Regione ecclesiastica Emilia Romagna
STORIA
I - Le origini
Il cristianesimo emilianoromagnolo sembra «supporre un’origine pluralistica» (Orselli). Accanto alla originaria unica metropolia di Roma, nel IV sec. si costituì la sede metropolitana di Milano; da questi due centri partì la cristianizzazione della nostra regione, cioè del territorio tra Aemilia et Liguria e Flaminia et Picenum: se Ravenna e Rimini afferivano a Roma, è certo che Imola, Bologna, Modena, Piacenza erano sotto la cura di Milano (si vedano, in questo senso, le Lettere di Ambrogio). Come è facile immaginare, anche nella nostra regione c’era stata una precedente fase di evangelizzatori anonimi, militari e mercanti, approdati nei porti di Classe e Rimini e giunti nei vari centri lungo la via Emilia. Non si può pertanto escludere una presenza cristiana sul litorale tra la fine del I e l’inizio del II sec.; le prove archeologiche (specie le tombe cristiane) accertano tuttavia una presenza cristiana nella regione solo verso la fine del II sec. Nell’opera di evangelizzazione si sarebbe distinto il vescovo Apollinare, di origine antiochena. La tradizione della ecclesia Ravennatum et Classicanum ha sempre avuto così come riferimento, circa le sue origini, le due sedi petrine di Antiochia e Roma. Se Classe al tempo delle prime manifestazioni del cristianesimo fosse comunità civica autonoma rispetto a Ravenna, oppure sobborgo a quella unito e tale rimasto sin oltre la metà del V sec., oppure ancora centro militare di un unico abitato del quale Ravenna costituiva il centro, è un interrogativo cui neppure la recente ricerca ha dato risposta. A Classe, e non a Ravenna, furono innalzati i primi edifici di culto cristiano e lì furono sepolti, se non anche risiedettero, i primi undici o forse tredici vescovi, fino a Severo o addirittura a Probo II; certamente cominciarono a risiedere a Ravenna nel primo quarto del V sec. La più antica comunità cristiana emiliano- romagnola è dunque quella classense- ravennate (II sec.). Di un secolo dopo, anche se documentate sicuramente solo dall’inizio del IV sec., sono le chiese di Rimini, Faenza e Bologna. A testimoniare l’antichità della chiesa faentina e di quella riminese è la presenza dei vescovi Constantius a Faventia e Stemnio per Ariminum (S. Optat. Milev., Contra Parmenianum Donatistam I 23, PL XI, 932 e CSEL XXVI, 26) al sinodo romano di papa Melchiade il 2 ottobre 313. Questo fatto ha indotto Zattoni e, più moderatamente, Lanzoni ad abbracciare l’ipotesi che in Faenza e Rimini il cristianesimo fosse organizzato in diocesi già nel III sec., ritardando al IV sec., e anche dopo, l’istituzione delle altre diocesi legate, come tutto il territorio nord-occidentale, all’azione della chiesa di Milano, la cui città tra II e III sec. cominciava a porsi come polo dell’Italia centrosettentrionale. Bologna è l’unica Chiesa, assieme a Ravenna, che possiede senza lacune l’elenco dei vescovi. Il protovescovo Zama è legittimamente collocato all’inizio del IV sec., alla fine del quale troviamo attestate le chiese di Piacenza, Parma-Brescello, Reggio, Modena, Imola. Il documento più antico di storia ecclesiastica piacentina è la redazione della Revelatio vel Inventio, cioè del ritrovamento, avvenuto verso la fine del IV sec., del corpo del martire Antonino (†303). Il primo vescovo di cui si conosca il nome fu Vittore (322?-374?), anch’egli nel testo dell’Inventio. Il secondo fu Sabino o Savino, probabilmente romano di patria, vescovo per lungo tempo (375-394 o 395?); con Ambrogio condivideva l’ortodossia antiariana. L’esistenza della sede vescovile di Parma è attestata già nella seconda metà del IV sec., quando venne destituito il vescovo Urbano in quanto seguace dell’arianesimo. È probabile che prima di lui vi sia stato un altro vescovo, di cui però non si hanno notizie. Pare che la sede episcopale sia stata allora spostata da Ambrogio a Brescello, dove fu insediato Genesio. La sede tornò definitivamente a Parma nel 497. La serie dei suoi vescovi si interrompe fino al IX sec., quando ritroviamo