Kirchenregion Calabria
dall’altra le correnti di religiosità misterica rappresentative delle tre grandi religioni elleniche, il cui influsso è stato più forte sulla spiritualità del mondo mediterraneo: la tradizione religiosa e filosofico-scientifica del pitagorismo, dell’orfismo e del dionisismo, quest’ultima nella dimensione mistico- orgiastica del back henein, come attestato nel territorio bruzio dal famoso decreto de Bacchanalibus del 186 a.C. proveniente dal territorio di Tiriolo. Scarsa, invece, allo stato delle ricerche, la diffusione nell’attuale Calabria (Bruzio) di età imperiale romana dei culti orientali attestati in Occidente, a differenza del largo coinvolgimento di vicine regioni come la Sicilia e la Campania;
al contrario quelli egiziani sono localizzati solo a Locri e Reggio. Indizi insufficienti, ma tendenti a lasciar supporre una certa chiusura ai culti provenienti dall’Oriente, proprio in coincidenza dell’apertura al messaggio cristiano. In effetti una prima documentata presenza cristiana in regione è data da At 28,13. Nel contesto del viaggio di Paolo da Malta a Roma (At 28,11-16) è detto che, proveniente da Siracusa, l’equipaggio costeggiando giunse a Reggio, da dove, il giorno seguente, propizio lo scirocco, ripartì per arrivare il giorno dopo a Pozzuoli. Su quel breve soggiorno dell’Apostolo sono fiorite diffuse e coltivate tradizioni circa la fondazione paolina della Chiesa reggina, che l’avrebbe provvista anche del successore nella persona del santo vescovo e martire Stefano di Nicea, che sarebbe poi passato a predicare anche a Cosenza;
sarebbe così iniziata la diffusione del cristianesimo in tutta la regione. Come evangelizzatore della prima ora il Bruzio avrebbe avuto anche l’evangelista Marco in Val di Crati (Corigliano, Cassano) e ad Argentanum (il che spiegherebbe la posteriore denominazione di San Marco Argentano), dove l’avrebbe raggiunto e incontrato Pietro, arrivato nella zona di Sibari, a seguito di un naufragio nella vicina Taranto. A Crotone, invece, avrebbe operato Dionigi l’Areopagita, discepolo di Paolo, e da lì sarebbe partito per evangelizzare Santa Severina. Si tratta di credenze e di miti, nobili nelle intenzioni, ma labili nella fondatezza storica. Sullo stesso piano vanno posti i gruppi di martiri argentanesi (Senatore, Viatore, Cassiodoro e Dominata), nonostante la locale venerazione come patroni, e scillitani per l’identificazione tra Scilli, dell’Africa preconsolare, e Scilla, in Calabria, e di altri martiri, per estremi geografici non attinenti alla Calabria, a parte il culto poi sviluppatovisi. Troppo generici sono, altresì, nel Liber Pontificalis le connotazioni di natione Graecus, perché esse possano essere applicate e fatte coincidere con le località che ritengono di essere state la patria di origine e di provenienza di papi, tutti santi, già dai primi tre secoli (Telesforo, 127/128-137/138;
Antero, 235-236;
Dionisio, 259-268), con ripresa agli inizi dei secoli IV-V (Eusebio, 308?-310?;
Zosimo, 417-418). Solo a partire dal IV sec. i riferimenti di una presenza cristiana nel Bruzio risultano più documentati. Nel 313 (o 319) una di - sposizione imperiale inviata da Costantino al corrector Lucaniae et Bruttiorum, Rufino Ottaviano, residente a Reggio, intimava che i chierici ab omnibus muneribus excusentur (siano esonerati) per potersi dedicare completamente alle proprie mansioni ministeriali. Per quanto di carattere generale, e quindi comune ad altri luoghi, l’esistenza di un clero e, di conseguenza, di comunità cristiane presenti in regione e, presumibilmente anteriori a quella data, sembra fuor di dubbio. Elementi più consistenti, tuttavia, provengono dal versante epigrafico. A Taurianum, una iscrizione del 348 indica un diaconus, e un’altra, quasi coeva, parla di un Leucosius episcopus: ambedue curarono la sepoltura cristiana, il primo alla moglie, il secondo al figlio, segno evidente di un clero uxorato in questo periodo. Sempre nella zona, in località San Fantino, di Taureana di Palmi, l’area di un complesso cristiano comprende una basilica cimiteriale sorta su una preesistente villa di età romano-imperiale, con, probabilmente, il cosiddetto ninfeo, divenuto poi la tomba inferiore di san Fantino, forse il primo santo calabrese morto nel corso del IV sec., di cui si ha conoscenza per la Vita scrittane dal vescovo Pietro intorno alla metà dell’VIII sec. In quel tempo al suo culto provvedeva un cenobio femminile, ma già alla fine del VI sec. le Lettere di Gregorio Magno attestano la presenza di monaci. A nord, nella Sibaritide, reperti mobili e alcune iscrizioni intorno all’area di Copia-Thurii allargano il campo di conoscenza della presenza cristiana nel Bruzio che, sul finire del secolo, altra conferma trova a Locri con epigrafi e a Reggio per un passo di san Girolamo che la indica come città episcopale, per la citazione di Rm 8,31b in un mattone tombale e per il ritrovamento di sei lucerne di più larga datazione (seconda metà del IV-VI sec.). Altri indizi non contrastano con l’ipotesi che anche Crotone e Cosenza fossero sedi episcopali, pur se la documentazione che le riguarda è di epoca successiva (VI sec.). Con il V sec. le notizie letterarie ed epigrafiche aumentano decisamente. Risultano sedi episcopali Squillace, con Gaudenzio che partecipa al concilio Romano del 465;
Vibo con Giovanni;
Tempsa con Ilario, Thurii con Giovanni, intervenuti ai sinodi simmachiani (nel 499, il primo;
