Región eclesiástica Puglia
HISTORIA
I - Origini e Medioevo
I primi cristiani pugliesi di cui si conosce il nome sono Pardus Salpensis e Marcus Calabriae, Marco di Aeca e i suoi dodici fratelli martirizzati nel 298 a Satrianum, sul territorio dell’odierna diocesi Cerignola-Ascoli Satriano. Pardus Salpensis, della Puglia, compare tra i partecipanti all’assemblea dei vescovi convocata nel 314 ad Arles; Marcus Calabriae, di Terra d’Otranto, nel concilio di Nicea del 325. Tutti fanno parte della II Regio dell’amministrazione dell’Impero romano (Apulia et Calabria). Nei decenni seguenti il vescovo Stercorio di Canosa è attestato nell’assemblea dei vescovi tenutasi a Sardica nel 342-343. Testimonianze dell'esistenza di comunità cristiane sono le tracce di basiliche del IV-V sec. a Herdonia e a Siponto, al nord, coeve alla più antica vasca battesimale visibile a Venosa; al centro a Egnatia e più a sud l’edificio rimasto in piedi, Santa Maria della Croce, a Casaranello, con i maggiori mosaici cristiani, datati dagli archeologi agli anni 431-451. Le lettere dei vescovi romani del V-VI sec. e le riunioni sinodali da loro convocate ci fanno conoscere altre comunità cristiane: a Lucera, Bari, Larino, Carmenia (Foggia), Lecce, Brindisi, Taranto e Gallipoli. Certamente Canosa con il vescovo Sabino (541- 566) è la comunità più importante; per altro verso, estese contrade e addirittura l’intera città di Gallipoli facevano parte del Patrimonio di San Pietro; dal V sec. sul Gargano si affermò il culto a San Michele e fu elevato e consacrato un edificio (493- 494), meta di pellegrinaggio tra le più importanti della cristianità nei secoli seguenti. Mutati i contesti sociali ed economici, l’evoluzione cristiana delle popolazioni pugliesi progredì e alla fine del X sec. si può considerare compiuta. Le vicende politiche non furono estranee, con l’occupazione di Spoleto da parte dei longobardi, alla fine del VII sec., che scompigliò gli assetti tradizionali; i bizantini riconquistarono Otranto verso il 758, ma non riuscirono a impedire che gli arabi, nel corso della prima metà del IX sec., compissero scorrerie e addirittura nell’847 conquistassero Bari, dove costituirono un emirato che durò fino all’871, e Taranto, e stabilendo consistenti colonie e fortezze proprie. La riconquista tarantina della regione pugliese e di altre meridionali favorì gli sviluppi storici della comunità cristiana e l’organizzazione delle sedi vescovili. Si trattò di una bizantinizzazione vera e propria: i vescovi di Otranto furono collegati con Costantinopoli, quello di Oria fece pervenire le reliquie del monaco palestinese Barsanofio. L’estremo territorio della penisola fu coperto di edifici di culto, le cui tracce rimangono ancora, come nel caso di Sant'Eufemia di Specchia e di San Pietro di Giuliano o di monasteri e insediamenti rupestri e affreschi absidali degli edifici, come quelli di Teofilatto a Carpignano Salentino. I bizantini inoltre assegnarono vescovi ai numerosi centri che si andavano formando e maggiori titoli alle sedi principali delle città più importanti della Puglia centrale e settentrionale: nel 971 Bovino ebbe il vescovo, come anche Ascoli Satriano e Troia, Monopoli e Ostuni; fu nuovamente assegnato un vescovo a Siponto; nel 953 a quello di Canosa-Bari fu attribuito il titolo arcivescovile e nel 975 fu trasferito a Bari, quando fu insediato il catapano, governatore bizantino dell’intero Meridione; fecero arcivescovi quelli di Taranto (978), Trani (987), Lucera (1005), Brindisi (1010), Siponto (1028): vescovi tutti latini, che prima e dopo la promozione arcivescovile, continuarono a dipendere da Roma; attraverso di essi i bizantini si garantivano un sostegno nel controllo delle popolazioni. Il dominio dei bizantini sulle chiese latine si basava sul principio di promuovere a posizioni ecclesiastiche di rilievo soltanto sudditi leali all’imperatore. Si possono così spiegare le numerose cumulazioni di vescovati: alle autorità bizantine convenne infatti affidare una seconda chiesa a un vescovo o arcivescovo che avesse dato buon nome di sé, piuttosto che lasciar eleggere un chierico sconosciuto, di fatto favorevole alla tradizione latina. Nella seconda metà del X sec. quindi compaiono più volte vescovi di Canosa-Bari e al tempo stesso di Brindisi-Oria, di Brindisi, Monopoli e Ostuni, di Trani e Ruvo, di Bari e Trani. La tradizione latina non fu interrotta: i tentativi di Niceforo Foca di interdirne il culto nel 968 furono vani, a eccezione di Otranto. I suoi vescovi, dalla fine del IX sec. alla fine dell’XI, furono molto legati alla sede costantinopolitana. Nel 1054 il vescovo Ippazio fu presente al sinodo di Michele Cerulario che scomunicò i legati romani e la polemica degli anni precedenti vide tra i protagonisti il vescovo di Trani, Leone. La vita religiosa delle popolazioni, almeno nelle zone meridionali, si arricchì di non pochi tratti orientali delle devozioni ai santi, come si rileva nei calendari liturgici e negli stilemi delle figurazioni degli insediamenti rupestri della Terra d’Otranto. Vi contribuirono pure i monasteri che si andarono diffondendo e divennero centri di irradiazione religiosa, come quelli di fondazione imperiale a Taranto. Più numerosi furono i monaci italo-greci di tipo prevalentemente