Pietro, vescovo della Chiesa parmense fino all’819. Nel territorio reggiano non si ha notizia di persecuzioni ai cristiani, però si trovano reperti paleocristiani risalenti alla metà del III sec. L’origine della diocesi, come testimonia Ambrogio, risale alla seconda metà del IV sec. Dei primi vescovi si conoscono solo i nomi. Nono vescovo fu Prospero, santo e patrono principale, defensor civitatis durante la guerra fra Teodorico e Odoacre (489-491). Al IV sec. risale il primo dato certo relativo all’esistenza di una sede in Modena, riguardante il vescovo Geminiano, testimoniato nel 390 al concilio di Milano. Nella Vita II di Geminiano (XI sec.) si citano il predecessore e il successore, Antonio e Teodoro o Teodulo (nel 396 notarius a Milano). Gli studi recenti fissano l’episcopato di san Geminiano tra il 343 e il 397. La più antica fonte conosciuta che menzioni la diocesi di Imola è una lettera di sant’Ambrogio, indirizzata, nel 379, al suffraganeo Costanzo, con raccomandazioni perché vigilasse sulla chiesa di Imola fino all’elezione di un nuovo vescovo (Epistolae, I, II, 27-28). Nei primi decenni del V sec. la diocesi divenne suffraganea di Ravenna. Al V sec. si fanno risalire le diocesi di Forlì e Forlimpopoli. Protovescovo di Forlì viene considerato san Mercuriale, di cui non si possiedono notizie certe. È documentato (894) anche un monastero a lui intitolato, fuori dalle mura cittadine. San Rufillo è ritenuto il primo vescovo di Forlimpopoli, ma sulla sua figura non esistono notizie affidabili. Il territorio diocesano, abbastanza vasto e comprendente soprattutto le tre valli forlivesi, si estendeva fino ai vertici dell’Appennino e ospitava anche fondazioni monastiche, quali Sant’Ellero di Galeata (sec. VII) e San Benedetto in Alpe (sec. IX). Tra la fine del V sec. e l’inizio del VI si collocano le origini di Ficocle-Cervia e Cesena, mentre Sarsina entra nel nostro quadro solo nel VII sec. Gli storici oggi sostengono che la diocesi di Cervia, non lontana da Ravenna, sia stata creata dai papi per controllare la metropolia ravennate, stornando forse il territorio dalla diocesi di Cesena. I nomi dei primi vescovi di Cesena non sono supportati da fonti storiche e la prima notizia certa risale al 603, quando una lettera di papa Gregorio Magno testimonia l’esistenza del vescovo Natale. Comacchio è attestata come sede vescovile all’inizio dell’VIII sec. Del tempo delle persecuzioni non restano alla regione che pochi eroi martirizzati. Non si accetta infatti più che in Romagna all’inizio del IV sec. fossero diocesi anche le città intermedie di Cesena, Forlì e Forlimpopoli; e tanto meno che da Costantino in poi tutti i centri avessero una sede. Del resto le stesse Passiones, moltiplicatesi nel V-VI sec. per soddisfare la curiosità dei devoti, non citano che pochissimi vescovi e diocesi per i primi due secoli. E così la Passio (o la Vita) di sant’Apollinare, risalente forse al VII sec., informa che il santo vescovo fu inviato a Ravenna dall’apostolo Pietro. Storicamente parlando, le cose andarono diversamente, ma ancora la storiografia non ha fatto piena luce. Probabilmente l’esistenza di precedenti comunità va ammessa dove si attestano i pochi martiri sicuri della regione, ossia a Piacenza (Antonino), Bologna (Vitale, Agricola, Procolo) e Imola (Cassiano). Sul martirio di Apollinare vi sono dubbi; di altri quali Giuliano a Rimini e Donnino a Fidenza le notizie sono incerte. Nella incertezza delle fonti, i martiri, a eccezione di Apollinare, vengono assegnati convenzionalmente alla persecuzione di Diocleziano (303-307) o, più raramente, a quella di Valeriano (260). Agli altri santi non martiri, fatti risalire anche al V sec., il culto cittadino viene tributato di fatto solo a partire dal IX sec.: san Mercuriale a Forlì, san Rufillo a Forlimpopoli, san Maurelio a Ferrara, san Gaudenzo a Rimini, san Marino al monte Titano, san Leo nella rocca a lui intitolata, san Vicinio a Sarsina, sant’Ilario a Parma; san Prospero a Reggio Emilia (841); molto più tardo il culto di san Petronio a Bologna.II - Medioevo ed epoca moderna