nel 501 e 509, gli altri due), mentre nomi di vescovi e di membri della gerarchia (un presbitero e un arcidiacono) aprono e chiudono il secolo, rispettivamente in lettere pontificie di Innocenzo I (401-417) e Gelasio I (492- 497), che affrontano problemi disciplinari e dottrinali. Si parla anche di presenze eretiche (ariane, manichee, donatiste) e del sacerdozio femminile attestato con la Leta presbitera in una epigrafe di Tropea. Proprio a partire da questa, da numerose altre epigrafi cristiane (non meno di trentatré), da reperti della necropoli paleocristiana scoperta davanti alla cattedrale e dal relativo corredo iconografico, con elementi onomastici prevalentemente latini (19), ma anche con esempi in greco (2) e in ebraico (1), a Tropea è dato rilevare la vitalità di una comunità cristiana, unica nel Bruzio del tempo. Articolata era la sua la composizione tra ecclesiastici e laici responsabili (due presbiteri, Macedo e Monses), per lo stato dei fedeli (pater, fili, frater, maritus, uxor, parentes, amici, fidelis), per l’arco di età (da una Gloriosa que bix[it] Ch[risto] annos plus minus quinque a un Quintus… annos LXXX). In modo particolare è la qualifica di Hirenis, defunta ultrasessantacinquenne, que fuit conduct(rix) m(asse) Trapeianae, che ci rivela l’esistenza di una massa, dunque di un’attività agricola e artigianale di livello che, già a metà del VI sec., appartiene al Patrimonium Sancti Petri, di cui è amministratore e uomo di fiducia del papa per altri aspetti della Chiesa tropeiana il suddiacono Melleo. Verso la fine del secolo, presso la contigua massa Nicoterana, la presenza del clero e del vescovo ci informa di un’altra Chiesa, quella di Nicotera. Proprio queste due masse – di Tropea e di Nicotera – rappresentano il paradigma lineare della genesi e dello sviluppo della parrocchia e della diocesi rurale: da quei nuclei si sviluppano le diocesi rurali e al loro interno gli agglomerati urbani e le sedi vescovili, elementi che permettono di rilevare l’importanza e la centralità avuta dal cristianesimo rurale in Calabria. Ulteriore conferma proviene dalla massa Silana, più distante e articolata – rispetto alle precedenti –, nel territorio della diocesi di Cosenza, la cui coesistenza, probabilmente già avviata nel corso del V sec., al pari anche di altre sedi come Reggio e Crotone, risulta anche definita al VI sec. inoltrato. L’epistolario di Gregorio Magno a fine dello stesso VI sec., oltre a fornirci elementi unici su una serie di problemi sui quali egli interviene direttamente, permette anche di definire un primo elenco di Chiese – o di diocesi – della regione, e che si presenta piuttosto ragguardevole: Reggio, Tauriano, Vibona, Nicotera, Tropea, Tempsa, Cosenza, Blanda, Cirella, Thurii, Crotone, Squillace, Locri, Myria, anche se qualcuna non più in vita (Thurii) e altre o di difficile ubicazione (Myria), o dagli inizi incerti e dai silenzi definitivi già decenni dopo (Cerillae, ultima attestazione nel 649). Questo rapporto diretto tra i vescovi di Roma e le diocesi del Bruzio e l’uso della lingua latina nei corrispondenti documenti indicano – pur se non mancano dubbi in merito – come le Chiese della regione fossero tutte di rito romano, piuttosto latino, e tutte direttamente dipendenti dal papa, ma forse non del tutto immuni dagli influssi già provenienti da Bisanzio, come lascerebbe intendere proprio il richiamo all’obbedienza della tradizione romana a fronte di usanze greche. La partecipazione di dieci vescovi della Calabria (Tempsa, Vibona, Locri, Tauriana, Tropea, Crotone, Squillace, Reggio, Blanda, Cirella) nel 649 al concilio Romano di papa Martino – tutti firmatari in latino – a confronto con i nove che trent’anni dopo, nel 679, parteciperanno al concilio indetto da papa Agatone: Giorgio di Tauriano, Teodoro di Tropea, Oreste di Vibona, Abbondanzo di Tempsa, Teofilo/Teofane di Torri, Giuliano di Cosenza, Pietro di Crotone, Paolo di Squillace, Stefano di Locri. Nella lista va incluso anche Giovanni di Reggio che, insieme con Abbondanzo di Tempsa (o di Paterno), il concilio Romano designò come legato al concilio Costantinopolitano III (680-681). Eccetto che per il vescovo di Cosenza e di Tempsa, si tratta di nomi greci e in greco si sottoscrivono tutti i partecipanti a questo concilio, ma costituenti due gruppi: appartenenti all’eparchia della Calabria i provenienti delle diocesi a sud dell’istmo di Catanzaro (Vibona, Torri, Tropea, Tauriana, Locri, ai quali vanno inclusi Reggio e Tempsa, firmatari, per l’occasione, come legati di Roma) insieme con il vescovo di Porto, e appartenenti, invece, alla eparchia dei Bruzi, quelli del versante centro-nord (Squillace, Crotone e Cosenza). Il legame dei primi con il mondo bizantino è abbastanza evidente, come fuori dell’orbita, invece, ne risultano gli altri tre. Il ruolo assegnato ad Abbondanzo e Giovanni indica, anzi, qualcosa di più: in certo modo essi rappresentano una realtà ecclesiale calabro-greca in grado di comprendere e di trattare le questioni teologiche e dommatiche e quindi persone di sicuro affidamento. Tale realtà di Chiesa greca nel Bruzio è uno degli aspetti più notevoli del governo bizantino che, a partire dalla riconquista ad opera di Giustiniano (536) e per l’evolversi di nuovi assetti dovuti all’avanzata longobarda tra VI e VIII sec., passerà dalla giurisdizione del patriarcato di Roma a quello di Costantinopoli. L’atto determinante del passaggio di giurisdizione della Chiesa greca in Calabria va individuato nelle di - sposizioni emanate da Leone III (732-733), pochi anni dopo l’editto sul divieto del culto delle immagini (730) per cui il patrimonium della Chiesa di Roma in Sicilia e in Calabria venne trasferito al fisco imperiale e le Chiese di Sicilia, di Calabria e dell’antica prefettura dell’Illirico, distaccate dalla giurisdizione della Chiesa di Roma e subordinate al patriarcato di Costantinopoli. Il gesto imperiale, interpretabile da parte bizantina come di istanza amministrativa, in quanto conformante l’ordinamento ecclesiastico a quello politico- amministrativo, in linea con alcuni canoni conciliari (il 17° di Calcedonia [451] e il 38° del sinodo Trullano II o concilio Quininsesto [692]), in ambito romanopontificio, invece, nel più ampio contesto dell’iconoclasmo e delle frizioni tra i due mondi, orientale e occidentale, in occasione della presenza dei normanni assunse il peso di grave ingerenza nel proprio ambito e tale restò nelle successive rivendicazioni fino a quando le cose non ritornarono allo stato precedente. L’VIII sec. è perciò determinante per il nuovo volto della Chiesa in Calabria. Anche se restano oscure le tappe salienti del processo, da latina essa diventò, per contingenze politiche, greca e l’ellenizzazione interessò i settori più incisivi: liturgico, linguistico, disciplinare, di adesione chiara dell’episcopato al patriarca di Costantinopoli. Nel quadro dei rapporti con il mondo greco-bizantino va segnalata la vitalità del monachesimo italo-greco in Calabria, che si è sviluppato ad alti livelli spirituali e culturali e che culmina nella formidabile esperienza monastica di Nilo di Rossano (910-1004), il fondatore di Grottaferrata, che contribuì alla trasmissione della cultura greco-cristiana in modo determinante con i suoi scriptoria. Il nuovo assetto istituzionale e gerarchico per la caduta