Regione ecclesiastica Piemonte
STORIA
I - Le origini in epoca post-costantiniana
Le prime Chiese della regione sorsero nel tardo Impero romano, successivamente a quelle del resto dell’Italia annonaria, come Milano e Aquileia. Dalle ventisette sottoscrizioni di vescovi o di loro rappresentanti alla lettera del vescovo di Milano Eusebio a Leone Magno dal sinodo provinciale milanese del 451 risultavano nella regione pedemontana le Chiese di Ivrea (vescovo Eulogio), Tortona (Quinto), Aosta (Eustasio), Torino (Massimo II), Asti (Pastore), Vercelli (Giustiniano) e Novara (Simpliciano). Il vescovo Lampadio di Alba nel 499 partecipò a un concilio romano sotto papa Simmaco. Probabilmente tra la fine del IV e l’inizio del V sec. sorse Acqui. Alcune diocesi risalgono certamente al IV sec. Nel 398, anno del concilio dei vescovi delle Gallie tenuto a Torino, era presente in città il vescovo Massimo; suo contemporaneo fu Gaudenzio, primo vescovo di Novara; il vescovo di Tortona Esuperanzio partecipò nel 381 al concilio di Aquileia. Scavi archeologici inducono a collocare la Chiesa di Aosta nella seconda metà del IV sec. Infine il sardo Eusebio, ordinato vescovo nel 345, fu mandato da Roma a Vercelli, probabilmente su richiesta della stessa comunità cristiana vercellese: è considerato il primo vescovo della regione. Sedi vescovili erano città già sedi di municipia romani, dove era arrivato il cristianesimo, come dimostra tra l’altro la lettera indirizzata da Eusebio di Vercelli dall’esilio di Scitopoli nel 356 (o tra il 355 e il 360) plebibus Vercellensibus, Novariensibus, Hipporegiensibus, nec non etiam Derthonensibus. Il culto dei martiri torinesi (Solutore, Avventore e Ottavio) al tempo di san Massimo prova l’esistenza di cristiani nella regione già nel III sec. Per completezza, si ricorda la posizione sostenuta nel 1905 da Felice Alessio, rimasta isolata. A suo parere sarebbero state sedi episcopali gli antichi municipia romani di Ivrea, Industria, Chieri, Pollenzo, Cavour e Susa, poi assorbite dalla diocesi di Torino. Alla caduta dell’Impero d’Occidente nel 476 seguì l’invasione gotica; dopo il 568 la regione fu organizzata in ducati longobardi, come Torino, Asti, Ivrea, e dopo l’invasione dei franchi di Carlo Magno nel 773 in comitati governati da conti, coordinati alla fine del millennio nelle grandi marche come l’arduinica (Torino e Ivrea) a nord e l’aleramica (Savona-Acqui) a sud. Poco si conosce di questo lungo periodo di sconvolgimenti. La fluidità dei confini diocesani tra Italia e Francia è confermata dall’appartenenza altalenante della valle di Susa alle diocesi di Torino e di Maurienne. La diffusione del monachesimo benedettino portò alla fondazione delle abbazie della Novalesa nel 726 e di Lucedio negli stessi anni. Tra la fine del IX e l’inizio del X sec. i saraceni minacciarono Asti, colpirono Alba e invasero le vallate alpine; gli ungari saccheggiarono Vercelli nell’899. Cominciarono a sorgere e a diffondersi le pievi: nell’Astigiano già nel IX sec., nel Novarese tra il IX e il X sec., nel Torinese dalla fine del X.II - Policentrismo politico nel basso Medioevo: nuove diocesi
La frantumazione del potere politico favorì il sorgere di nuove diocesi. Comparvero i Savoia, si imposero i marchesati di Saluzzo e di Monferrato. Per arginare la potenza di quest’ultimo Asti e Pavia si appoggiarono agli angioini; fiorirono i comuni di Torino, Asti, Alessandria, Chieri, Cuneo e Mondovì; infine Novara, Vercelli e Alessandria entrarono nell’orbita dei Visconti di Milano. Politicamente il Piemonte era un mosaico in movimento. Il fatto politico più importante, per i futuri influssi ecclesiastici, fu la nascita nel 1416, per volontà dell’imperatore Sigismondo, del Ducato di Savoia, che nel 1418 ereditò pure il Principato d’Acaja. In questo contesto politicamente policentrico e fluido sorsero le diocesi di Alessandria e di Mondovì. La fondazione della prima nel 1175 si