano circolavano canzoni di lode del «padre Lutero», Cremona è stata definita un vero «centro » del luteranesimo, mentre a Brescia e Mantova e in Valtellina e Valchiavenna (diocesi di Como) si costituirono piccole comunità riformate. D’altra parte la decadenza non era così generale: altrettanto prepotente e diffusa fu l’azione dei riformatori cattolici, ben prima che si diffondesse il protestantesimo. Si pensi a san Gerolamo Miani o Emiliani (1486-1537), il «patrono degli orfani», che nel 1532 fondò a Bergamo la Compagnia dei servi dei poveri (somaschi), nome suggestivo se pensiamo che negli stessi anni (1536) a Milano il prete Castellino da Castello, originario di Como, fondava la «Compagnia delli Servi dei Puttini in Carità », laici che si impegnarono nella splendida opera che furono le Scuole della dottrina cristiana. Si pensi a sant’Antonio Maria Zaccaria (1502-1539) che diffuse la sua opera di riforma – alla luce della spiritualità di san Paolo – da Cremona a Milano, ove nel 1533 fondò i barnabiti, le angeliche e i maritati (oggi: laici) di san Paolo, un tentativo di rinnovamento della vita di consacrazione, che richiama quello contemporaneo di sant’Angela Merici (1474- 1540), che nel 1537 fondò a Brescia la Compagnia di sant’Orsola. Si consideri anche con quale rapidità si diffusero gli ordini riformati, come i cappuccini, diffusi a Milano e a Bergamo nel 1535, appena dieci anni dopo la loro nascita. E con loro i gesuiti, chiamati da san Carlo a Milano nel 1563. Un discorso a parte meriterebbero gli oblati di Sant’Ambrogio, fondati da san Carlo (1578) e che troviamo diffusi anche a Pavia, sia pure sotto la denominazione di oblati di San Siro (soppressi nel 1680): sono il segno di una spiritualità che ha ormai caratteristiche locali. Sorte comune ebbero le diocesi della regione nell’applicazione dei decreti del concilio di Trento. Prendiamo un esempio: se a Milano abbiamo Ippolito I e II d’Este, che affittavano la diocesi sino a che non la cedettero a Carlo Borromeo (1538-1584), a Pavia abbiamo Giangirolamo de’ Rossi, che non volle mai essere ordinato vescovo e preferì affidare il governo pastorale al nipote, Ippolito (1560- 1591), il quale – a sua volta – fu degno compagno di san Carlo nell’opera di riforma della Chiesa e di applicazione dei decreti del concilio di Trento. A loro possiamo accostare Domenico Bollani di Brescia (1559-1579), Feliciano Ninguarda di Como (1588-1592), Nicolò Sfondrati di Cremona (1560-1590), divenuto papa Gregorio XIV (1590-1591), Francesco Gonzaga di Mantova (1593-1620), che fu dichiarato venerabile: sono la prova che la riforma tridentina deve la sua realizzazione alla figura dei grandi e santi vescovi, che ne accolsero con sincerità e convinzione lo spirito. Tale opera di riforma passò in primo luogo per l’istituzione – quasi contemporanea – del seminario: nel 1564 fu fondato a Milano e Pavia, nel 1566 a Cremona e a Vigevano, mentre a Bergamo e a Brescia sorse nel 1567. Certamente, la presenza del seminario in tutte le diocesi della regione favorì un rapido miglioramento, sia spirituale che culturale, del clero diocesano. Nuove confraternite, Scuole della dottrina cristiana, predicazione domenicale e festiva permisero anche un miglioramento della spiritualità laicale: tutta la Chiesa nei suoi vari ordini e gradi migliorò. Il secondo elemento della riforma della Chiesa dopo Trento fu la visita pastorale, che san Carlo Borromeo attuò nella sua diocesi, stimolando così i più illuminati dei suoi suffraganei: a Pavia Ippolito de’ Rossi la attuò tra il 1564 e il 1566; a Cremona lo Sfrondrati dal 1565 al 1590. Terzo elemento della riforma tridentina furono i sinodi diocesani, che vediamo convocati immediatamente dopo la