anacoretico, restii alla vita comunitaria: essi espressero quell’individualismo che caratterizzò l’indole religiosa delle popolazioni pugliesi. Il monaco italo-greco si rassegnò molto tardi alla vita cenobitica regolamentata in ogni particolare del vivere e del pregare. Altra tappa fondamentale è rappresentata dalla conquista della regione, insieme con tutto il Meridione italiano, da parte dei normanni, compiutasi dal 1053 (battaglia di Civitate) all’incontro di Roberto e Gregorio VII a Ceprano nel giugno 1080. Essi insediarono vescovi latini nelle sedi siciliane distrutte dagli arabi e in quelle vacanti o disertate della Calabria e della Puglia meridionale, non tanto per un piano sistematico di latinizzazione, come ha affermato Holtzmann, quanto, invece, laddove non trovarono resistenza da parte delle popolazioni, per una politica di recupero progressivo in potestate papae di tutte le sedi soggette alla giurisdizione romana prima dell’iconoclastia e dei contrasti del IX sec. Fu in tal senso importante il concilio di Melfi del 1089, quando all’obbedienza di Urbano II passarono i vescovi delle regioni meridionali, greci o latini che fossero. Nel secolo seguente, il XII, dopo l’organizzazione generale del territorio pugliese, cui diedero una sistemazione definitiva, i sovrani normanni completarono la geografia delle sedi vescovili, che è durata poi per sette secoli. Nelle parti meridionali della Puglia posero vescovi ad Alessano, Castro, Ugento, Gallipoli e Lecce, sotto la giurisdizione del metropolita di Otranto; a Mottola e Castellaneta sotto il metropolita di Taranto; a Ostuni e Monopoli, al centro della regione, sotto il metropolita di Brindisi; a Polignano Conversano, Bitetto Giovinazzo, Bitonto, Molfetta sotto il metropolita di Bari; a Bisceglie, Andria, Salpi, Minervino sotto il metropolita di Trani; a Gravina e a Irsina sotto la giurisdizione del metropolita di Acerenza. Nella Puglia settentrionale alla vasta giurisdizione di Benevento furono collegati i vescovi di Ascoli Satriano, Bovino, Volturara, Tertiveri, Montecorvino, Troia, Civitate, Venosa; infine a Vieste dipendente dalla sede metropolitana di Siponto. Insomma, veniva posto un vescovo accanto a ogni conte normanno e in ogni città costiera che veniva formandosi, anche per il fenomeno migratorio dalla campagna insicura alla costa fervida di traffici, soprattutto in Terra di Bari e in Capitanata. Conseguentemente all’istituzione delle sedi vescovili, si pose mano alla costruzione delle cattedrali, tra la fine del XI sec. e gli inizi del XIII: la Puglia divenne un grande cantiere, dalle cattedrali di Canosa (1071-1089) e di Otranto (1080-1088) alle ultime di Ruvo (1200), Altamura (1232) e Bitetto (1235). È un aspetto non secondario della storia delle città pugliesi, in cui tradizione e novità si unirono e si conservarono insieme: la devozione alle immagini dei santi ricordati nel calendario liturgico e la novità degli impianti architettonici, delle forme plastiche degli ornamenti lapidari portati da guerrieri e pellegrini. Quanto si vede ancora a Otranto è emblematico degli sviluppi dell’intera regione: a quattro passi dalla chiesa di San Pietro (forse cattedrale bizantina) i nuovi signori normanni vollero la grandiosa cattedrale consacrata nel 1098. E altrove, agli antichi santi inneggianti a Cristo, dai tratti orientali, si aggiunsero i santi dei conquistatori, che la gente cominciò a considerare anche suoi intercessori: il culto di san Michele arcangelo, sul Gargano, è espressione significativa di questa continuità arricchita di nuovi tratti. Non fu irrilevante, nell’organizzazione delle chiese vescovili compiuta dai normanni, la presenza dei monasteri. Alla fine del X sec. in Puglia erano assai numerosi e nell’area ionica della zona meridionale lo erano soprattutto quelli italo-greci, con una significativa concentrazione a Taranto, accanto a quelli di fondazione imperiale, intorno a Oria e intorno a Gallipoli. Come è stato osservato, in non pochi casi si tratta di fondazioni spontanee su iniziativa privata e di piccole entità che spesso non sopravvissero alle turbolenze dei decenni seguenti e furono poi donate alle fondazioni latine. Anche dopo la conquista normanna continuarono le fondazioni italo-greche, come quella di San Nicola di Casole nei pressi di Otranto, datata tra il 1089 e il 1093. È certo che i normanni favorirono i benedettini di Cava de’ Tirreni e di Montecassino, incrementandone così il numero, ad esempio a Taranto (1028) e a Brindisi (1058); i cavensi ebbero il numero più cospicuo di dipendenze nella parte settentrionale della Puglia. Una fondazione nuova e autoctona fu quella di Giovanni di Matera (†1139), sul Gargano, a Pulsano: all’indole eremitica le aspre pendici del Gargano offrirono modalità di severa austerità e di isolamento dal mondo delle città; una fondazione monastica che tanto fascino esercitò nei dintorni ma anche in lontane contrade d’Italia. Nel XII sec. la regione venne così caratterizzata dalla compresenza di esperienze e di tradizioni diverse. Monaci italo-greci e monaci latini di tradizione cavense e cassinese vennero a convivere nelle stesse province, in mezzo a popolazioni anch’esse variegate nei loro riti e tradizioni, con vescovi latini e chiese con evidenti segni delle tradizioni