colloca nel conflitto tra i comuni della lega lombarda e l’imperatore Federico I. Mondovì invece, eretta nel 1388, trasse origine dallo scisma d’Occidente: volendo sottrarsi ai vincoli feudali di Asti che era soggetta all’obbedienza avignonese, si schierò con Roma. Più politiche furono le ragioni che portarono alla nascita delle diocesi di Casale Monferrato nel 1474 e di Saluzzo nel 1511: furono istituite per volontà dei loro rispettivi marchesi, identificandosi territorialmente con i Marchesati del Monferrato e di Saluzzo. In ogni diocesi si rafforzò l’autorità del vescovo, sia pure controbilanciata da quella crescente dei capitoli delle cattedrali o contestata da abati: eclatante fu lo scontro giurisdizionale tra il vescovo di Torino Cuniberto e l’abate di San Michele della Chiusa nell’XI sec.; proseguì la diffusione delle parrocchie sul territorio, con il sorgere di prevosture e priorati. Il paesaggio ecclesiastico continuò a cambiare e ad arricchirsi di monasteri e di abbazie, soprattutto nelle campagne: benedettini, benedettine, cluniacensi, cisterciensi, certosini, certosine, camaldolesi, vallombrosani e antoniani incisero su ogni aspetto della vita della popolazione. Si fondarono le abbazie di San Michele della Chiusa, benedettina; Fruttuaria presso Ivrea, cluniacense; Staffarda presso Saluzzo, cisterciense; Lucedio nel Vercellese, cisterciense; Tiglieto nell’Acquese, cisterciense. E le certose: Pesio e Casotto nel Monregalese, San Benedetto nella valle di Susa, Mombracco nel Saluzzese. Numerosi furono gli eremi vallombrosani e soprattutto camaldolesi. L’ordine ospedaliero degli antoniani si diffuse in numerose precettorie, tra cui Sant’Antonio di Ranverso. Lo scisma d’Occidente (1378-1417), che divise la cristianità occidentale tra obbedienza romana e obbedienza avignonese, coinvolse anche le Chiese del Piemonte, in genere sulla base dell’appartenenza politica: i Savoia, nell’orbita francese, portarono Torino e Aosta all’obbedienza avignonese; i Visconti, che dominavano le zone meridionali e orientali della regione, aderirono all’obbedienza romana. Asti si sottomise ad Avignone. Il vescovo di Vercelli fu eletto ora da Avignone, ora da Roma. Lo scisma prodotto dal concilio di Basilea, che aveva eletto nel 1439 l’antipapa Felice V nella persona del duca Amedeo VIII di Savoia, fu superato dalla rinuncia dello stesso nel 1449, compensata dalla nomina al cardinalato e soprattutto dalla concessione nel 1451 ai duchi di Savoia da parte di Niccolò V del privilegio di proposta delle nomine di vescovi e abati.III - Epoca tridentina e post-tridentina
Per il Piemonte ecclesiastico e religioso il 1563 fu un anno carico di conseguenze: conclusione del concilio di Trento (1545- 1563) e trasferimento della capitale del Ducato di Savoia da Chambéry a Torino da parte di Emanuele Filiberto. Infatti la riforma tridentina si intrecciò profondamente con la politica ecclesiastica sabauda tra fine Cinquecento e inizio Seicento. I duchi Emanuele Filiberto (1553-1580) e Carlo Emanuele I (1580-1630), diversamente dal re di Francia, accettarono i decreti di riforma tridentini e collaborarono con i vescovi e con la Santa Sede per la loro attuazione. Tuttavia nella Savoia e in Valle d’Aosta, politicamente parti del Ducato omonimo, prevalsero gli usi della Chiesa gallicana, come anche nella diocesi di Saluzzo, sotto l’influsso politico francese, che impedì la visita apostolica della diocesi, inconcepibile secondo gli usi gallicani. La visita apostolica venne pertanto fatta soltanto alle altre diocesi piemontesi. Un ruolo positivo nella riforma venne pure svolto dai nunzi apostolici: nel 1560 era stata istituita la nunziatura di Torino, affidata al vescovo di Ginevra Francesco Bachod. I numerosi e potenti abati commendatari, appartenenti per lo più ai Savoia e all’aristocrazia piemontese, esercitarono invece un’azione di freno. Gregorio XIII nel 1582 incaricò il vescovo di Satriano e