Malgrado le invasioni, l’Esarcato resiste ai longobardi, che non riescono a stabilirsi nel territorio tra il fiume Sillaro e il Reno: questa insula esarcale rimane l’unico punto della penisola guidato da leggi, costumi e sistema alimentare di provenienza romana. È in questa congiuntura che sorge il termine Romagna: «Romandiola», «Romania » e poi «Romagna», in opposizione alla «Langobardia» e «Lombardia» dei longobardi. Sono secoli cruciali per la caratterizzazione culturale, produttiva e religiosa del territorio regionale, ma soprattutto per la differenziazione tra le zone, come ben mostra la città di Bologna che, anche grazie all’apporto longobardo e alla sua università degli studi, assorbe fortemente la cultura degli occupanti. In questi anni la chiesa di Ravenna, intanto, vive un contatto molto intenso con le altre chiese dell’ecumene romana, per l’andirivieni di papi e di vescovi a corte. Di quegli anni Ravenna conserva testimonianze architettoniche e musive (si vedano in particolare i lavori di Giuseppe Bovini) nei molti luoghi di culto sopravvissuti; fra tutti, la chiesa di San Vitale (consacrata il 17 maggio 457), che rappresenta il vertice più alto dell’architettura paleobizantina in Occidente. L’età teodericiana segna anche una ripresa economica e demografica di Ravenna e dei centri urbani della regione, grazie a opere di bonifica, al recupero di materiali abbandonati e alla ricostruzione delle città romane. In quegli anni Parma fu cinta di mura, in molte città (Parma, Ravenna, Faenza, Forlì) venne restaurato l’acquedotto, mentre le alluvioni del Po (502) e del Reno (589) indebolirono la vita cittadina di Reggio, Modena e Brescello e avviarono una decadenza demografica. Modena venne ricostruita nell’VIII sec. a opera del re longobardo Cuniberto. La restaurazione bizantina in Emilia-Romagna sconvolse specialmente l’equilibrio demografico. I due eserciti, bizantino e goto, fronteggiatisi per quasi un ventennio, recarono un grave colpo all’agricoltura italiana; carestie e razzie fecero il resto. Nel 552 i bizantini si erano di nuovo impossessati di Ravenna e Rimini, mentre i goti continuavano a controllare Parma e Bologna: due anni dopo i bizantini ebbero la meglio sui goti ribelli e sui franchi invasori, e si conquistarono la libertà. In questo periodo di conflitti, le diocesi rimasero vacanti per anni. La stessa composizione etnica della popolazione emiliano-romagnola subì profondi rimescolamenti: romani, orientali, goti, franchi, longobardi. La restaurazione giustinianea, dalla conquista di Ravenna (540) alla calata dei longobardi (568-569), assegnò alla Chiesa cattolica i possessi dei beni della Chiesa gota-ariana. La Chiesa ravennate costituiva il cardine del programma di restaurazione giustinianeo e fu potenziata con terre ed elargizioni per l’edilizia sacra; le fu concesso anche il titolo arcivescovile. Negli anni della contesa tricapitolina le diocesi soggette al metropolita di Milano (ossia le sedi di Liguria ed Emilia) si staccarono dalla giurisdizione ambrosiana ed entrarono nella provincia ecclesiastica ravennate, da cui rimasero estranee le diocesi della Flaminia. Ravenna continuò a dipendere dal papa e a sostenere la politica dell’imperatore. L’invasione longobarda e lo stato di guerra permanente fra longobardi e bizantini imposero un assetto amministrativo militarizzato. Così, se nel VI sec. l’esarca aveva compiti di comandante militare, alla fine dello stesso secolo era governatore generale dei domini bizantini. All’inizio del VII sec., dopo i vari eventi militari, il confine tra longobardi e bizantini correva tra Parma e Piacenza. In poco più di un secolo i longobardi riuscirono a conquistare le terre da Pavia a Bologna, no nostante la resistenza della regione, grazie anche all’alleanza tra bizantini, papato e franchi. I longobardi introdussero la pastorizia e l’allevamento dei suini; lo stabilizzarsi del loro dominio e la relativa pace favorì anche nelle campagne una ripresa agricola e demografica. Nel corso