greche: tratti di quell’unico ecumene cristiano del Mediterraneo medievale, dove si protendevano le regioni meridionali d’Italia. Rimane ancora da studiare in maniera completa e approfondita l’organizzazione delle comunità cristiane, del loro clero e dei fedeli; in particolare le modalità della prassi pastorale, espressa nei repertori iconografici pervenutici (come quelli degli insediamenti rupestri dell’area ionica e adriatica) e nelle migliaia di pergamene edite e inedite conservate negli archivi capitolari e vescovili. Da quel poco che si conosce si può dire che anche nelle province pugliesi era in vigore il carattere privato delle istituzioni ecclesiastiche e monastiche, secondo le modalità dell’organizzazione feudale del territorio e dei poteri. Le numerose bolle papali configuravano, anche da queste parti, il vescovo come dominus ecclesiarum. Su questa realtà istituzionale la monarchia normanna e quella sveva successiva esercitarono una significativa autorità, con prassi e provvedimenti generali quasi anticipatori di forme di governo centrale e di organizzazione regia, come quella di Federico II (1231) in Puglia con i suoi rappresentanti nella Terra di Otranto, nella Terra di Bari, nella Capitanata. Dai loro porti partivano e arrivavano pellegrini e mercanti e da Brindisi, Taranto e Trani anche soldati, tutti diretti o rientranti dalle spedizioni verso Oriente, dove il paese delle origini cristiane e Gerusalemme esercitarono attrattive religiose impastate di altre motivazioni e di altri interessi. In questo contesto si sviluppò ulteriormente il santuario di San Michele sul Gargano e si affermò la basilica di San Nicola di Bari; si insediarono inoltre quelle nuove forme di sequela Christi rappresentate dai frati mendicanti di Francesco d’Assisi e di Domenico di Guzman. Dei primi si conosce fra Lucas Apulus di Bitonto, nominato nel 1220 da san Francesco ministro provinciale per i luoghi santi; egli proveniva dalla provincia Apuliae, la quinta delle undici costituite nel 1217. Dei domenicani un primo pugliese è il beato Nicola Paglia di Giovinazzo (1256) e loro primi insediamenti furono quelli di Trani (1221) e di Lucera (1233–1234) ai quali si aggiunsero quelli di Brindisi (1238) e Barletta (1238). Le loro chiese, come quella di Santa Croce dei domenicani di Brindisi, divennero centro di vita religiosa nuova, essenzialmente incentrata nella predicazione e nell’amministrazione dei sacramenti; come nuovo divenne il loro modo di vivere tra le popolazioni cittadine, diverso da quello dei canonici delle cattedrali e dei monaci. A questi due ordini si aggiunsero più tardi, meno numerosi, i carmelitani e gli agostiniani. Questi frati non rimasero estranei ai contrasti dei papi con Federico II, ad esempio a Lucera, e a quelli con il clero locale a Barletta e a Brindisi. La loro mobilità da un convento all’altro costituisce un elemento dinamico nelle società cittadine e locali, sia dal punto di vista religioso e pastorale, come pure in ordine alla cultura e alle creazioni monumentali. Si pensi, ad esempio, agli studi dei domenicani di cui ci sono date precise notizie per Trani e Barletta e alla splendida chiesa francescana di Santa Caterina di Galatina, della fine del XIV sec. Senza dimenticare che dai conventi dei mendicanti, spesso, furono tratti i vescovi per le varie diocesi della regione nel XIII-XIV sec. e in quelli seguenti.II - Età moderna
Sulle istituzioni ecclesiastiche pugliesi si riflessero gli sviluppi complessivi della cristianità europea e dei rapporti di potere che si affermarono dal XV-XVI sec. Sui beni delle chiese cattedrali, parrocchiali e monastiche si impose l’autorità di singoli e di gruppi, quanto più sui territori si affermò quella dei re di Napoli o di grandi principi che assegnarono le città a baroni e aristocratici. Il controllo di tutti costoro divenne sempre più esigente, quanto diventavano redditizie ai papi lontani le loro tasse beneficiali. Le città pugliesi che riuscirono a farsi riconoscere i loro ordinamenti richiesero costantemente il «privilegio » che i benefici ecclesiastici fossero assegnati a chierici cittadini o del luogo. Quando ai vertici ecclesiastici si aprì la crisi di autorità chiamata scisma occidentale, alla cui origine ci fu Bartolemo Prignano, arcivescovo di Bari dove peraltro non ha lasciato tracce della sua permanenza, la situazione divenne assai difficile. Le obbedienze ai diversi papi, che pretendevano di essere le massime detentrici della legittima autorità ecclesiastica, per un quarantennio (1378-1417) frantumarono l’unità della cristianità europea, almeno nei suoi aspetti istituzionali, e produssero disordine e contrapposizioni nelle nomine dei titolari delle sedi vescovili e nelle assegnazioni dei patrimoni delle istituzioni ecclesiastiche. Re e principi locali provarono a porvi rimedio, iniziativa che in verità giovò più all’affermazione della loro autorità, che a rivitalizzare gli ecclesiastici bisognosi di ripresa. Così avvenne in Puglia per opera dei grandi principati, come quello degli Orsini di Taranto che si andavano affermando all’interno del Regno di Napoli dissanguato dai contrasti dinastici degli angioini, fino a quando, con l’occupazione aragonese alla fine del XV sec., Ferdinando il Cattolico ottenne il diritto di nominare