di Campagna, Gerolamo Scarampi, della visita apostolica alle diocesi di Torino, Vercelli, Asti, Aosta, Ivrea e Mondovì. Colto dalla morte dopo la visita alla diocesi monregalese, fu sostituito dal vescovo di Sarsina, Angelo Peruzzi. Vercelli fu visitata nel 1584 da san Carlo Borromeo. Carlo Montigli, arcivescovo di Amalfi, visitò nello stesso anno le diocesi di Acqui, Alba e Casale. Il 5 aprile 1592 venne istituita da Clemente VII la piccola diocesi di Fossano, stralciata da Asti e Torino. Non fu estraneo certamente Carlo Emanuele I, che nel 1622 progettò l’erezione di sei nuove diocesi corrispondenti a sei province: Cuneo, Savigliano, Ceva, Pinerolo, Susa, Biella. Per queste ultime tre il progetto avrà attuazione nel Settecento. Non poteva mancare la contestata interpretazione dell’indulto nicolaiano del 1451, che fu confermato da Gregorio XIII nel 1572 e da Clemente VIII nel 1595. L’ingerenza dell’assolutismo sabaudo non risparmiava nessun settore della vita della Chiesa. Carlo Emanuele I volle ad esempio che cappuccini e gesuiti si organizzassero in province autonome all’interno del Ducato. D’altra parte i due nuovi ordini citati erano le forze religiose privilegiate per le missioni antiprotestanti, soprattutto nel Saluzzese e nel Pinerolese, dove la diffusione dei riformati era notevole. Uno dei segni del lento, seppur stentato, miglioramento della cura animarum era l’imporsi della prassi della residenza da parte dei parroci, segnalata dalle relationes ad limina. Si impose una singolare espressione della religiosità popolare post-tridentina, quella dei Sacri Monti, che sorsero numerosi (ben dodici dal 1486 al 1775) per iniziativa soprattutto di francescani e quasi tutti nella fascia prealpina del Vercellese e del Novarese, gravitante ecclesiasticamente nell’orbita ambrosiana. I più noti: Varallo Sesia nel 1491 (frequentato da san Carlo Borromeo), Crea nel 1589, Orta nel 1590 e Oropa nel 1620. Non soltanto permettevano di recarsi idealmente in Terrasanta, ormai irraggiungibile dopo il 1453, ma costituivano un formidabile strumento di pietà popolare in funzione antiprotestante.IV - Assolutismo sabaudo, giansenismo e nuove diocesi nel Settecento
Nel frattempo, in Valle d’Aosta si affermava, per iniziativa dei vescovi di origine savoiarda, il particolarismo valdostano: se si adottava il francese come lingua della diocesi, si rivendicava la propria autonomia dalle altre province ecclesiastiche, sia in Francia sia in Italia; Aosta era una diocesi infra montes. Il lungo governo di Vittorio Amedeo II (1675-1730) fu caratterizzato da un prolungato conflitto giurisdizionale con la Santa Sede, vertente tra l’altro sulla ricchezza fondiaria e sulle esenzioni fiscali del clero. Rotture e ricomposizioni dei rapporti diplomatici furono ricorrenti nel Settecento. La rottura del 1701 causò prolungate vacanze di molte diocesi, tra cui Torino, Vercelli e Asti. Da sovrani illuminati, Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III (1730-1773) si occuparono della formazione del clero con vari strumenti: con la riforma dell'università di Torino nel 1729 (tra cui le facoltà di teologia e di diritto, dove si formava la classe dirigente ecclesiastica del Regno di Sardegna), l’istituzione della Con - gregazione di Superga nel 1730, dove dodici sacerdoti convittori, provenienti dalle varie diocesi del Regno, erano formati a compiti dirigenziali ecclesiastici; la creazione delle Conferenze di teologia morale pratica nel 1738. Anche questo spiega il filosabaudismo, le tendenze giurisdizionaliste e gli orientamenti antigesuitici di gran parte dell’episcopato sabaudo del Settecento e primo Ottocento. Furono preoccupazioni giurisdizionaliste a impedire la pubblicazione in Piemonte e Savoia della bolla Unigenitus del 1713 contro Quesnell. Dopo il 1750 si costituì tuttavia un’attività portorealista organizzata attraverso una rete di persone (quasi tutte ecclesiastici) e di corrispondenze