di Siracusa fu alla base della costituzione della Metropolia della Calabria, tra l’VIII e il IX sec. Su tale assetto fanno luce le Notitiae Episcopatuum Ecclesiae Constantinopolitanae, che vanno ora consultate nell’edizione a cura del padre assunzionista J. Darrouzès (Paris 1981). La Notitia 3 riflette l’assetto ecclesiastico posteriore al II concilio di Nicea del 787, al quale partecipò una forte delegazione di vescovi greci di Calabria e di Sicilia, tutti in sintonia ecclesiale e politica con il patriarca di Costantinopoli. Ne risulta l’avvenuta istituzione della metropolia di Calabria con le sedi suffraganee di Gerace (Santa Ciriaca), Squillace, Crotone, Amantea, Tourris, Vibona, Nicotera e Taureana. Particolarmente interessante è la Notitia 7, annessa al decreto con cui il patriarca Nicola Mistico, sotto il regno di Leone VI il Saggio, quindi agli inizi del X sec., disciplinava l’ordine gerarchico delle metropolie sottoposte al patriarcato di Costantinopoli e delle loro sedi suffraganee. Tale Notitia attesta le due metropolie di Reggio Calabria e di Santa Severina: l’una, al 31° posto, con le diocesi suffraganee di Vibona, Taureana, Locri, Rossano, Squillace, Tropea, Amantea, Crotone, Constantia (Cs), Nicotera, Bisignano e Nicastro;
l’altra, al 48° posto, con quelle di Umbriatico, Cerenzia, Gallipoli e Isola Capo Rizzuto. Per le diocesi di nuovo inserimento (Nicotera, Nicastro, Amantea, Bisignano, Cassano, Rossano), la loro ubicazione a nord del tratto Squillace-Sant’Eufemia, se induce a fissarne istituzione e aggregazione a Reggio dopo i nuovi assetti dati da Niceforo Foca (e ciò vale per Amantea, Cassano e Rossano), formate probabilmente con territori di precedenti diocesi (Amantea subentrando a Tempsa, Cassano inglobando parte di Blanda Iulia e di Thurii, Rossano parte di Thurii), necessita, tuttavia, di ulteriori precisazioni. Per il ruolo strategico e amministrativo Rossano nel X sec., a motivo del trasferimento dello stratega da Reggio, incendiata dai saraceni, si profila come arcivescovado autocefalo, riducendo così nel tempo la sua dipendenza di suffraganea di Reggio Calabria. Cosenza, Bisignano, Cassano, ubicate nella valle del Crati, in territorio longobardo e perciò politicamente appartenenti al principato di Salerno, vennero confermate e assegnate (989) alla nuova metropolia di Salerno. La doppia contemporanea dipendenza di queste diocesi da Reggio e da Salerno, se si esclude Malvito, di fondazione latina, probabile erede di parte di Blanda Iulia e di Cirella, risulta, tuttavia, più formale che effettiva e con il tempo superata da un’altra appartenenza in quanto immediatamente soggette alla Santa Sede. Nondimeno nella Notitia X (inizi XI sec.) si ripresenta la metropolia di Reggio con le diocesi suffraganee precedenti: Tauriana, Vibona, Nicotera, Tropea, Nicastro, Amantea, Cosenza, Bisignano, Cassano, Rossano, Squillace, Locri. Anche in questo elenco, come nel precedente, manca Tropea, che, comunque, vi va inclusa, mentre sono da escludere Tauriana (anche se questa ancora vive, dopo che Ruggero l’ha considerata morta) e Vibona, scomparse da tempo, e Cosenza Bisignano e Rossano, già autonome, vanno considerate di fatto non dipendenti da Reggio. All’elenco si aggiungeranno le piccole diocesi di Bova e di Oppido, fondate dai bizantini intorno alla metà dell’XI sec. Nel contesto degli eventi legati alla riconquista di Niceforo Foca, Santa Severina, da lui liberata dagli arabi (886), nasce contemporaneamente come diocesi e metropolia. Le sue suffraganee all’inizio sono cinque: Umbriatico, Cerenzia, Isola, Strongoli, Gallipoli in Puglia, a cui successivamente si aggiungeranno San Leone e, nella seconda metà del XV sec., Cariati. Il trasferimento e l’acquisito stato di subordinazione giurisdizionale al patriarcato di Costantinopoli pose i vescovi in condizione di nuovi rapporti con le Chiese orientali, rilevabili a livelli alti dalla partecipazione (o non) ai vari concili (ecumenici e locali) del periodo, dall’adesione all’unica fede condivisa (sinodo 649: condanna del monotelismo;
concilio Niceno II, 787: condanna dell’iconoclasmo;
Costantinopolitano IV, 869: contro lo scisma di Fozio e in favore della riabilitazione di sant’Ignazio, patriarca di Costantinopoli), da interpretare, tuttavia, con riserve, perché i padri siculi e calabri del 787 sono antiromani nei fatti anche se iconoduli e al concilio antifoziano seguì quello filofoziano di dieci anni dopo con il sostegno dei vescovi greci del Mezzogiorno. Il positivo atteggiamento di Nilo di Rossano e di Bartolomeo di Simeri e le posizioni degli ultimi metropoliti greci di Reggio (Nicola [1030?-1040?] e Basilio [1050?-1078]), che reagirono a violenze subite, indicano, tuttavia, come diversificati fossero gli atteggiamenti e le posizioni nei confronti della Chiesa di Roma. Il quadro delle diocesi determinatosi nel VII-XI sec. sotto i bizantini venne alquanto modificato dalla politica dei normanni che, a partire dai primi decenni dell’XI sec., con tattiche scaltre, predatorie e violente, divennero ben presto signori di tutta l’Italia Meridionale. Inizialmente avversati e scomunicati dal papato, sfruttando la sconfitta e la prigionia di Leone IX nella battaglia di Civitate del 1053, che essi non fecero pesare, dimostrandosi anzi aperti alla riconciliazione, ne diventarono fedeli alleati. Vincitori sul piano militare, la legittimazione delle conquiste, impossibile da pensare da parte dell’imperatore bizantino, loro avversario, poteva solo venire dal papa. Difatti, riabilitati nella comunione ecclesiale dal pontefice il 18 giugno di quello stesso anno, furono infeudati di tutte le terre conquistate e da conquistare da Benevento fino allo stretto di Messina. I successori di Leone IX confermarono il vassallaggio: Niccolò II – previo giuramento di fedeltà e l’impegno di riparare ai crimini con la costruzione di un monastero in Calabria – il 23 agosto 1059 riconobbe a Roberto il Guiscardo il ducato della Puglia, della Calabria e della Sicilia;