i vescovi di tutte le sedi del Regno. Nelle province pugliesi si riversavano frattanto gruppi di profughi dai Balcani in fuga dai turchi che alla fine del XIV sec. avanzavano in quelle regioni, particolarmente gruppi di cristiani albanesi che trovarono sistemazione nelle contrade del Tarantino. I rapporti tra le due sponde adriatiche si infittirono e fino al XVI sec. maestranze di costruttori operarono nelle città della costa barese, come a Mola di Bari. La minaccia turca dopo la caduta di Costantinopoli (1453) suscitò la devozione alla Madonna di Costantinopoli. Fu tragedia nel 1480, quando i turchi di Maometto II sbarcarono ad Otranto, nonostante la difesa di centinaia di cristiani che resero testimonianza della loro fede fino alla morte. La devastazione si diffuse nella penisola salentina dove i turchi, per circa un anno, compirono scorrerie di ogni genere, fino a quando furono costretti a ritirarsi. Nelle complesse vicende dinastiche che precedettero la definitiva sistemazione della Puglia, insieme con le altre province napoletane, nel dominio di Carlo V, tre fatti sono di rilievo: l’occupazione di alcune città costiere, da Trani a Gallipoli, da parte della Repubblica veneta, che originò significativi fatti culturali e devozionali; lo sviluppo di aristocrazie locali nelle città le cui sedi vescovili divennero appannaggio di alcune famiglie o di eminenti ecclesiastici che le riservavano poi a familiari o dipendenti, nel più ampio contesto della crisi beneficiale e dello sviluppo delle commende; infine il concordato di Barcellona del 1529, con il quale alcune sedi vescovili furono riservate alla diretta nomina papale. In virtù di quest’ultimo rimasero sotto il diretto controllo della corona sei delle dodici sedi di Terra d’Otranto (quelle metropolitane di Taranto, Brindisi e Otranto e quelle vescovili di Gallipoli, Ugento e Mottola) e quattro delle diciotto di Terra di Bari (Trani, Matera, Giovinazzo e Monopoli): dieci sedi su ventiquattro dell’intero Meridione di cui Carlo V acquisì il diritto di nomina dei vescovi si trovavano nelle province pugliesi. Questa situazione concordataria non ebbe risultati immediati, ma cominciò ad essere operativa nella seconda metà del secolo, con Filippo II, che si avvalse delle sue prerogative e nominò, in genere, buoni vescovi «tridentini». Nel corso dei secoli del rinnovamento tridentino l’episcopato delle tre «terre» pugliesi divenne residente e, pertanto, legiferante: è rilevante il lavoro compiuto con le visite pastorali, anche se non fu notevole il risultato per lo sviluppo delle forme e della modalità educativa del clero, tante furono le difficoltà per l’istituzione dei seminari e tanto stentata fu la loro attività e durata. In compenso, grande fu il sostegno dei vescovi alla diffusione dei «nuovi» chierici regolari, quelli di recente istituzione, come teatini, gesuiti e, più tardi, vincenziani. Particolare significato assunse la presenza dei gesuiti nelle città e nei centri minori quella dei cappuccini. Questi si attestarono a Rugge presso Lecce, intorno al 1530, e a Taranto, Gravina, Laterza, Grottaglie e Mesagne negli anni seguenti (1533- 1539), chiamati dai signori del luogo o da pubbliche autorità o da singoli benefattori, e si diffusero tanto che, come è stato scritto, «verso la fine del Cinquecento non c’era in Puglia un centro abitato di una certa consistenza nel quale non fosse presente un convento cappuccino»; nel 1755 in Terra di Bari si contavano 29 conventi con 528 frati e in Terra d’Otranto 33 conventi con 610, raggruppati in due province, quella di San Nicola di Bari e quella di Sant’Angelo o di Foggia. I gesuiti arrivarono a Lecce nel 1574, guidati da san Bernardino Realino, e istituirono un collegio nel 1583; a Cerignola rimasero dal 1578 al 1592, a Bari aprirono il collegio nel 1583, a Barletta nel 1592, a Bovino dal 1605 al 1637, a Molfetta nel 1618 dopo sette anni di residenza, a Monopoli nel 1613, a Taranto nel 1624 dopo sette anni di residenza, infine nei secoli seguenti a Brindisi nel 1753; residenze rurali ebbero a Orte Nova, Sarno, Terlizzi, Torre Santa Susanna e stazioni missionarie a Ostuni, Manduria e Troia: una geografia ristretta quella dei gesuiti fino alla soppressione del 1767 e alla loro espulsione dalle regioni meridionali, ma la loro presenza culturale e pastorale nelle famiglie aristocratiche e la loro attività missionaria e benefica tra la gente semplice fu enorme. Pure i vincenziani di provenienza francese operarono in questa direzione. Ai primi del XVIII sec., a Deliceto, Alfonso Maria de Liguori diede forma organica ai suoi amici «redentoristi» per l’evangelizzazione delle popolazioni rurali. Intorno alle chiese e alle case dei regolari antichi e nuovi, i laici si aggregarono nelle confraternite di devozione e di carità. Questi confratelli, i clerici del luogo, i vescovi e i regolari avviarono una fervida stagione artistica, con costruzioni di chiese nuove e ammodernamenti delle antiche, riempite di altari famigliari e di gruppi laicali e clericali, secondo le evoluzioni della pietà cristiana e gli sviluppi liturgici. Una vera e propria civiltà figurativa e architettonica che si rese evidente nella crescita delle città e nella loro trasformazione e configurò la chiesa matrice come il centro ideale di