epistolari, tra cui quelle del cardinal Delle Lanze (prima del passaggio dalla parte dei gesuiti), dove l’argomento dominante era la Compagnia di Gesù, ritenuta il maggior ostacolo alla riforma della Chiesa. Tra i vescovi, il più convinto e autorevole fautore del portorealismo fu il vescovo di Asti, Caissotti (1782-1786); su posizioni simili si trovarono Casati (1754- 1782) di Mondovì, Balbis-Bertone (1757- 1789) di Novara, Orlié de Saint-Innocent (1749-1794) di Pinerolo e Pochettini (1769- 1803) di Ivrea. Fautori dei gesuiti e del benignismo erano invece Roero (1744-1766) di Torino e Porporato (1741-1781) di Saluzzo. Contro la lettera pastorale del vescovo di Saluzzo del 30 dicembre 1772, nella quale si invitavano i confessori a seguire il benignismo e gli autori probabilisti, si pronunciarono pubblicamente sei vescovi del Regno sardo, che si firmarono nell’ordine: Orlié, Balbis Bertone, Caissotti, Astesan di Nizza, Morozzo di Fossano e Pochettini. Mancava la firma dell’arcivescovo di Torino, Rorengo di Rorà, che trasmise agli interessati il dispiacere del sovrano per quanto era accaduto. L’arcivescovo infatti, che pure non era favorevole ai gesuiti, apparteneva alla linea mediana, tra giansenisti e zelanti, tra rigoristi e benignisti, detta partito di mezzo, su cui confluiva la maggioranza dell’episcopato sardo-piemontese, che riteneva necessario conciliare nella pastorale le due esigenze evangeliche della serietà e della misericordia. L’anziano Porporato scrisse un’apologia, nella quale lamentava la divisione tra il clero e il di - sagio dei fedeli che si vedevano dilazionata l’assoluzione senza motivi proporzionati. Il giansenismo, tuttavia, fece breccia in alcuni teologi, docenti dell’università torinese, e pastori, tra fine Settecento e inizio Ottocento. Un evento politico incise in modo determinante sulle strutture ecclesiastiche della regione: con la pace di Aquisgrana del 1748 il confine orientale del Regno di Sardegna giungeva al Ticino, incorporando le diocesi di Novara, Vigevano e Tortona. In tal modo i confini politici, geografici ed ecclesiastici del Piemonte venivano a coin - cidere, pur essendo ancora Nizza e la Savoia appartenenti al Regno di Sardegna. All’interno di questo quadro si verificò una notevole ristrutturazione ecclesiastica con la creazione di nuove diocesi e il conseguente cambiamento dei confini diocesani. Ciò avvenne durante il regno di Carlo Emanuele III, che non ruppe mai le relazioni diplomatiche con Roma e che in tal modo realizzava parzialmente il progetto di Carlo Emanuele I del 1622. Le nuove diocesi del Regno di Sardegna furono Pinerolo (23 dicembre 1748), Iglesias (18 maggio 1763), Biella (1° giugno 1772), Susa (3 agosto 1772) e infine Chambéry, eretta sotto il successore il 18 agosto 1779.V - Periodo francese e napoleonico (1798-1814)
Gli eserciti francesi e napoleonici, le leggi giacobine e napoleoniche sconquassarono le strutture ecclesiastiche piemontesi. Se la stragrande maggioranza del clero fu contraria alla Rivoluzione e a Napoleone, non mancarono i preti giacobini, tra cui anche giansenisti; tra i sospettati di giacobinismo in Piemonte (esclusa Torino), gli ecclesiastici (diocesani e religiosi) costituivano il 14,86 per cento, seconda categoria dopo gli avvocati; il governo austroungarico nel 1799 internò nel forte di Verrua settanta preti giacobini piemontesi. Sulla Chiesa già sconvolta dalla rivoluzione irruppe devastante la politica napoleonica, che non risparmiò nulla: il decreto del 31 agosto 1802 azzerò la vita religiosa organizzata, incamerandone i beni (nel 1799 i religiosi in Piemonte erano 9220, di cui 5597 monaci e religiosi, 3623 monache e religiose). Oltre il pesante costo di sofferenza, gravi furono le conseguenze pastorali (vennero a mancare forze determinanti nella predicazione) e le perdite culturali e artistiche (distruzione o dispersione di biblioteche e archivi). I provvedimenti più