Gregorio VII, il 29 giugno 1080, gli riconfermò solennemente l’investitura. Forti, inoltre, degli accordi stipulati nel sinodo di Melfi del 1059 circa il riordino delle diocesi per riportarle nella giurisdizione della Chiesa di Roma, i normanni ne iniziarono sistematicamente la latinizzazione. Nella Calabria settentrionale, Roberto il Guiscardo, se difficoltà non incontrò nelle diocesi della valle del Crati – in parte mai pienamente assorbita a Bisanzio, in parte (Cosenza, Bisignano e Malvito) sottratte alla metropolia di Reggio, pur se legate a doppio filo nominale a quella di Salerno e immediatamente soggette alla Santa Sede – fiera reazione trovò, invece, a Rossano, nel tentativo di imporre un arcivescovo latino alla morte di Romano (1093). A Cassano un primo vescovo latino fu possibile dopo la morte dell’ultimo vescovo greco (1058?-1067) che, nella valle delle Saline, insieme con l’ek prosopou, un governatore civile e militare di Gerace (i nomi di ambedue non ci sono noti), aveva osato fargli guerra, ricevendone una immediata e sanguinosa sconfitta. Altre due diocesi figurano, intanto, nell’orbita latina: Martirano, prima suffraganea di Salerno e poi di Cosenza, e San Marco Argentano, fondata dal Guiscardo verso il 1080, immediatamente soggetta alla Santa Sede e scelta come residenza. Nella Calabria meridionale il fratello di Roberto, il gran conte Ruggero, con i territori delle due diocesi greche, da lui soppresse, di Vibona e di Tauriano, costituì Mileto, come diocesi latina. L’opera di latinizzazione avviata procedette, determinata e graduale, con una precisa strategia: la nomina di vescovi latini come successori di quelli greci quando le rispettive sedi ne restavano vacanti. Nell’arco di poco più di un cinquantennio, dalla fine dell’XI sec. alla prima metà del XII, l’obiettivo – già acquisito per le diocesi della valle del Crati, cioè Cosenza, Bisignano, Malvito, San Marco e la più distante Martirano – aveva raggiunto buona parte delle diocesi calabresi: Tropea (1094), Squillace, Nicastro e Cassano (tra il 1090 e il 1096), Umbriatico (1139), Isola (1149), mentre Catanzaro, come Mileto, era già nata latina. In merito, la sua sostituzione di Tres Tabernae deriva dalla falsa Cronaca delle Tre Taverne, attendibile per molti versi ma non nella presentazione di Catanzaro come erede di Tre Taverne, diocesi laziale artatamente dal falsario traslata nella Calabria per i suoi fini di nobilitazione della sede catanzarese. Alla luce di considerazioni più ponderate, fu atto di avvedutezza, invece, rispettare e mantenere il rito bizantino – che così convisse accanto a quello latino fino a tutto il basso Medioevo e anche oltre – in diocesi dove la tradizione era più forte: Bova, Oppido, Gerace, Crotone, Santa Severina, Cerenzia, Rossano. Il quadro che emerge nel XIV sec. dalle Decime pontificie conferma questo stato di cose: di rito bizantino era la maggior parte dei capitoli cattedrali, anche in diocesi latinizzate, ma con casi di clero misto (latino e greco);
prevalenza di clero greco nella Calabria meridionale, prevalenza del clero latino nel resto della regione. Così l’organizzazione delle diocesi nel periodo normanno registrò sensibili variazioni rispetto a quella precedentemente incontrata in epoca bizantina. La metropolia di Reggio Calabria risultò alquanto ridotta di numero nelle sue suffraganee (da sedici a dieci) e nell’estensione, concentrata per lo più nella Calabria meridionale (Oppido, Nicotera, Tropea, Nicastro, Catanzaro, Crotone, Squillace, Locri, Bova, a cui va aggiunta – non senza problemi – Cassano). La metropolia di Santa Severina restò intatta rispetto alla sua primitiva costituzione (Santa Severina, Isola, Umbriatico, Strongoli, Belcastro, Cerenzia, San Leone). La metropolia di Cosenza era una novità e con una sola suffraganea: Martirano. Un’arcidiocesi era senza suffraganei, Rossano. Chiese immediatamente soggette alla Santa Sede erano Mileto, Cassano, Bisignano, Malvito e San Marco. La protezione accordata dai normanni al monachesimo latino e l’attenzione riservata anche a quello greco, nel quadro della provvisione delle diocesi, nonché la stima delle popolazioni verso personaggi di chiara fama, hanno prodotto un fenomeno collaterale: la scelta di molti monaci a capi delle singole Chiese. Ma con qualche delusione eccellente. Il desiderio della base di avere forti personalità fu vanificato, in epoche diverse, dagli illustri interessati: san Nilo rifiutò l’offerta dell’arcivescovado di Rossano e san Brunone quello di metropolita di Reggio Calabria. Nella lotta sostenuta con la guerra del Vespro (1282), negli opposti schieramente tra angioini – signori del Regno di Sicilia e vassalli del papa – e aragonesi, chiamati a rimpiazzarli dai siciliani, vennero travolti i monasteri e i loro beni, mentre pienamente coinvolti restarono anche vescovi e diocesi calabresi: a Nicastro, Tancredi di Montefusco parteggiò per gli aragonesi. Gli angioini, a Reggio, ebbero dalla loro parte l’intruso arcivescovo Roberto Castiglione;
a Martirano Roberto, a Santa Severina Ruggero – guerriero più che pastore (morirà in battaglia nel 1298) – a Umbriatico, il fratello Lucifero. Le vessazioni belliche degli aragonesi furono pesanti: Umbriatico venne distrutta, sì da rendersi necessario il trasferimento della sede ad altro sito. Nel 1286 scampò Mileto e il vescovo fu ridotto in povertà e catturato. Il vescovo di Strongoli, Ruggero (1284), e quello di San Marco, Manfredi (1287), per la conquista delle loro chiese furono trasferiti ad altre sedi, fuori della Calabria. Gli anni successivi alla pace di Caltabellotta (1302), che prevedeva il ristabilimento degli angioini in Calabria e la reintegrazione alla Chiesa e ai monasteri dei beni precedentemente posseduti, registrarono ancora soprusi. Così nella diocesi di Umbriatico si dovette avviare un processo contro signorotti locali per l’usurpazione dei beni ecclesiastici;