fine del concilio a Milano (solo san Carlo ne convocò undici tra il 1564 e il 1584), a Bergamo (1564), a Cremona (1564), a Como (1565), a Pavia (1566 e 1571), a Vigevano (1572). Frutto di questi sinodi furono da una parte le preziose raccolte di decreti, che furono condivisi nella regione (Acta Ecclesiae Mediolanensis, Costituzioni di Pavia); dall’altra parte essi imposero una più austera disciplina ecclesiastica, una più marcata attenzione al ministero pastorale, una più aggiornata articolazione delle diocesi attraverso i vicariati, le pievi, le parrocchie con confini definiti. Notevole l’azione e l’impegno del laicato, al di là di certi stereotipi, che lo dicono emarginato. Accanto alle Scuole della dottrina cristiana si ponevano le confraternite, in particolare quelle del Santissimo Sacramento e quelle del Rosario o della Madonna. Alle confraternite si deve collegare l’intensa attività caritativa che svolgevano e che conferma il permanere – attraverso i secoli – di uno stile di carità che ha sempre caratterizzato la Chiesa. Una carità nutrita di spiritualità, come attesta l’esplosione di santuari, soprattutto mariani, che si ha da quel periodo. Sono espressione di questo zelo anche i nuovi ordini religiosi, che vediamo diffondersi rapidamente e quasi contemporaneamente nelle diocesi della regione: i teatini aprirono la loro prima casa a Milano nel 1570, i carmelitani scalzi proprio a Cremona (capitolo generale del 1593) videro riconosciuta la possibilità della loro riforma rispetto al loro grande ordine. Infine, non va dimenticata la devozione ai santi, proposti come modello credibile di vita cristiana: se a Milano la santità di Carlo Borromeo fu travolgente, a Pavia abbiamo sant’Alessandro Sauli (1534- 1592); a Mantova, oltre al venerabile vescovo Francesco, abbiamo quella singolarissima di san Luigi Gonzaga (1569-1591); a Bergamo san Gregorio Barbarigo (1657- 1664); a Brescia sant’Angela Merici, a Cremona sant’Antonio Maria Zaccaria. E sono solo i più famosi. Una nota: l’attuazione dei decreti di Trento per la regione ecclesiastica fu incisiva anche per l’inesausto operare di san Carlo Borromeo, che visitò più volte l’intera regione, per controllare l’applicazione delle decisioni dei sei sinodi provinciali da lui convocati tra il 1565 e il 1582, giungendo anche ad esautorare il vescovo di Lodi, Antonio Capizucco (1557- 1569). Il risultato fu una ripresa della forte coe - renza interna alla provincia ecclesiastica, che fu provvidenziale per l’epoca successiva.V - L’età delle riforme e delle rivoluzioni
Due elementi ci paiono da ricordare per il XVII sec. Dapprima le terribili epidemie, che a partire da quella del 1630 falcidiarono la popolazione ed esaltarono l’opera caritativa della Chiesa: si ricordi fra Cristoforo dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. In secondo luogo le incessanti guerre tra Francia e Spagna per il controllo dell’Italia settentrionale, con il finale trionfo degli Asburgo d’Austria. Furono vicende che interessarono anche la vita ecclesiale della regione, soprattutto per le diocesi di recente fondazione, più soggette al controllo dei sovrani rispetto a quelle con una tradizione veneranda. Il caso più eclatante è, forse, quello di Vigevano, ove si ebbe una serie di vescovi di origine spagnola che, benché (o forse perché) stranieri, furono impegnati nella cura della diocesi, facendo tutto il possibile per elevarne il livello culturale, spirituale, artistico. Nel corso del XVII e XVIII sec. si andò affermando l’assolutismo anche in campo ecclesiale con la progressiva determinazione del potere civile nel controllare la vita ecclesiale. Dapprima si attuò con il controllo delle elezioni episcopali e le infinite