identità della società cristiana dei singoli luoghi abitati. Se quello di Lecce è un caso esemplare, è analoga la vicenda di Martina Franca e di centinaia di altre località in questi secoli post-tridentini. La cura delle anime divenne una preoccupazione costante dei vescovi e dei ceti dirigenti delle città, ma non trovò nella parrocchia affidata a un parroco la sua concreta traduzione istituzionale. Sono note le istituzioni delle parrocchie nella Bitonto di Cornelio Musso e quelle del visitatore apostolico Perbenedetti a Lecce, o quella del piccolo borgo di Gemini istituita nel 1649 dal vescovo ugentino Agostino Barbosa. Ma sono eccezioni: nelle città il problema rimase irrisolto fino a gran parte del XIX sec. In questo contesto di esigenze e di evoluzioni dei corpi ecclesiastici si colloca la politica di riforme intrapresa dall’aristocrazia nelle singole città e poi dai monarchi borboni che si insediarono nel Regno napoletano negli anni Trenta del XVIII sec. Non si possono semplicemente affermare ragioni di giurisdizione sovrana nell’impegno di questi re e dei loro ministri, quando ridimensionarono il privilegio degli ecclesiastici, dei loro beni e dei loro luoghi, come avvenne con il concordato del 1741; ma si può pure riconoscere la volontà di disciplinare e migliorare la condizione del clero numeroso e spesso pletorico e incentivarne l’attività pastorale. Grande significato ebbe il rilancio dei seminari vescovili, che erano stati istituiti nel corso del secolo precedente qua e là, ma di fatto non avevano funzionato secondo la proposta tridentina. Nel contesto delle riforme in cui i sovrani coinvolsero i vescovi, la riorganizzazione di quei collegi di formazione del clero, con percorsi educativi e con precisi forogrammi di istruzione, diventò un evento presente in numero crescente di diocesi, talvolta con situazioni di notevole apertura, come a Taranto con l’arcivescovo Giuseppe Capecelatro, alla fine del secolo.III - Età contemporanea
La politica di riforme dei sovrani borbonici e l’azione promozionale dei vescovi trovarono alimento nelle numerose iniziative culturali che videro protagonisti ecclesiastici ed esponenti dell’aristocrazia e dei nuovi ceti emergenti: le accademie di varia denominazione dentro le quali si dibatterono le nuove idee che circolavano in Europa, filoni giansenistici, dottrine naturalistiche, esperienze scientifiche, teorie politiche spesso riconsideravano i principi fondanti della cristianità, distinguendo l’essenziale del cristianesimo dalle forme storiche in cui si erano realizzate istituzioni ecclesiastiche e modalità di vita religiosa. Le diocesi pugliesi furono coinvolte in questa temperie culturale e politica. La crisi dei rapporti tra Santa Sede e corte napoletana si concluse nel 1792 quando si addivenne alla nomina regia di tutti i vescovi e un po’ ovunque si concluse un primo periodo di sedi senza vescovo. In seguito il periodo rivoluzionario del 1799 compromise i faticosi equilibri politici e spesso l’albero della libertà nelle piazze dei paesi fu impiantato da ecclesiastici: un esempio per tutti sono i fatti di Altamura. Il decennio francese sottopose la condizione ecclesiastica e la vita religiosa delle popolazioni a rapide trasformazioni: la chiusura delle case dei regolari, soprattutto, e il tentativo di riorganizzare i vescovati della regione. Di fatto si aprì un periodo di scompiglio generale che nell’assenza dei vescovi espresse la sua maggiore evidenza: diocesi senza vescovi furono dirette da vicari capitolari e poi affidate al controllo dei vescovi vicini. Furono queste le premesse favorevoli alla sistemazione moderna delle diocesi, che Pio VII diede con la bolla De utiliori Dominicae del 27 giugno 1818, conseguente al concordato del febbraio: le diocesi pugliesi diminuirono sensibilmente, furono quasi dimezzate, sia per la soppressione pura e semplice di alcune, sia per l’unione di altre. Nella Capitanata fu soppressa Volturara-Montecorvino e incorporata a Lucera; Vieste fu unita a Manfredonia in perpetua amministrazione. In Terra di Bari furono soppresse Minervino, Bitetto, Polignano e Lavello e incorporate, rispettivamente, ad Andria, Bari, Monopoli e Venosa; inoltre Bisceglie fu unita in perpetua amministrazione a Trani, Bitonto a Ruvo, Gravina a Irsina, Giovinazzo e Terlizzi a Molfetta; vennero infine conservate l’arcipretura nullius di Altamura e il priorato di San Nicola di Bari. In Terra d’Otranto furono soppresse Mottola, Castro, Alessano e Ostuni annesse, rispettivamente, a Castellaneta, Otranto, Ugento e Brindisi. Tale riorganizzazione subì dei ritocchi, durante i decenni seguenti, che valsero a ripristinare la situazione anteriore. Nel 1819 fu istituita la diocesi di Cerignola e fu unita ad Ascoli, nel 1821 fu ripristinata l’autonomia della diocesi di Ostuni che fu unita a Brindisi; nel 1836 avvenne lo stesso per Giovinazzo e Terlizzi unite a Molfetta; nel 1848 Acquaviva delle Fonti fu costituita prelatura nullius e unita alla prelatura di Altamura; nel 1855 Foggia fu costituita diocesi e separata da Troia; infine nel 1860 fu istituita l’arcidiocesi di Barletta, unita in perpetuo a Trani. Vale a dire che alla fine del Regno delle Due Sicilie e alla vigilia dell’unificazione nazionale le diocesi erano trentadue con venticinque