per il vescovo di Strongoli ci fu l’interessamento dei vescovi di Bisignano e Belcastro affinché egli potesse ritornare nella propria sede da cui l’aveva estromesso Guglielmo di Eboli. Il periodo avignonese e lo scisma d’Occidente (1378-1417) ebbero anche in Calabria le ripercussioni comuni a tutta la cristianità: vescovi proposti da antipapi o dai papi legittimi, in una sequenza di continui colpi di scena dai risvolti pietosi e sconcertanti nelle istituzioni di maggiore rilievo – capitoli cattedrali e parrocchie – e nella comunità dei fedeli. È quanto avvenne a Reggio, Cosenza, San Marco, Santa Severina, Rossano, Mileto, Tropea. Finito lo scisma, la situazione non migliorò. Era già in atto un fenomeno non meno penoso e pernicioso dei precedenti: l’affidamento delle diocesi a membri della curia romana, cardinali appartenenti alle famiglie più influenti del tempo, che ne godevano i benefici e la dignità, come primo e principale vantaggio della loro amministrazione, ma senza un reale servizio alle Chiese per le quali erano stati nominati, dove neppure si recavano e, di conseguenza, senza quasi mai risiedervi regolarmente e svolgervi la regolare cura. Furono anche favoriti laici o chierici protetti dalla casa reale. Un fenomeno triste e lungo, cresciuto d’intensità e nella prassi per oltre un secolo e mezzo fino a tutta la prima metà del XVI sec. Nel XIII sec. la diocesi latina di Malvito venne soppressa e aggregata a San Marco, e per Reggio l’organizzazione metropolitica restò praticamente quasi immutata nei secoli successivi, pur in presenza di qualche novità. Nei suoi confronti Cassano mantenne atteggiamenti autonomistici, con l’esenzione da essa più volte difesa e discussa, a motivo del ceto cardinalizio di alcuni suoi titolari e, per questo, comprensibilmente, concessa da Roma, a titolo personaliter tantum;
un’attenzione avuta anche per alcuni vescovi greci di Gerace, come Barlaam di Seminana (1343), il suo successore Simeone Atumano (1348) e Atanasio Calkeopoulos (1483) vescovo di Gerace e Oppido. Riguardo alle suffraganee, Nicotera risulta soppressa ai primi del XIV sec. e unita dapprima a Mileto. La metropolia di Santa Severina vide la soppressione della piccola diocesi di San Leone da parte di Pio V e il nuovo ingresso come suffraganea di Cariati, eretta nel 1437 da Eugenio IV e unita a Cerenzia, nonostante reiterate – ma infruttuose – pretese a proprio favore avanzate fino a quasi tutto il sec. XVI dagli arcivescovi di Rossano con la motivazione di essere stata Cariati, all’atto dell’istituzione a diocesi, una parrocchia del suo territorio. Sotto il profilo più strettamente ecclesiologico, una nota di peculiare e qualificante interesse nei secoli compresi tra la conquista normanna e il concilio di Trento è rappresentata dalla fisionomia greca e latina che caratterizza alcune diocesi della regione. L’opera di rilatinizzazione, intrapresa dagli Altavilla con sistematica e progressiva determinazione, seguendo un piano geografico ben preciso, di fronte a forti resistenze – lo si è prima notato – era venuta mitigandosi e la politica religiosa a questo riguardo divenne più accorta, attenta e rispettosa degli assetti diocesani, prodiga verso le istituzioni monastiche bizantine, facendo registrare l’illusione di una rinascenza, che non poteva a lungo resistere proprio per il mutato e irreversibile quadro politico, che ne avrebbe, tra l’altro, condizionata la continuità. Ma aveva creato una doppia realtà: non solo la contemporanea presenza in Calabria di diocesi di rito greco e di rito latino, ma la coesistenza e sopravvivenza in diverse diocesi dei due riti. Il fenomeno va puntualizzato caso per caso, cioè per ogni singola diocesi e con rispettive precisazioni cronologiche nel corso del XII-XVI sec. In linea di massima, si può dire che se il rito greco fu specifico delle diocesi rimaste bizantine (Bova, Oppido, Nicotera, Rossano, Santa Severina, San Leone, Isola, Crotone), anche in quelle latinizzate continuò ad essere celebrato nei capitoli cattedrali, nelle parrocchie e nelle chiese dove il clero greco era presente e vi svolgeva regolare ministero. E, se via via l’orbita latina si ampliò, resteranno a lungo l’attaccamento al rito greco, la sua difesa e conservazione in diocesi dove più fortemente esso era radicato, nonostante l’immissione di vescovi latini già a partire dalla metà del XIV sec. Anche se i provvedimenti preposti erano meno drastici (taglio della barba, breviario latino e simili), in un fallimento si risolse, invece, il tentativo di sopprimere totalmente il rito greco in Calabria fatto nel 1334 dal cardinale Raimondo di Cranat, conte di Campagna e vicario di Giovanni XXII, con ordini precisi e perentori. Le disposizioni, trasmesse «col permesso di Dio e la collaborazione del diavolo» dall’arcivescovo di Reggio, Pietro, furono revocate dallo stesso vicario presso cui erano stati inviati prontamente messaggeri dai vescovi Basilio di Bova, Basilio di Oppido e Gioannicio di Gerace. Assottigliandosi, tuttavia, la presenza greca e in dissoluzione le concause politico- ecclesiali, che pure ne erano state all’origine ed il sostegno, il rito greco andava inevitabilmente verso il suo declino. Più a lungo resistette solo in alcune diocesi fino a quando non fu definitivamente soppresso: a Rossano nel 1461 dall’arcivescovo Matteo Saraceno, a Gerace e Oppido nel 1480 da Atanasio Calkeopulos, a Bova nel 1573 da Giulio Stauriano. Nondimeno, isole di lingua o di rito greco sono rilevabili in paesi e parrocchie di diverse diocesi fino al XVII sec. avanzato (Reggio, Bova, Oppido, Nicastro, Cassano). Ma ciò che si dissolveva per cause endogene, riprendeva a vivere per motivi esterni. Le massicce emigrazioni, sotto l’incalzare dei turchi, dall’Albania in Calabria, e in altre regioni del sud (Abruzzo e Molise, Puglia, Lucania, Sicilia) nella seconda metà del Quattrocento e nella prima del Cinquecento, portarono i profughi a stanziarsi particolarmente nei territori delle abbazie di rito greco-bizantino, dove trovarono accoglienza spirituale e sostegno materiale con l’affidamento di terreni da coltivare. Le diocesi maggiormente interessate al fenomeno furono Cassano, Rossano, Bisignano, San Marco Argentano, dove sorsero diversi casali, divenuti in seguito veri e propri paesi. La situazione venutasi di fatto a creare apparve evidente e problematica all’indomani del concilio di Trento, quando, tra il 1564 e il 1580, i primi vescovi effettivamente residenti nelle diocesi per le quali erano stati nominati, vi «scoprivano» comunità cristiane – o italianizzate o non italiane sotto il profilo linguistico ed etnico – con usi sacri, liturgia greca, clero uxorato, la viva consapevolezza di appartenere alla Chiesa bizantina greca e da essa in tutto dipendenti, in quanto vescovi itineranti ordinati dalla Chiesa bizantina (patriarchi di Costantinopoli e arcivescovi metropoliti di Ohrid in Macedonia) erano stati autorizzati dal papa di Roma ad esercitare una giurisdizione personale sui fedeli in diaspora della loro Chiesa, con la evidente esenzione delle medesime comunità dalla giurisdizione di rito latino. Lo studio della situazione impegnò la congregazione per la riforma dei greci, diretta da esperti porporati come i cardinali