lotte con Roma. In un secondo momento si ebbe la tragedia della soppressione dei gesuiti (1773); con gli effetti a catena; che essa determinò all’interno della Chiesa, ma anche con i primi segnali di più coraggiosa autonomia. Infatti, mentre alcune diocesi cedettero alla volontà dei sovrani, altre furono capaci di coraggiosa libertà, come Bergamo, ove nel 1776 nacque il Collegio apostolico, con sacerdoti che continuarono a far vivere lo spirito e il carisma educativo dei gesuiti. Particolarmente incisiva fu per la regione ecclesiastica l’età delle riforme e delle rivoluzioni. Con le leggi di Maria Teresa e del figlio Giuseppe II furono toccati tutti gli ambiti: il popolo con le esasperate riforme, che colpirono la pietà popolare (forse esagerata, certo sincera); i religiosi con le continue soppressioni, sino a quella totale del 1810; la formazione del clero con l’istituzione di un unico seminario generale a Pavia; il clero con il contingentamento (un prete ogni 10.000 o 6000 abitanti) e con la generale riduzione del numero delle parrocchie: nel 1788 a Milano si passò da 68 a 40, a Pavia da 30 a 13, a Cremona da 37 a 29. Fu la dispersione di un patrimonio culturale e artistico irrecuperabile. Le idee nuove toccarono profondamente anche la struttura delle diocesi. Si pensi allo smembramento della diocesi di Pavia che tra il 1799 e il 1819 perse 119 parrocchie, diventando ombra di quella di un tempo. Non fu tutto negativo, perché Como nel 1789 fu riportata sotto la giurisdizione ecclesiastica di Milano, mentre Pavia vi ritornò nel 1819 e Crema vi fu aggiunta nel 1835, rendendo così più compatta la provincia ecclesiastica, riportandola per certi versi ai confini antichi. La presenza napoleonica fu caratterizzata anche dal tentativo di servirsi dei vescovi come luogotenenti della volontà imperiale. Se a Milano abbiamo il cardinale Giovanni Battista Montecuccoli Caprara (1802-1810), che approvò il Catechismo napoleonico, a Pavia Paolo Lamberto D’Allegre (1807-1821) fu «uno dei più fermi sostenitori delle idee e dei progetti di Napoleone »; a Crema monsignor Ronna (1808- 1828) fu tanto fedele a Napoleone quanto pronto a far inserire il nome del ritornato imperatore austriaco nel canone della Messa. Era, in fondo, la teoria della necessità dell’alleanza fra trono e altare. La situazione ecclesiale non migliorò né con la Restaurazione né nei primi decenni dello Stato unitario. Anzi, per certi versi si fece drammatica: se non si arrivò dappertutto a raschiare del crisma dell’ordinazione le dita di don Enrico Tazzoli prima della sua esecuzione (7 dicembre 1852), si ebbe ovunque un soffocante controllo poliziesco sulla formazione dei seminaristi: a Milano gli austriaci ordinarono l’allontanamento di tredici docenti, alcuni di chiara fama e di autentica santità, come il beato monsignor Luigi Biraghi (1801-1879); a Pavia fu impedito di compiere la visita pastorale a monsignor Luigi Tosi (1823-1845). Le cose non migliorarono con il governo italiano, che ricorse al ricatto piuttosto che concedere l’exequatur ai vescovi che non gli erano graditi, provocando lunghi periodi di vacanza della sede, con le conseguenze pastorali che è facile immaginare. Fu il caso di Milano, che dal 1859 al 1867 rimase senza arcivescovo; di Pavia, ove a Pietro Maria Ferrè (1859-1866) e Lucido Maria Parocchi (1871-1877) fu impedito di prendere possesso della sede; di Vigevano, che rimase vacante negli anni 1859-1871. A questa situazione di oppressione corrispondono figure episcopali di singolare zelo e di vera santità. Se a Milano abbiamo Carlo Gaetano Gaisruck, che volutamente assunse il nome del suo grande predecessore, a Pavia abbiamo monsignor Luigi Tosi e Agostino Riboldi (1877-1901) che, sia