vescovi. Il concordato del 16 febbraio 1818 saldò, per un verso, lo stretto rapporto tra monarchia restaurata e i nuovi vescovi tutti nominati dal re; per altro verso, determinò l’imposizione della religione socialmente utile, espressa dalle sue istituzioni, prime fra tutte i seminari vescovili e le parrocchie. Questi equilibri faticosamente perduranti per un trentennio non impedirono la penetrazione di idee originata nelle «sette» e nei «circoli», né risparmiarono le diocesi pugliesi dalle ondate della cultura della libertà che nel 1848 produsse la rivoluzione costituzionale e, più tardi, nel 1860-1861 l’unificazione nazionale e l’unione delle regioni meridionali al nuovo Regno d’Italia. In questo contesto le passioni politiche coinvolsero il clero e i regolari, con spaccature e contrapposizioni tra «legittimisti» e nazionalisti. I vescovi si trovarono a operare con difficoltà: in gran parte fedeli all’antica dinastia subirono restrizioni e si allontanarono dalle loro sedi (come quelli di Andria, Ugento, Bari, Foggia, Oria); pochi accettarono il nuovo corso degli eventi nazionali (come il Caputo di Lecce e il Mucedola di Conversano). Ma più vasto fu il fenomeno della negazione dell’assenso alla nomina dei vescovi delle sedi rimaste vacanti o al loro ingresso nelle diocesi. Quanto questa situazione, fortemente movimentata, abbia inciso sulla vita pastorale e sugli sviluppi della vita religiosa delle popolazioni non è stato ancora sufficientemente analizzato. Non vi è dubbio, però, che l’incameramento dei beni ecclesiastici da parte dello Stato nazionale, la demanizzazione degli edifici dei regolari soppressi e la laicizzazione dell’assistenza e dell’istruzione ebbero conseguenze nocive, anche se, in molti casi, le chiese furono lasciate aperte al pubblico culto e alla devozione dei fedeli. È superficiale dire che l’intransigenza prevalente dei cattolici pugliesi nei confronti dello stato liberale non produsse, però, vivace immersione nel paese reale, se si considera la vicenda delle diocesi pugliesi negli ultimi decenni del XIX sec. e nei primi anni del secolo seguente dal punto di vista del coinvolgimento organizzativo dell’Opera dei congressi e dei comitati diocesani. Diversa era la caratterizzazione delle chiese pugliesi, nelle quali diffusa era la forma dell’associazionismo delle confraternite con la sua tipica pietà popolare e forte era il ruolo aggregante della chiesa matrice per il clero locale. Eppure i nuovi orientamenti maturati dalle indicazioni di Leone XIII diedero origine a tanti circoli culturali che affrontarono i termini della nuova collocazione in cui cultura e società ponevano il cristiano e la sua fede, e per altro verso esploravano il potenziale del cristianesimo che andava immesso nelle trasformazioni del paese. È emblematica la vicinanza cronologica del congresso nazionale dell’Opera dei congressi che si svolse a Taranto nel 1901 e il congresso della Democrazia cristiana del 1902 nel barese. Da qui ebbe origine il giornalismo cattolico pugliese, del quale si attende una visione storica complessiva. Alla generazione dei vescovi intransigenti seguì quella dei vescovi che, per fare i pastori, superarono le contrapposizioni e puntarono sul clero e sul rinnovamento della sua pastorale, sulla promozione del laicato, da Carlo Mola di Foggia a Luigi Pugliese di Ugento e a Giulio Vaccaro di Bari. Nelle città in crescita e nei loro territori si collocarono le religiose delle più diverse titolazioni, che inventarono le scuole per le donne e per l’educazione professionale delle categorie più umili; sarà questo un filone di sviluppo che caratterizzerà il XX sec. in Puglia, con gli arricchimenti che quelle comunità religiose portarono nelle popolazioni con la loro spiritualità e con le loro tipiche forme di pietà. Ma la preoccupazione principale dei vescovi fu la creazione di un nuovo clero spiritualmente educato al ministero e culturalmente preparato. Le visite apostoliche dei primi anni del pontificato di Pio X misero a fuoco il problema dei seminari diocesani e della loro capacità di soddisfare le attese. L’istituzione del seminario regionale a Lecce, affidato ai gesuiti, nel 1908, fu il sostegno concreto del pontefice romano ai bisogni delle diocesi pugliesi delle quali si cominciava a rilevare la debolezza strutturale per un’azione moderna. Un nuovo clero cominciò a delinearsi con il passare dei decenni: ciò convinse i successori, Pio XI soprattutto, a rafforzare la nuova sede di Molfetta, dove il seminario regionale era stato trasferito nel 1915: papa Ratti fece costruire nel 1926 il nuovo e grandioso edificio. L’incidenza storica di questa istituzione educativa si può considerare fondamentale per lo sviluppo della Puglia cattolica contemporanea, almeno per quanto riguarda il clero e la sua attività pastorale. Il seminario regionale divenne pure il punto di convergenza dell’episcopato pugliese. Le sue riunioni iniziate nel 1892 divennero annuali a partire dagli anni Venti. Dopo la pubblicazione del Codice di diritto canonico nel 1917 il concilio plenario pugliese del 1928 segnò quasi il configurarsi regionale dell’episcopato, sia pure limitato alla disciplina ecclesiastica. A dimensioni regionali frattanto si andava sviluppando pure l’Azione cattolica nei suoi vari rami, e