Guglielmo Sirleto e poi Antonio Giulio Santoro, dall’atto della sua costituzione (1573) fino alla silenziosa scomparsa. Il quadro, emerso a Roma dalle consultazioni dei vescovi, portarono Pio IV a emanare, il 16 febbraio 1564, il breve Romanus Pontifex, in forza del quale venivano sospesi e abrogati tutti i favori (immunità ed esecuzioni) concessi dai suoi predecessori, dal 1445 al 1562 – prima e dopo il concilio di Trento – a vescovi, sacerdoti e fedeli della Chiesa greca bizantina. Di conseguenza, coloro che le erano ancora legati venivano sottoposti, incondizionatamente ed immediatamente, agli ordinari territoriali latini. Da allora i documenti pontifici parlano di ritus o mos Graecorum – non più di Chiesa greca – tollerato per benevolenza pontificia dove vi fossero fedeli all’interno della Chiesa latina romana. Tali posizioni, e con forme ancora più restrittive, mantennero ferme Pio V con la bolla Providentia Romani pontificis (20 agosto 1566) e Clemente VIII con la Perbrevis Instructio (1596). In quest’ultima si confermava una novità: la figura di un vescovo ordinante speciale in seno alla gerarchia episcopale della Chiesa latina e l’obbligo per tutto il clero italo-greco di subordinarsi ai canoni del clero della Chiesa latina. La classificazione albanesi o greci, usata a livello locale (Rossano 1574, Cassano 1581), si tramutò nella canonistica curiale romana in quella di italogreci, senza ulteriori precisazioni circa la originaria variegata e diversificata discendenza e provenienza territoriale. Ma proprio l’insieme dei problemi sottesi a tale generalizzazione conferma come nelle Chiese di Calabria – e dell’Italia meridionale – sia più esatto e pertinente parlare di «persistenza» più che di «decadenza» della Chiesa greca, ben oltre ripetuti schemi storiografici, anche se la questione rimane complessa. Le popolazioni albanofone hanno così convissuto con quelle indigene, italiane, respirando e assimilando usi e pratiche religiose estranee alla loro tradizione e, in qualche caso, subendo anche l’imposizione del rito latino. Il problema, sempre vivo a livello locale e presente all’attenzione della Santa Sede, cominciò ad avere un primo sbocco favorevole con la istituzione del collegio greco di Sant’Atanasio a Roma nel XVII sec. e la fondazione del collegio italo-albanese (collegio Corsini) a San Benedetto Ullano (Cosenza) ad opera dei Rodotà e di papa Clemente XII. La formazione, ispirata alla riscoperta e alla valorizzazione della propria identità, favorendone una più precisa coscienza, promosse un primo fecondo risveglio, di cui alcune figure di spicco restano l’emblema. L’istituzione, da parte di Benedetto XV, del vescovado di Lungro (13 febbraio 1919) come eparchia degli italo-albanesi dell’Italia continentale e costituita prevalentemente con la sottrazione e l’assegnazione dei paesi albanofoni esistenti nel territorio delle limitrofe diocesi di Cassano, San Marco Argentano-Bisignano e Rossano, può essere considerata il completamento di un’opera che, sia pure con percorsi e motivazioni storiche diverse dal periodo bizantino, ripropone con la dovuta dignità il rito orientale e i valori di un’etnia in una feconda convivenza di permanente apertura ecumenica. La partecipazione dell’episcopato calabrese al concilio di Trento risulta diversificata nelle tappe della sua celebrazione. Nel primo periodo (1545-1549) furono presenti i vescovi di Belcastro (Giacomo Giacomelli, molto attivo) e di San Marco (Coriolano Martirano, umanista, predicatore nella seconda e nella settima sessione, incaricato di redigere le lettere in latino del concilio ai principi, uno dei quattro vescovi inviati dal viceré di Napoli come procuratore di tutti i prelati del Regno) e i vescovi residenti in curia di Santa Severina (Giulio Sertorio), di Mileto (Quinzio de Rusticis), di Rossano (Girolamo Veralli), mentre avevano dato procura ad altri l’arcivescovo di Reggio (Agostino Gonzaga) e i vescovi di Bisignano (Fazio Acella), e di Bova (Donato Curnali), di Cariati-Cerenzia (M. A. Falconi) e di Martirano (S. A. Fedurzio). Se al secondo periodo (1551- 1552) non intervenne nessuno, al terzo (1562-1563) il quadro è più articolato: vi parteciparono gli arcivescovi di Rossano «senior» (Paolo Emilio Veralli) e attuale in funzione (Giambattista Castagna, futuro Urbano VII), di Santa Severina, e di Reggio Calabria (Gaspare Dal Fosso) e i vescovi di Mileto, Umbriatico, Bova, Isola, San Leone, Cerenzia, Crotone, Nicastro (Facchinetti, poi papa Innocenzo IX), Oppido, San Marco, Tropea e Catanzaro, mentre assenti furono l’arcivescovo di Cosenza, e – forse perché sedi in parte vacanti – i vescovi di Bisignano, Belcastro, Strongoli, Cariati, Gerace, Nicotera, Cassano, Squillace e Martirano. Tralasciando il notevole diretto contributo offerto da alcuni di loro al concilio (basti ricordare Dal Fosso e Castagna), e le consulenze richieste dai legati papali e fatte pervenire da Roma da Guglielmo Sirleto (poi vescovo di San Marco [1566-1568] e di Squillace [1568-1573]) e da Giulio Antonio Santoro (in seguito [1570] arcivescovo di Santa Severina), l’attenzione va posta sull’esame dettagliato e comparato dell’applicazione delle disposizioni emanate da Trento da inquadrare nella situazione socio- politico-religiosa della Calabria pretridentina, sia sul versante degli aspetti negativi (eccessivo fiscalismo e mercimonio dei propri feudi, aggravato dal brigantaggio, dallo scompaginamento e stasi dell’attività agricolo-economica, dalla pirateria e da disastri naturali;
per le Chiese: la commenda e l’amministrazione beneficiata), sia in quello dei fattori più emergenti della pre-riforma (fermenti mistici, ravvivati da Gioacchino da Fiore, ereditati dal monachesimo bizantino, correnti spirituali francescane/apocalittiche, entusiasmi mistico- popolari regionali, impersonati da Francesco di Paola – anche se questa figura rappresenta molto di più –, dalle riforme monastiche, domenicane e degli agostiniani, dalla riforma cappuccina) o successiva allo stesso concilio (la fondazione del cosiddetto ordine basiliano [1579] e la riforma interna dei francescani conventuali ad opera di padre Gesualdi da Castrovillari). La mole delle fonti conservate, più ricca e varia rispetto ai secoli precedenti, nonostante le tante perdite subite, è già indice di una Chiesa regionale avviata a maggiore ordine e cura. Se ne possono osservare i grandi tornanti fissando appena l’attenzione su atti e iniziative cruciali perché Trento non restasse lettera morta. Anzitutto i concili provinciali, indetti dai metropoliti. A Reggio ne furono celebrati ben quattro – i primi tre convocati da Gaspare Dal Fosso, tra l’ultimo quarto del Cinquecento e i primi del Seicento: nel 1565 (con la partecipazione dei vescovi di Mileto – immediatamente soggetta alla Santa Sede – e dei suffraganei di Nicotera, Bova, Catanzaro, Gerace, Nicastro, Oppido – ma non di Cassano – e dei vicari delle abbazie di Bagnara e della Trinità di Mileto);