del VII sec. tendenze autonomistiche di Ravenna e tentativi dell’arcivescovo di sottrarsi alla tutela romana accrebbero una coscienza regionale. Nel 666 l’arcivescovo Mauro ottenne dall’imperatore Costante II l’indipendenza della Chiesa di Ravenna dalla giurisdizione di Roma; nel 680 Teodoro, arcivescovo di Ravenna, chiese ed ottenne di essere di nuovo sotto Roma. Nell’VIII sec. Ravenna fu turbata da una guerra civile che opponeva il partito imperiale iconoclasta ai seguaci dell’ortodossia cattolica: i longobardi ne approfittarono per occupare alcune piazzeforti della frontiera occidentale dell’Esarcato e una parte della Pentapoli, finché il collasso della difesa bizantina diede a Liutprando l’illusione di riuscire nella conquista dell’intera penisola. Nella regione il confine longobardo si assestò, dopo le nuove conquiste, sulla linea del fiume Senio, oltre Imola. L’accordo del 754 tra papa Stefano II e Pipino, re dei franchi, delineò la nuova politica papale, tendente a sostituire il dominio bizantino con l’autorità della sede apostolica. Contemporaneamente Sergio, arcivescovo di Ravenna, pensò di garantirsi i diritti dell’Esarcato nel territorio da Imola al mare, rivendicando una sorta di signoria politica e territoriale che né Pipino né il papa erano disposti ad accordare. Sergio venne imprigionato a Roma e liberato solo qualche anno dopo. «La riconciliazione fra Roma e Ravenna, a prezzo della costituzione di una vasta signoria ecclesiastica ravennate, fu politicamente fruttuosa per il papa che cointeressò anche le forze autonomistiche ravennati ad una decisa resistenza contro i tentativi di restaurazione bizantina» (Carile, I, 359). Il patrimonio fondiario della Chiesa ravennate rendeva l’arcivescovo uno fra i maggiori proprietari terrieri d’Italia; molto più circoscritte erano la ricchezza fondiaria e l’autorità temporale degli altri vescovi delle città di Romagna. La città di Ravenna, che era stata la sede degli ultimi imperatori d’Occidente e dei re ostrogoti, continuò ad essere guardata come città imperiale e i sovrani – dai carolingi ai re «italici», dai sassoni agli svevi – continuarono a stazionarvi e convocarvi diete e concili. Una parola meritano le tracce del monachesimo in regione. Nella tarda antichità solo Ravenna (Sant’Apollinare in Classe) e Bologna (vedi Ambrogio, De virginitatis, I, X, 60: PL XVI, 250B) contano luoghi monastici. Durante il periodo della dominazione longobarda, il monaco irlandese Colombano ottenne nel 610 il terreno su cui costruire il monastero di Bobbio, che assunse grande rilievo culturale e religioso. Assieme ai suoi monaci operò alacremente per convertire nella terra piacentina i longobardi ariani e gli indigeni ridiventati pagani. Anche il già ricordato monastero di Nonantola (752), fondato da Anselmo, duca del Friuli, diventerà un centro culturale di prim’ordine. In Romagna nel 754 veniva rilanciato il monastero di Sant’Ellero di Galeata, nel forlivese; all’inizio del IX sec. risale la fondazione del monastero di Pomposa, a nord di Comacchio, che nell’XI sec. diventerà un riferimento del monachesimo riformatore, con le grandi figure di san Romualdo, san Pier Damiani… Nel corso del X e XI sec. le parti della regione andarono strutturandosi intorno a due poli: la casata dei da Canossa e gli arcivescovi di Ravenna. Mentre le città dell’Emilia occidentale venivano inserite nel vasto principato territoriale dei da Canossa, in Romagna Ottone III assegnava il principato delle terre dell’antico Esarcato all’arcivescovo di Ravenna (999). Bologna, contesa dai due poli, restava fuori dalle due formazioni politico-territoriali. Durante lo scontro tra Gregorio VII e Enrico IV la contessa Matilde, ultima erede della casa dei da Canossa, mise la sua potenza a servizio del papa, mentre l’arcivescovo di Ravenna, fedele alle tendenze autonomistiche, si schierò con l’imperatore. Alla fine dell’XI sec. Urbano II sceglieva Piacenza per lanciare, in concilio, un appello alla riconciliazione e all’intesa per organizzare quella che sarebbe stata