il laicato moderno che essa esprimeva veniva formato all’interiorizzazione della vita cristiana e all’azione pastorale nelle parrocchie. I decenni posteriori alla prima guerra mondiale e al concordato del 1929 furono caratterizzati proprio dall’affermazione della centralità delle parrocchie, come sede mononucleare dell’attività pastorale: se ne moltiplicarono nei centri maggiori e nelle città capoluoghi di provincia, con oratori parrocchiali; in numero crescente furono affidate ai moderni e antichi ordini religiosi, in particolare a Bari, Foggia, Lecce e nei nuovi capoluoghi di provincia istituiti negli anni Venti a Brindisi e Taranto. Fenomeno che si andò incrementando nel cinquantennio seguente, con innegabili effetti positivi sulla vita religiosa delle popolazioni e con conseguenze pure sulla qualità della presenza delle comunità di consacrati nel concreto della pastorale diocesana e cittadina. L’orizzonte parrocchiale diventò il più netto carattere della condizione del clero e lo spazio operativo dei laici educati nell’Azione cattolica fino agli anni seguenti il concilio Vaticano II. Anche i vescovi pugliesi dovettero gestire la condizione del clero e dei fedeli durante il ventennio fascista. I vantaggi giuridici che derivavano dal concordato del 1929 non allontanarono tutti i rischi per la qualità della vita cristiana e in particolare per l’ideologia che il regime esprimeva e andava realizzando. I vescovi, durante la guerra di Etiopia e di Spagna, non rinunciarono a inquadrare quegli avvenimenti nel più ampio contesto della storia del cristianesimo del secolo; e il «patriottismo » espresso con toni più o meno convinti si appannò, non tanto quando furono pubblicate le leggi razziali, quando invece gli sviluppi della seconda guerra mondiale si manifestarono negativi e catastrofici. Infatti anche la regione pugliese fu coinvolta tragicamente: vi erano la grande base militare marittima di Taranto e i grandi porti di Brindisi e di Bari, nonché gli aeroporti militari di Brindisi e di Foggia e l’importante nodo ferroviario di Foggia. Cominciano oggi a diventare noti i detenuti politici nelle varie carceri pugliesi e i campi dei profughi ebrei come quello di Santa Maria al Bagno presso Nardò, accanto agli episodi dell’arcivescovo Petronelli di Trani e di altri che si contrapposero allo sviluppo della violenza tra le popolazioni negli anni 1943-1945. L’arcivescovo Marcello Mimmi, nel 1943, scrisse ai diocesani baresi: «Forse avremmo dovuto parlare di più». Anche in Puglia i cattolici (come Aldo Moro e altri) guidati dai vescovi furono coinvolti nell’impegno di ricostruire il paese e di riorganizzare la democrazia sulla costituzione repubblicana: una scelta di civiltà e una forte proposta di valori per lo sviluppo del paese che, però, politicizzarono la vita cristiana e l’attività pastorale e cattolicizzarono l’attività politica, con le conseguenti lacerazioni del tessuto sociale delle comunità. In Puglia il socialismo aveva una non breve esperienza e i partiti che lo esprimevano politicamente non erano minoranza insignificante: questi orientamenti caratterizzarono alcune aree della Capitanata. In questa provincia, frattanto, si andava sviluppando quel movimento religioso originato da san Pio da Pietrelcina con la sua esperienza mistica spirituale e con le sue iniziative caritative e sanitarie, a poca distanza dal santuario di San Michele sul Gargano. Contemporaneamente vennero rilanciati i santuari dell’Incoronata presso Foggia, di San Nicola a Bari, dei Santi Medici a Bitonto e a Oria, di Santa Maria di Leuca: ciascuno con proprie peculiarità si è imposto come centro di aggregazione e meta di pellegrinaggi provinciali e regionali. Non va sottaciuta la stagione di architettura parrocchiale che si avviò in tutta la regione grazie ai contributi statali delle leggi del 1952 e del 1962: di questo fenomeno bisogna cominciare a valutare gli aspetti culturali, artistici e pastorali, come si è avviato nelle diocesi di Otranto, Nardò, Lecce e Bari. In questo contesto un ruolo crescente e grande valore ha assunto a partire dagli anni Cinquanta la Conferenza episcopale pugliese, guidata dal 1953 al 1973 da Enrico Nicodemo, arcivescovo di Bari, e dal 1973 al 1987 da Guglielmo Motolese, arcivescovo di Taranto. L’episcopato pugliese ha sviluppato la sua energia coesiva nei decenni del concilio Vaticano II e soprattutto negli anni seguenti, con trasformazioni originate dai suoi orientamenti: si è avuta una riorganizzazione strutturale che ha riguardato le diocesi e le province ecclesiastiche. Nel corso degli anni Settanta- Ottanta si verificarono tentativi diversi per procedere alla riduzione del numero delle diocesi: affidamenti di alcune in amministrazione apostolica a vescovi di diocesi vicine, nomina di titolari di più diocesi, trasferimenti di ruoli provinciali a sedi di città divenute centro di provincia civile (Lecce). Come si è detto, il 30 aprile 1979 fu costituita la provincia ecclesiastica di Foggia e il 20 ottobre 1980 furono ridisegnate le province ecclesiastiche di Bari e di Lecce. Infine il 30 settembre 1986 la congregazione dei vescovi ristrutturò l’organizzazione delle diocesi pugliesi: la novità fu rappresentata da quella di Altamura- Gravina-Acquaviva delle Fonti. È impossibile