arroganti furono nel 1806 l’imposizione di un catechismo unico e quella della festa di un ipotetico san Napoleone, da celebrarsi il 15 agosto, solennità dell’Assunta, festa che si riduceva all’esaltazione di Napoleone Bonaparte imperatore. Nell’episcopato piemontese sembra sia stato l’arcivescovo di Torino, Giacinto della Torre (1805-1814), il più entusiasta per Napoleone. Annesso il Piemonte alla Francia l’11 settembre 1802, l’imperatore fece pressioni sul cardinale legato Caprara perché si procedesse alla ristrutturazione delle diocesi, tanto che Pio VII con bolla del 1° giugno 1803 raccomandò al legato di procedere alla soppressione di nove diocesi e alla nuova circoscrizione delle restanti. L’attuazione venne affidata dal Caprara con decreto del 30 settembre al vescovo di Amiens, Villaret, creato commissario della Repubblica in Piemonte. Furono soppresse le diocesi di Susa, Pinerolo, Fossano, Alba, Tortona, Bobbio, Casale, Biella e Aosta e le abbazie di San Benigno, San Michele della Chiusa, San Costanzo e Caramagna. Restarono le diocesi, ampliate, di Torino (unica sede metropolitana), Saluzzo, Acqui, Asti, Alessandria (poi sostituita da Casale), Vercelli, Ivrea e Mondovì. Oltre le varie modifiche, passarono interamente Pinerolo a Saluzzo, Susa a Torino, Aosta a Ivrea. Furono estromesse dal Piemonte le giurisdizioni dei vescovi di Milano, Genova, Pavia, Savona, Noli, Albenga, Piacenza e Novara. Non ebbe attuazione il decreto che stabiliva il passaggio della sede vescovile da Mondovì a Cuneo. Per attaccamento al papa e alla monarchia, uno dei più forti centri di opposizione aristocratico-laicale alle idee rivoluzionarie furono le «Amicizie», fondate in Torino e diffusesi in Piemonte e in diversi paesi europei.VI - Dal ristabilimento delle diocesi nel 1817 alla regione ecclesiastica piemontese nel 1889
Fu con la Restaurazione che la circoscrizione delle diocesi piemontesi assunse la fisionomia durata sostanzialmente fino a oggi. La bolla pontificia del 17 luglio 1817 ricostituì le diocesi soppresse, confermò l’abolizione delle abbazie, eresse la nuova diocesi di Cuneo e ridefinì i confini diocesani. Vercelli fu costituita sede metropolitana, ricevendo come suffraganee Alessandria, Biella, Casale e, con breve del 26 settembre 1817, anche Novara e Vigevano. Per la prima volta, queste due diocesi entrarono ecclesiasticamente a far parte del Piemonte. In compenso Bobbio e Tortona furono assegnate alla sede metropolitana di Genova. Numerose furono le sedi episcopali a essere provviste di nuovi pastori. Aosta passò alla provincia ecclesiastica di Chambéry, ma dopo l’annessione della Savoia alla Francia nel 1860 fu assegnata nel 1864 alla provincia ecclesiastica di Torino. Gli anni seguiti alla Restaurazione furono anni tranquilli e fecondi: una pratica religiosa generalizzata, abbondanza di ordinazioni presbiterali, ripresa degli ordini mendicanti e degli ordini regolari e soprattutto fondazione e sviluppo delle nuove congregazioni di vita attiva, maschili e femminili. Il Risorgimento, scandito dalle guerre d’indipendenza, produsse un nuovo scossone e lo scontro tra Stato e Chiesa, emblematizzato dal cosiddetto «caso Fransoni », arcivescovo di Torino, ma che coinvolse, sia pure in modi diversi (Losana di Biella e Renaldi di Pinerolo passavano per liberaleggianti), tutto l’episcopato del Regno di Sardegna, laboratorio della politica antiecclesiastica del Regno d’Italia, proclamato a Torino nel 1861. Anche il vescovo di Asti, Artico, fu in conflitto frontale con il governo. Forse non è irrilevante il fatto che entrambi i vescovi in questione non erano piemontesi. L’arcivescovo di Torino ebbe i suoi torti, rifiutando ogni cambiamento. La corrispondenza epistolare tra i vescovi subalpini dimostra come essi, pur ufficialmente schierati con il metropolita torinese, non ne approvavano l’assoluta intransigenza, che vanificava ogni tentativo di ragionevole compromesso e