nel 1574, presenti tutti i suffraganei;
nel 1580 (con la partecipazione dei vescovi di Nicotera, di Mileto, di Tropea, di Catanzaro, di Oppido, di Gerace, di Bova, nonché dei vicari di Crotone e di Nicastro, dell’abate della Santissima Trinità di Mileto e del vicario dell’abbazia di Bagnara);
nel 1602, convocato dall’arcivescovo Annibale D’Afflitto (con l’intervento dei vescovi suffraganei di Nicotera, Tropea, Gerace;
dei vicari dei vescovi di Catanzaro, Crotone, Nicastro, Oppido – per l’assenza degli ordinari delle rispettive diocesi – del delegato capitolare di Squillace – in sede vacante – dei vicari delle abbazie della Trinità di Mileto e di Bagnara, e del procuratore della certosa di Santo Stefano del Bosco, a Serra San Bruno). Altri tre a Santa Severina pressoché nello stesso periodo: i primi due sotto l’arcivescovo Francesco Antonio Santoro nel 1574, «ripetuto » nel 1580 probabilmente per sanzionare i decreti varati nel 1574. L’ultimo fu indetto e celebrato da Alfonso Pisani nel 1592. Anche a Cosenza si tennero concili provinciali nel 1579 (con probabile partecipazione dei vescovi di Cassano, San Marco, Bisignano – nonostante la nota opposizione Cassano-Reggio e le immediate subiectae alla Santa Sede delle altre due – e di Martirano, in quanto suffraganea di Cosenza) e nel 1596 (con la presenza dei vescovi di San Marco, Martirano, Cariati e Umbriatico). A questi concili provinciali vanno aggiunti, quasi in contemporanea con i precedenti, i sinodi di singole diocesi: Cassano, 1565 (Serbelloni, tramite il vicario generale Matteo Mattesilano), 1588 (Carafa), 1591 (Audoeno, tramite il vicario capitolare Bartolomeo Conto), 1604 (Gaetani);
Rossano, 1574 (Lancellotti) e 1594 (Sanseverino);
Cosenza, 1579 (Petrignani) e 1592 (Costanzo);
Mileto, 1587, 1581, 1594 (Del Tufo);
Gerace, 1593 (Bonardo);
Cariati e Cerenzia, 1594 (Resta). Molto più intensa fu la celebrazione dei sinodi nel XVII e XVIII sec., in quanto interessando tutte le diocesi, dove alcuni vescovi si distinsero per un impegno maggiore, segno evidente che il richiamo alle disposizioni tridentine restava ancora sull’onda lunga, che appare, invece, già in notevole rientro nel XIX sec. e oltre la prima metà del XX, quando il concilio Vaticano II segnerà un nuovo punto di partenza, e una ripresa sinodale ma a notevole distanza. L’istituzione dei seminari conobbe anch’essa date distanziate, causate, tra l’altro, da difficoltà economiche dipendenti in parte dalla mancata concessione dei fondi dei conventi soppressi, e con presenze diversificate («alunni» e «convittori »). Ma lo stato delle singole diocesi, nelle sue tappe progressive per confronto a tutto campo è dato prevalentemente e in modo seriale dal complesso delle relazioni per le visite ad limina e degli atti delle visite pastorali. A partire dagli ultimi decenni del XVI sec., per quantità e qualità legate soprattutto alla personalità dei singoli vescovi, tali fonti da confrontare con altre coeve e complementari illuminano sui favori e sugli ostacoli incontrati dalla riforma cattolica tridentina. Una valutazione complessiva fa concludere per una mancata completa applicazione, dovuta ad una mentalità ambientale, condizionata da una molteplicità di fattori fortemente radicati e perciò quasi ingessata a comprendere e condividere l’opera di vescovi attivi e convinti della prassi riformatrice. La situazione, nelle linee di fondo, permane per tutto il periodo del viceregno spagnolo (1503-1707) e non poco vi contribuiranno le pretese regaliste in campo ecclesiastico e l’anticurialismo borbonico del Settecento, per cui lo stesso «Trattato» del 1741, mentre da una parte rappresenta una «purificazione» da elementi inquinanti una più pura e ordinata prassi civile-ecclesiastica, dall’altra non raggiunge quella «pacificazione» duratura ed efficace che si sarebbe desiderata. La Cassa Sacra, istituita all’indomani del funesto terremoto del 1783, nei fini e nelle vicende che l’accompagnarono, rappresentarono un altro osservatorio soprattutto in ordine a strutture e patrimoni ecclesiastici della regione, già oggetto di interventi nei decenni precedenti. Sotto il profilo istituzionale, la situazione delle diocesi quali si configura nel periodo del Viceregno, durante la seconda metà del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento conobbe sensibili variazioni, che divennero novità all’indomani della Restaurazione. Il concordato del 1818 tra papa Pio VII e il re Ferdinando I di Napoli, nella più generale revisione delle diocesi del Regno, ne ridimensionò il numero anche in Calabria che da ventiquattro passano a diciotto. Vennero ridotte allo stato di semplici collegiate, soppresse ed aggregate ad altre più vicine, sei diocesi: Belcastro (a Santa Severina), Cerenzia, Strongoli, Umbriatico (a Cariati), Isola (a Crotone), Martirano (a Nicastro). Con parità di titolo, Nicotera venne unita aeque principaliter e aggregata a Tropea, e San Marco fu egualmente unita a Bisignano. Anche per metropolie e suffraganee le cose cambiarono. A Reggio furono confederate le Chiese vescovili di Gerace, Bova, Oppido, Catanzaro, Crotone, Tropea, Nicotera, Nicastro e Cassano;
a Santa Severina solo Cariati. L’arcidiocesi di Cosenza e l’arcidiocesi di Rossano rimasero per l’avvenire senza suffraganee. L’unica diocesi lasciata intatta fu Mileto. Cambiamenti, causati da alterne e nuove vicende riguardanti nel corso dell’ Ottocento l’Italia meridionale e l’Italia tutta sotto il duplice profilo politico e religioso e del loro mutuo rapporto, ne fanno accusare i contraccolpi nelle Chiese calabresi. La presenza non sempre continuativa dei pastori in sede ne è appena un aspetto. Lo conferma la prassi dei sinodi diocesani che fu molto ridotta rispetto ai secoli precedenti e discontinua negli anni e pressoché attivata isolatamente (1845: Crotone;