chiamata la crociata. In quegli anni teologi, canonisti e predicatori come Pier Damiani, Placido di Nonantola, Guido da Ferrara, Pietro Grasso offrivano materiale per il dibattito contro la lotta per le investiture, la corruzione dei costumi del clero, la dilagante simonia. Nasceva nello stesso periodo lo Studium di Bologna, specializzato nel diritto romano. In tempi diversi si andarono formando scuole giuridiche anche nel resto della regione: a Parma, Reggio, Modena, Ferrara. Nel corso di questi anni si assiste alla nascita dei comuni, in circostanze non sempre facili da ricostruire. Con il costituirsi dei comuni si dissolsero i complessi territoriali formatisi intorno ai da Canossa e agli arcivescovi di Ravenna. I comuni, attraverso i consoli, amministravano la giustizia, riscuotevano i tributi, controllavano le vie di comunicazione, promulgavano leggi, regolavano le tariffe doganali e i rapporti monetari con le città vicine e lontane. I comuni fecero lega (la prima lega lombarda) contro Federico Barbarossa, e, con la pace di Costanza, entrarono nella struttura dell’impero, ma le guerre locali fra comuni continuarono a rendere la regione instabile. Intorno al 1175 compare un legato imperiale per la Romagna, cui seguirono altri personaggi con titolo di conti di Romagna o duchi di Ravenna, che tuttavia non furono capaci di fare da pacieri tra i vari comuni. La seconda lega lombarda raccoglieva Piacenza, Bologna e Faenza (unica città della Romagna), mentre restavano filo-imperiali Reggio, Modena, Imola, Forlì. La morte di Federico II (1250) non fece cessare le lotte tra le città. Anzi, il comune di Bologna, situato al centro della regione, cominciò con più lena a perseguire una politica espansionistica verso Modena e Pistoia e, di fronte al declino della chiesa ravennate, tentò di «riscrivere» la sua storia religiosa. I motivi di discordia tra i comuni favorirono per un attimo la politica ambiziosa di Carlo d’Angiò. La vita comunale aveva favorito in tutta la regione un gran fervore di manifestazioni religiose e facilitato il diffondersi dei nuovi ordini (francescani, agostiniani e domenicani). Le fonti ci parlano, per tutto il Duecento, di città percorse dall’ansia di rinnovamento della religiosità popolare. I frati di penitenza – il cui sottrarsi ai doveri della difesa cittadina e agli oneri delle cariche pubbliche era ragione di ricorrente richiamo negli statuti dei comuni d’Italia – sono presenti in tutta l’Emilia-Romagna e, anche se non adeguatamente studiati, li troviamo a Bagnacavallo, a Faenza e in altre località. Molte città della regione sono percorse dai vari ordini mendicanti soppressi dal concilio ecumenico II di Lione nel 1274: dai saccati ai valverdini, dai guglielmiti ai giamboniti. Tali ordini risultano presenti in larga parte delle diocesi emiliano-romagnole. Diverso il caso di Ugo Speroni, membro di una famiglia dell’aristocrazia piacentina. Secondo Ilarino da Milano, Speroni parla nel XIII sec. di giustificazione per fede e teorizza la non evangelicità della distinzione tra chierici e laici, sulla base della convinzione che per mezzo del battesimo i chierici con i laici siano un’unica cosa in Cristo. Egli si fa chierico, non in quanto pretenda di sostituirsi al sacerdozio, ma in quanto intellettuale. La sua religiosità tutta interiorizzata non diede modo al suo messaggio di avere grande diffusione; ebbe tuttavia alcuni seguaci. Del variegato fenomeno ereticale si sono occupati, negli ultimi quarant’anni, storici come Lorenzo Paolini, Raniero Orioli, Gabriele Zanella e Jacques Dalarun. La presenza ereticale in alcune città come Faenza e Rimini durante il XIII sec. era forte e minacciosa. Nella seconda metà del Duecento avviene lo scontro tra autorità ecclesiali e forme di devianza: dal lato dell’ortodossia, l’Inquisizione francescana, basata sul convento locale, le denunce, i processi, e un intero apparato politico e giudiziario; dall’altro, una gerarchia che ricalca quella clericale, con un’elaborazione dottrinale, una rete strutturata di credenti e