faceva il gioco degli estremisti guidati dalla «Gazzetta del Popolo». Provvedimenti e leggi antiecclesiastici nella sostanza o nella forma (in quanto imposti senza tener conto degli accordi precedenti) ebbero questa scansione: la legge sulla stampa del 30 ottobre 1847 sottometteva al controllo governativo gli interventi dei vescovi (provocò le dimissioni di Charvaz, vescovo di Pinerolo); l’espulsione dei gesuiti dalla capitale il 2 marzo 1848 (alla vigilia dello Statuto del 4 marzo); la legge Boncompagni del 4 ottobre 1848 secolarizzava l’insegnamento; le leggi Siccardi del 25 febbraio 1850 abolivano il foro ecclesiastico, provocando proteste dei vescovi, la partenza del nunzio Antonucci il 12 aprile e la condanna all’esilio del Fransoni il 27 settembre; nel 1852 si tentò di introdurre il matrimonio civile; nel 1855 furono sottratte le scuole elementari ai Fratelli delle Scuole cristiane e il 29 maggio dello stesso anno la legge Rattazzi-Cavour soppresse gran parte degli ordini religiosi, incamerandone i beni, per rimpinguare l’erario svuotato dalla guerra. In questo clima di contrasto i vescovi avvertirono il bisogno di incontrarsi e di organizzarsi nei cosiddetti congressi vescovili (conventus episcoporum). La provincia ecclesiastica di Torino si riunì a congresso per la prima volta a Villanovetta, presso Saluzzo, nei giorni 25-29 luglio 1849, sotto la presidenza del decano, Gianotti, vescovo di Saluzzo, in quanto Fransoni era in esilio volontario a Ginevra. Era stato preceduto nel mese di maggio dai congressi dei vescovi lombardi a Groppello e dei vescovi savoiardi a Chambéry dal 2 al 6 luglio. Il congresso di Villanovetta era stato di fatto preparato negli anni 1842- 1847 da incontri informali, promossi dal vescovo di Pinerolo, Charvaz, tra i diversi vescovi del Piemonte meridionale: Saluzzo, Fossano, Cuneo, Alba e Mondovì. Da Villanovetta i vescovi inviarono ai fedeli un messaggio, prima lettera collettiva. Seguirono altri congressi dei vescovi delle due province ecclesiastiche, distinti ufficialmente fino al 1889, quando la Santa Sede istituì in Italia diciassette regioni ecclesiastiche. In realtà negli anni 1872, 1873 e 1874 si riunirono insieme i vescovi delle due province sotto la presidenza dell’arcivescovo Gastaldi. Tuttavia, sulle grandi questioni i vescovi, se si presentavano uniti nelle proteste, erano di fatto divisi nelle proposte. La divisione fu eclatante in due grosse questioni: infallibilità pontificia al Vaticano I e questione rosminiana. Convinti infallibilisti furono Ghilardi di Mondovì e Gastaldi di Saluzzo; altrettanto convinti antinfallibilisti furono Ricardi di Netro di Torino, Losana di Biella, Moreno di Ivrea e Renaldi di Pinerolo. A difendere coraggiosamente Rosmini e il rosminianesimo, negli anni Settanta e Ottanta restarono soltanto Gastaldi a Torino e Ferré a Casale. Gli anni 1871-1874 furono cruciali a motivo del rifiuto dell’exequatur da parte del governo italiano ai molti vescovi eletti o trasferiti nel 1871. Il mondo cattolico si attestò sempre di più su posizioni intransigenti nei confronti del Regno d’Italia, promosse dalla stampa intransigente, in particolare da due quotidiani torinesi, diretti dal prete sanremese don Giacomo Margotti: «L’Armonia» dal 1848 al 1866 (nel 1861 lanciò il manifesto dell’astensionismo politico: «Né eletti, né elettori») e poi «L’Unità cattolica» dal 1863, portavoce in particolare dell’Opera dei congressi, che in verità faticò a trovare spazio in Piemonte.VII - Dall’attività sinodale di fine Ottocento al Vaticano II
Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e nel primo Novecento continuò in Piemonte l’intensa attività sinodale iniziata nel 1873 con il sinodo Gastaldi: fino al 1906 si celebrarono in Piemonte ventisei sinodi, ossia il 19,31 per cento di tutti i sinodi italiani. Come Pio IX (1846-1878) anche Leone XIII (1878-1903) nella nomina dei vescovi seguì il criterio pastorale, preferendo vicari generali e parroci; in più adottò il criterio del neotomismo, come nei casi di Richelmy a Torino e Pampirio a Vercelli e – come papa della Rerum Novarum – quello della sensibilità sociale, richiesta in una regione in via di industrializzazione, quindi coinvolta dalla questione sociale e scossa dal movimento socialista. La rivoluzione industriale infatti interessava alcuni distretti come Torino, il Biellese-Verbano e Alessandria-Novi- Serravalle. Non va dimenticata l’intensa emigrazione all’estero dall’altro Piemonte ancora agricolo. I vescovi piemontesi produssero alcuni significativi interventi magisteriali collettivi: le lettera del 14 giugno 1893 dedicata tra l’altro all’azione sociale del clero; la pubblicazione con l’episcopato lombardo nel 1896 del Compendio della Dottrina Cristiana, che sarà alla base del catechismo di Pio X per le diocesi italiane nel 1912; scoppiata la crisi modernista, che stava coinvolgendo soprattutto il giovane clero di diverse diocesi, i vescovi subalpini, prima ancora degli interventi romani, indirizzarono una lettera circolare al clero, distinguendo un modernismo «buono» da un modernismo «cattivo». A cavallo del 1900, soprattutto il cattolicesimo intransigente diede impulso all’associazionismo cattolico (Azione cattolica, Opera dei congressi, Democrazia cristiana, San Vincenzo…), promotore di molte iniziative sociali, dalle biblioteche circolanti alla banche rurali. Nello stesso periodo, prima i cattolici intransigenti e poi i moderati fondarono in ogni diocesi settimanali e anche quotidiani. La facoltà teologica e la facoltà giuridica del seminario di Torino (frequentate dal clero piemontese) e i pochi docenti universitari cattolici, ancora di ispirazione rosminiana, frenati dalla reazione antimodernista, non riuscivano a contrastare la cultura positivista che stava monopolizzando l’Università di Torino. I cattolici furono creativi nei settori della stampa periodica scolastica e della cultura popolare, specie nel teatro, grazie soprattutto ai salesiani di don Bosco. Insomma, la Chiesa subalpina fu vivace e avvertì i profondi cambiamenti in corso e i loro risvolti pastorali, ma in modo confuso e apprensivo e con insufficiente lucidità. Per questo le risposte pastorali ai tanti problemi, pur moltissime e varie, non ebbero il supporto di un’adeguata riflessione preliminare e di verifica. La prima guerra mondiale coinvolse notevolmente anche il clero, soprattutto con numerosi cappellani militari, chierici e preti- soldato, ma pose anche le premesse per l’avvento del fascismo nel 1922, che condizionò profondamente la vita della Chiesa. Il più importante momento unitario della Chiesa piemontese negli anni Venti fu rappresentato dalla celebrazione del primo concilio plenario Pedemontano nei giorni 11-13 ottobre 1927, a Torino, presieduto dal cardinale arcivescovo Giuseppe Gamba, che aveva lo scopo di applicare alle diocesi le norme del nuovo Codice di diritto canonico del 1917. Quelle concernenti il clero, molto severe e sotto tale aspetto in sintonia con i sinodi diocesani di fine Ottocento e oltre, contribuirono, in positivo e in negativo (per l’eccessiva rigidità, quasi monastica: proibizione della bicicletta!), a delineare il profilo dei preti diocesani fino al Vaticano II. Le frequenti direttive romane e le periodiche conferenze episcopali regionali contribuirono a rendere più omogenea la pastorale delle diocesi: notevole sviluppo dell’Azione cattolica, incremento di vocazioni al sacerdozio (boom dei seminari minori) e di ordinazioni presbiterali, diffusione capillare di comunità di congregazioni femminili, frequenti celebrazioni di massa quali i congressi eucaristici diocesani, che ebbero il loro apice nel congresso nazionale di Torino nel 1953 e la Peregrinatio Mariae degli anni 1947-1951, che registrò un successo travolgente. Fasi critiche sotto l’aspetto politico-pastorale furono il ventennio fascista e la