richiamare, sia pur sinteticamente, l’opera di raccordo e di stimolo compiuta dalla Conferenza episcopale pugliese nell’ultimo cinquantennio. Basta elencare alcuni avvenimenti significativi come la fondazione dell’Istituto pastorale pugliese (17 novembre 1966), l’assunzione di ogni responsabilità direttiva e amministrativa del seminario regionale maggiore di Molfetta (1 luglio 1968), la fondazione dell’Istituto superiore di teologia ecumenica «San Nicola» a Bari (1° ottobre 1968), il «Notiziario delle Chiese di Puglia» (1973) e l’«Annuario delle Chiese di Puglia » (1975), gli incontri formali e gli accordi con le autorità della Regione Puglia (1972-1976), le tante iniziative per soccorrere le popolazioni terremotate dell’Irpinia (1980), il centro di pastorale ecumenica (maggio 1983), la lettera collettiva dei vescovi del Natale 1984 dal titolo La Chiesa di Puglia: oggi e domani, le visite in Puglia di Giovanni Paolo II degli anni Ottanta, dopo la prima del 1968 di Paolo VI a Taranto, l’istituzione dell’Istituto superiore di scienze religiose a Molfetta (1986) e l’aggregazione dell’Istituto teologico pugliese alla Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale (24 giugno 1992), le molteplici iniziative per affrontare lo sbarco di decine di migliaia di albanesi sulle coste pugliesi, i convegni ecclesiastici regionali su Crescere insieme in Puglia (Bari 29 aprile-2 maggio 1993) e La vita consacrata in Puglia (Martina Franca, 30 aprile-2 maggio 1998); il possesso dell’edificio del seminario regionale di Molfetta (28 ottobre 1993) e infine la dotazione per la voluta istituzione della Facoltà teologica pugliese (20 giugno 2005). Si aggiungono poi la riscoperta dei beni culturali delle comunità cristiane e della loro vicenda, le innumerevoli iniziative di volontariato, più o meno grandi e più o meno note; la vivace sensibilità missionaria delle diocesi che ha trovato espressione nelle vocazioni religiose maschili e femminili, nonché nei gemellaggi di comunità pugliesi con diocesi e parrocchie nei vari continenti con la realizzazione di opere concrete di evangelizzazione e promozione umana. Il mondo dei consacrati, infine, ha avuto un ruolo notevole nella vita religiosa e pastorale della regione: lo ha reso visibile il menzionato convegno del 1998 e l’Atlante pubblicato per la circostanza. Il contributo dei religiosi è fondamentale nelle città pugliesi con la direzione delle parrocchie e nel territorio con le loro molteplici attività educative e assistenziali. Tra i tanti, si pensi alle salesiane dei Santissimi Cuori di san Filippo Smaldone per gli audiolesi e normaudenti, a Lecce, e alla Casa della Divina Provvidenza per i malati di mente, di don Pasquale Uva, a Bisceglie. Di particolare significato sono gli istituti dei laici consacrati che si sono diffusi nelle diocesi e quelli di origine pugliese come «Vivere in», fondato a Trani da don Nicola Giordano. Un evento qualificante è stata l’istituzione dello Studio teologico interreligioso «San Fara», a Bari, nel 1974. Tutti questi avvenimenti, ciascuno a suo modo, hanno espresso una crescita culturale nelle diocesi e, a loro volta, hanno aperto piste ulteriori di sviluppo, nel contesto dell’azione promozionale della Conferenza episcopale italiana, e hanno segnato linee di programmazione pastorale per una Puglia anch’essa in trasformazione, in cui si avvertono fortemente i processi di secolarizzazione e l’urgente bisogno di nuova evangelizzazione. In questi scenari di cambiamento lo stile pastorale del vescovo molfettese Antonio Bello (1982-1993) e la spiritualità dell’arcivescovo barese Mariano Andrea Magrassi (1977-1999) nonché la scoperta di santi, preti come Ugo De Blasi (1918-1982) di Lecce e Raffaele di Miccoli (1887-1956) di Barletta, laici come Giovanni Modugno di Bari (1880-1958), diventano una proposta e una provocazione per i cattolici pugliesi alle soglie del terzo millennio.Bibliografía
EC X 306-314;Puglia, EI XXVIII, 505-523;
C. D. Fonseca, Civiltà rupestre in terra jonica, Milano-Roma 1970;
Alle sorgenti del romanico. Puglia XI secolo, a c. di P. Belli d’Elia, Bari 1975;
V. von Falkenhausen, La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal IX all’XI secolo, Bari 1978;
Civiltà e culture in Puglia, 4 voll., Milano 1979-1982;
Cronotassi, iconografia e araldica dell’episcopato pugliese, Bari 1984;
Le confraternite pugliesi in età moderna, 2 voll., a c. di L. Bertoldi Lenoci, Fasano 1988;
Storia d’Italia. Le regioni dall’unità ad oggi. La Puglia, a c. di L. Maselli-B. Salvemini, Torino 1989;
G. Otranto, Italia meridionale e Puglia paleocristiana. Saggi storici, Bari 1991;
Confraternite arte e devozione in Puglia, a c. di C. Gelao, Napoli 1994;
Vescovi e regione in cento anni di storia (1892-1992), Raccolta di testi della Conferenza episcopale pugliese, a c. di S. Palese- F. Sportelli, Galatina 1994;
Atlante degli ordini, delle congregazioni e degli istituti secolari in Puglia, a c. di A. Ciaula-F. Sportelli, Modugno 1999;
Conferenza episcopale pugliese-Istituto Pastorale, Annuario delle Chiese di Puglia 2006, Monopoli 2006.
Se muestra sólo edificios en relación a los cuales se dispone de una georeferenciación exacta×
Cargando el mapa...
Mappa
Regiones eclesiásticas
FUENTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.