1858: Nicastro;
1859: Rossano;
1876: Santa Severina;
1879: Gerace;
1880: Cosenza;
1883: Tropea- Nicotera;
1889: Squillace). Lo confermano anche le numerose relazioni ad limina attraverso cui è possibile seguire tratti comuni e, soprattutto, aspetti nuovi e specifici. L’attivazione della conferenza episcopale regionale (1890) pose una premessa per la trattazione collegiale di problemi concernenti tutte le Chiese della regione, e concordare alcuni indirizzi e orientamenti comuni, con atti magisteriali, lettere collettive – tra le più note quella del 1916 – notificazioni, promozione e coordinamento di iniziative. Rientrano in questi ambiti il I congresso cattolico calabrese (1896), il congresso regionale cattolico di Gerace (1908), il II convegno cattolico calabrese (1913), tutti concentrati a riflettere su come rendere operativo e recuperare i ritardi in ordine al bisogno di avere in Calabria un efficace movimento cattolico, il significato della istituzione dei seminari interdiocesani di Cosenza, Catanzaro, Reggio, Mileto e Rossano (1907) e poi – ma con una storia e con un ruolo peculiari – la fondazione dei due Pontifici seminari regionali – il «Pio X» di Catanzaro (1912) e il «Pio XI» di Reggio Calabria (1933). La necessità di codificare in modo vincolante norme unitarie per le diocesi della Calabria portò anche a due concili regionali: quello celebrato a Reggio nel 1934, da considerarsi come primo e unico «plenario », nella storia ecclesiastica della regione in quanto vedeva insieme i metropoliti di Reggio e di Santa Severina;
il secondo, nel 1961, «provinciale» – ma ugualmente regionale – perché la metropolia di Santa Severina era stata soppressa. La penetrazione del concilio Vaticano II e le scelte pastorali programmaticamente sviluppate nei piani decennali della Cei hanno fatto maturare l’esigenza di un «convenire» più frequente e ravvicinato nel tempo delle Chiese calabresi. In questo spirito si sono tenuti i convegni ecclesiali regionali (1978: «Paola 1»;
1991: «Paola 2»;
1997: «Paola 3», come «ricaduta» dei nazionali e con molta differenza di quello successivo nel 2000 a Squillace), esperienze più promettenti e generatrici di nuovi organismi di riflessione e di esame della realtà pastorale e sociale, come il Centro ecclesiale regionale (Cer) e la Facite, pur se non privi di aspetti problematici per una continuità organica. Spunti di un disegno pastorale attento ai nodi più emergenti venivano offerti anche dalle allocuzioni dei sommi pontefici ai vescovi in visita ad limina (Paolo VI: 1977;
Giovanni Paolo II: 1981, 1986, 1992) e dalle visite pastorali di Giovanni Paolo II in Calabria (6-8 ottobre 1984 e 1988). L’ordinamento delle diocesi, intanto, ha ricevuto una nuova strutturazione e un nuovo riassetto, motivati – a livello più generale – dalla necessità di ridurne il numero e per stimolarne la sufficiente vitalità, a motivo dell’esiguità del territorio, degli abitanti e degli organismi pastorali. Il decreto Instantibus votis della congregazione dei vescovi del 30 settembre 1986, precisando e determinando anche tutti gli aspetti connessi alla piena unificazione, ha così ridefinito le nuove circoscrizioni ecclesiastiche: Catanzaro-Squillace, Cosenza- Bisignano, Crotone-Santa Severina, Locri-Gerace (nuova dizione rispetto a Gerace- Locri mutata il 22 febbraio 1954, con il trasferimento della sede episcopale da Gerace a Locri), Oppido Mamertina-Palmi (già Oppido Mamertina), Mileto-Nicotera- Tropea, Reggio Calabria-Bova, Rossano- Cariati, San Marco Argentano-Scalea (già San Marco, 1179, e Bisignano, X sec., unita 27 giugno 1818). Restavano intatte nel nome (ma non nel territorio) Cassano allo Jonio e Lungro (con il precedente assetto), mentre Nicastro veniva mutata in Lamezia Terme. Sensibili i cambiamenti, anche, circa il territorio: la nuova sistemazione rispondeva ai confini delle tre province di allora (Cosenza, Catanzaro, Reggio Calabria), entro cui venivano a trovarsi le nuove diocesi. Anche in rapporto a queste modifiche, comportanti delicati risvolti negli organismi pastorali, nel clero e nelle popolazioni interessate, ma soprattutto per affrontare le sfide della «nuova» evangelizzazione, si è aperta per diverse diocesi la stagione dei sinodi diocesani, più o meno a lungo preparati, tra gli ultimi decenni del XX sec. e i primi anni del XXI: Crotone- Santa Severina (1984-1990), Catanzaro- Squillace (1989-1995), Lamezia Terme (1992), Reggio Calabria-Bova (1995-1999), Lungro (1997-1999) e il sinodo intereparchiale con Piana degli Albanesi e il monastero esarchico di Grottaferrata (2002- 2005);
Rossano 1989-1992, rimasto interrotto per il trasferimento dell’ordinario ad altra sede. L’ultimo intervento (31 gennaio 2001) ha riguardato il numero e la conformazione delle metropolie con moduli solo in parte continuativi, ma soprattutto innovativi rispetto al passato, nei termini seguenti: mantenimento dell’arcidiocesi di Reggio Calabria-Bova come metropolitana, continuando ad avere come suffraganee le sedi vescovili di Locri-Gerace, Mileto- Nicotera-Tropea e Oppido Mamertina- Palmi;
elevazione a metropolitana della sede di Catanzaro-Squillace (prima di allora solo arcivescovile e immediatamente soggetta) con l’assegnazione a suffraganee delle sedi di Crotone-Santa Severina (arcidiocesi prima di allora suffraganea di Reggio Calabria), Lamezia Terme (diocesi prima di allora suffraganea di Reggio Calabria);
elevazione a sede metropolitana della sede di Cosenza-Bisignano (prima di allora arcivescovile e immediatamente soggetta), con l’assegnazione come suffraganee di Rossano- Cariati (arcidiocesi prima di allora suffraganea di Reggio Calabria), Cassano allo Ionio (diocesi prima di allora suffraganea di Reggio Calabria), San Marco Argentano- Scalea (diocesi prima di allora immediatamente soggetta). Unica diocesi immediatamente soggetta è rimasta quella di Lungro.
Bibliographie
I testi riportati si riferiscono a studi riguardanti più diocesi nei quali le fonti e la bibliografia precedenti sono criticamente analizzate e discusse dagli autori. Ad essi si rimanda per una rassegna puntuale e completa. Kehr X;La Chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo, Atti del Convegno Storico Internazionale, Bari 30 aprile-4 maggio 1969, 3 voll., Padova 1973;
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QUELLE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.