seconda guerra mondiale. Con il fascismo, non essendo possibile un’opposizione aperta dopo i Patti lateranensi, furono sostanzialmente due gli atteggiamenti dei vescovi: deferenza prudente senza servilismo verso le autorità costituite (il cardinal Fossati a Torino), una certa sintonia con la politica del regime (Imberti ad Aosta). Come episcopato, la provincia torinese il 3 giugno 1931 si pronunciò in modo netto sul conflitto concernente l’Azione cattolica e, dopo l’alleanza con la Germania nazista nel 1938, negli atti delle conferenze regionali compaiono riserve e rimostranze. Tuttavia, nell’insieme, la Chiesa piemontese fu costretta a ripiegarsi su se stessa. A proposito del conflitto mondiale, se i bombardamenti anglo-americani interessarono soprattutto Torino, la resistenza e la guerra civile degli anni 1943-1945 coinvolsero tutte le diocesi, che si dimostrarono all’altezza della situazione di grave emergenza: soprattutto i vescovi e i parroci furono i defensores civitatum. Vescovi, preti, comunità parrocchiali, religiosi e religiose aiutarono partigiani ed ebrei; non mancarono preti cappellani dei partigiani (don Pollarolo) e preti-partigiani. L’episcopato piemontese impartì orientamenti e direttive a preti e laici con una lettera del 4 aprile 1944, in occasione della Pasqua.VIII - Vaticano II, Cep e postconcilio
Entusiasmo conciliare, delusione e contestazione postconciliare, crisi dell’associazionismo cattolico (con l’eccezione dello scoutismo), sviluppo dei movimenti ecclesiali, contrazione drastica dei presbiteri, istituzione e fioritura del diaconato permanente, crollo delle vocazioni religiose, notevole riduzione della pratica religiosa, immigrazione e pluralismo confessionale e religioso: sono fenomeni che le diocesi piemontesi, pur nella loro specificità, hanno condiviso con le altre Chiese dell’Occidente nella seconda metà del XX sec. L’attuazione dei decreti conciliari fu portata avanti grazie anche all’impulso impresso dalla Conferenza episcopale piemontese (Cep), guidata con saggezza e determinazione dai cardinali arcivescovi Michele Pellegrino e Anastasio Ballestrero. Quanto alla struttura ecclesiastica regionale, il 17 luglio 1974 la Santa Sede trasferì la diocesi di Vigevano (Pv) alla regione ecclesiastica Lombardia. Il 20 ottobre 1964 fu avviato a Torino l’Istituto piemontese di teologia pastorale, creato dalla Cep per «un aggiornamento periodico e sistematico del giovane clero»; durato fino al 1987, ebbe il grande merito, specie nel primo decennio, di aiutare (sotto la guida del teologo albese don Natale Bussi) il clero piemontese ad assimilare il Vaticano II. La stessa Cep nel 1967 istituì in Torino il seminario regionale delle vocazioni adulte, diretto in un secondo tempo da don Giovanni Barra, scrittore pinerolese, già amico di don Mazzolari; l’esperienza si chiuse nel 1984. Sotto la supervisione della Facoltà teologica, nel 1985 avviava l’attività l’Istituto superiore di scienze religiose della regione conciliare piemontese, per la formazione soprattutto del laicato. Finalmente, su richiesta della Cep, la Congregazione per l’educazione cattolica istituiva, il 9 ottobre 1999, presso la Facoltà teologica di Torino, il biennio di licenza di specializzazione in teologia morale con indirizzo sociale. Gli ultimi decenni del secondo millennio sono stati anche la felice stagione di molti sinodi diocesani, delle visite apostoliche di Giovanni Paolo II a Torino (1980, 1988 e 1998), Novara-Varallo Sesia (1984), Oropa- Pollone (1989), Ivrea-Chivasso (1990), Susa (1991), Asti (1993) e Vercelli (1998) e delle solenni ostensioni della Sindone negli anni 1978, 1998 e 2000.Bibliografia
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Chiesa e società nella II metà del XIX secolo in Piemonte, a c. di F. N. Appendino, Casale Monferrato 1982;
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FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.