pure in modo intransigente, operò per un radicale rinnovamento della vita cristiana della sua diocesi, puntando su un rinnovato interesse per la formazione dei giovani attraverso gli oratori maschili e femminili. A Cremona non possiamo dimenticare Geremia Bonomelli (1871-1914): sostanzialmente vescovi tutti che avviarono con tenacia ed equilibrio le loro diocesi e la regione ecclesiastica a un dialogo con il futuro che si andava svelando, a un rinnovato impegno pastorale, che abbandonasse i toni intransigenti e cercasse le vie del dialogo. Credo che non a caso Paolo VI, il papa del dialogo, sia figlio di questa regione ecclesiastica. In tale rinnovamento fu prezioso sostegno l’esplosione dei nuovi ordini religiosi, dediti all’unisono alla carità per i poveri e i sofferenti e alla formazione, soprattutto delle classi più povere: canossiane (o Figlie della carità o Serve dei poveri), suore di Maria Bambina (o suore della carità), stimmatini, Figli dell’Immacolata (pavoniani), artigianelli, salesiani, Ancelle della carità, suore della Sacra Famiglia, marcelline e misericordine, e altri ancora. Una Chiesa che non appare rassegnata sulla difensiva, ma sembra diventare viva proporzionalmente alla persecuzione. Penso alle istituzioni missionarie che esplosero nel XIX sec., dal futuro Pime di Milano, alle Missionarie del Sacro Cuore di Francesca Saverio Cabrini (1850-1917) per Lodi, ai Missionari e Missionarie di San Carlo di monsignor Scalabrini di Como, all’Istituto missioni africane del bresciano Daniele Comboni (1831-1881). È un secolo tra i più fecondi di santità, che possiamo solo continuare a indicare per cenni: Francesco Spinelli (1853-1913) e Paola Cerioli (1816-1865) per Cremona; Luigi Guanella (1842-1915) per Como; Ludovico Pavoni (1784-1849), Maria Crocifissa di Rosa (1813-1855), Bartolomea Capitanio (1807-1833) e Vincenza Gerosa (1784- 1847), Giovanni Piamarta (1841-1913) per Brescia. Una santità giocata nell’impegno, nell’abnegazione, nel dono di sé in mezzo al disprezzo e alla persecuzione. Una santità che da sacerdotale e religiosa dilaga al mondo laicale, il cui impegno venne promosso in ogni modo e trovò la sintesi nel movimento cattolico e nell’Opera dei congressi, ma anche nelle numerose figure di santità laicale riconosciute. Si pensi per tutti a Giuseppe Tovini (1841-1897) di Brescia.VI - Dal Novecento ai giorni nostri
A mio avviso la spinta propulsiva del XIX sec. continuò e si consolidò nel successivo, permettendo alla regione ecclesiale lombarda di attraversare i decenni drammatici del XX sec. Il periodo delle due fasi della guerra mondiale (1914-1918, 1939-1945) vide le diverse Chiese impegnate nel comune sforzo di sostenere i combattenti e di assistere la popolazione civile, oppressa e angariata. Il decennio che intercorse tra le due guerre vide l’affermarsi del fascismo come forma di governo e del comunismo come ideale rivoluzionario. Su ambedue i fronti fu un periodo faticoso, che vide da una parte la dura contrapposizione all’ideologia bolscevica, sintetizzata nell’attivo impegno per le elezioni del 18 aprile 1948; dall’altra la sorda resistenza al fascismo, con l’altalena della concordia formale e dello scontro sostanziale. Se ci fu il concordato nel 1929, non si dimentichi lo scontro titanico ingaggiato nel 1931 e nel 1938. La regione ecclesiastica lombarda apparve concorde, forse aiutata in questo dall’autorevolezza dell’arcivescovo di Milano, il beato cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, notoriamente in stretta sintonia con Pio XI. Sulla scia della dignitosa autonomia dal fascismo di Schuster si posero, infatti, tutti i vescovi, da quello di Pavia, Giovanni Battista Girardi (1934- 1942), a quello di Cremona, Giovanni Cazzani (1914-1952), che si oppose alle violenze fasciste del 1931, «pronto a dare il sangue e la vita» per la libertà della Chiesa, a quello di Brescia, Giacinto Gaggia (1913-1933), intrepido nella condanna del fascismo. In genere, i vescovi lombardi del XX sec. furono uomini di alta statura spirituale e pastorale e non a caso non pochi sono stati proclamati beati: si pensi ai due metropoliti, Andrea Carlo Ferrari e Alfredo Ildefonso Schuster, cui si deve accostare Giovanni Battista Scalabrini (1839- 1905), passato da parroco nei sobborghi di Como a vescovo di Piacenza. Accanto ai vescovi c’è un nugolo di beati e santi proclamati o in procinto di esserlo: a Milano basti ricordare la prima «madre di famiglia» e santa dopo san Carlo, Gianna Beretta Molla (1922-1962); per Pavia dovremmo ricordare Riccardo Pampuri (1897-1907); a Vigevano Teresio Olivelli (1916-1945), il «ribelle per amore»; di nuovo a Milano Giuseppe Lazzati (1909- 1986), campione della cultura cattolica, nel quale – come disse il cardinal Martini – «il Vangelo ha assunto il volto dell'uomo contemporaneo». Non si dimentichi mai che i santi e i beati sono sempre e solo la punta dell’iceberg: essi hanno alle spalle migliaia e migliaia di persone, che hanno vissuto i loro stessi valori e il loro stesso stile di vita. È una regione, quella lombarda, che sembra essere arrivata preparata al concilio Vaticano II e non solo perché il suo inizio e, soprattutto, la sua positiva conclusione si devono a due papi lombardi, il bergamasco Giovanni XXIII (1958-1963) e il bresciano Paolo VI (1963-1978). Anche in questo caso essi appaiono espressione di un modello spirituale, culturale, pastorale che li plasmò e li preparò. Si pensi all’importanza della figura di Giacomo Maria Radini Tedeschi (1857-1914) per il suo giovane segretario, Angelo Roncalli. Si consideri il patrimonio formativo di Paolo VI: sua madre era stata educata alle nuove idee da una suora di monsignor Biraghi, la beata Anna Maria Sala; suo padre lo aveva aperto alle istanze del movimento cattolico e dell’impegno sociale cristiano; lui stesso si era formato alla scuola preziosa dei religiosi filippini, come padre Giulio Bevilacqua (1881-1965), attenti alla formazione di personalità integrali, ricche culturalmente e umanamente, serene e forti. Se poi ricordiamo che Giorgio Montini fu tra i fondatori della casa editrice La Scuola (1904) e padre Bevilacqua tra quelli che fondarono la Morcelliana (1925), dobbiamo concludere che il cattolicesimo lombardo fu acuto e comprese che occorreva puntare su un’autentica cultura cristiana, capace di un dialogo fermo e sereno con le istanze del mondo nuovo, quelle che portarono alle speranze del Vaticano II. Ora, ci direbbe Giovanni Paolo II, è tempo di andare «avanti con speranza! Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarsi, contando sull’aiuto di Cristo» (Novo Millennio Ineunte, 58).Bibliographie
La regione ecclesiastica Lombardia ha la fortuna di possedere una storia completa: Storia Religiosa della Lombardia, a c. di A. Caprioli, A. Rimoldi, L. Vac caro, Brescia-Gazzada, pubblicata da La Scuola- Fondazione Ambrosiana Paolo VI, tra il 1986 e il 1998 in dodici volumi, il primo di introduzione metodologica, undici volumi per le dieci diocesi della regione ecclesiastica (due sono per la diocesi di Milano) e i volumi di Complementi, dei quali è apparso il primo per la diocesi di Lugano nel Canton Ticino (2003) e il secondo, per la diocesi di Novara, è previsto per il 2007.Es werden nur die Gebäude angezeigt, für die eine exakte Georeferenzierung vorhanden ist×
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Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.