simpatizzanti. L’eresia non fu mai maggioritaria, né a Rimini né altrove: per calcolo o paura erano i chierici a gonfiarne l’importanza. Proprio alla fine del Duecento si insedia a Rimini la famiglia Malatesta, che influenzerà la realtà locale, anche religiosa, sino all’inizio del XVI sec. Nel 1278 la Santa Sede si faceva formalmente cedere dall’imperatore Rodolfo d’Asburgo (del quale aveva favorito l’elezione) il possesso della Romagna e di Bologna: iniziava l’amministrazione papale tramite rappresentanti. Agli inizi del 1300 le città romagnole erano però governate da signorie: Ravenna e Cervia dai da Polenta, Rimini dai Malatesta, Imola dagli Alidosi, Faenza dai Manfredi, Forlì dagli Ordelaffi. Nelle città emiliane gli Este si erano radicati a Ferrara, a Modena e Reggio; mentre nelle città di Parma e Piacenza si alternavano esponenti delle grandi famiglie cittadine (specialmente i Visconti), vicari imperiali o vicari angioini. La signoria a Bologna passava dai Pepoli ai Bentivoglio. I legati pontifici restaurarono, attraverso azioni diplomatiche e militari, il controllo papale sui territori pontifici. Le Costituzioni egidiane, che riprendevano e integravano le leggi e le disposizioni emanate in passato dalla Santa Sede, resteranno in vigore per secoli. Albornoz, nei confronti dei signori delle città romagnole, adottò una politica di compromesso, concedendo ad alcuni l’autorità di vicari pontifici. Alidosi, Malatesta, da Polenta restarono al loro posto; Manfredi e Ordelaffi vennero allontanati e il governo delle città venne assunto direttamente dalla Santa Sede. Il progressivo affermarsi dell’autorità papale in Romagna e il possibile ritorno della Santa Sede da Avignone in Italia fece coalizzare Firenze con i Visconti e con altre città (Lega 1375), che con successo sobillarono molte città dello Stato pontificio. La reazione pontificia guidata dal cardinale Roberto da Ginevra culminò nel massacro di Cesena (1377) e tutte le città romagnole si sottomisero. La Santa Sede dovette tuttavia accettare il ritorno dei Manfredi a Faenza e degli Ordelaffi a Forlì. L’inizio dello scisma gettò di nuovo la Romagna nella confusione politica e per alcuni anni ne approfittarono da ogni parte. Si costituiscono in questo periodo la Romagna estense (Bagnacavallo, Cotignola, Conselice, Lugo, Massalombarda, Sant’Agata, Fusignano, Alfonsine), un dominio relativamente stabile almeno fino alla fine del Cinquecento; e la Romagna toscana (Castrocaro, Terra del Sole, Galeata, Tredozio e Marradi). Alessandro VI, sul finire del 1400, mandò il figlio, il Valentino, a riconquistare in nome della Chiesa le città di Romagna; l’operazione riuscì in parte anche grazie al mercenarismo militare. I successi del Borgia, divenuto duca di Romagna per investitura del papa, si interruppero alla morte del padre e con l’elezione di Giulio II, che riuscì a sottomettere definitivamente le Romagne, ma non il resto della regione. Politicamente la regione rimase, dunque, divisa in quattro parti: la Romagna, governata da un legato papale; Bologna, amministrata da una oligarchia cittadina, sotto il controllo di un altro legato; il ducato estense e il ducato farnesiano, che controllavano Ferrara, Modena e Reggio, Parma e Piacenza; piccole signorie locali a gestire il potere a Borgo San Donnino, Carpi, Guastalla e Mirandola.III - Dall’epoca moderna alla caduta dell’antico regime
Nel XVI sec. il quadro regionale si stabilizzò in un equilibrio rinascimentale, sul quale la Chiesa esercitava notevole influenza. La presenza papale si allargò con l’acquisizione di Ferrara nel 1598, unita alle precedenti legazioni pontificie di Bologna e Ravenna. Nel Settecento ebbe luogo anche nei ducati dell’Emilia il frantumarsi di quella solidarietà tra trono, nobiltà e clero dell’epoca della Controriforma. Le comunità religiose godevano infatti dei due terzi dei migliori beni dei ducati, che la pubblicistica del 1700 disegnava a tinte fosche circa la situazione economica; le colpe venivano cercate negli eccessi dell’assistenzialismo e della filantropia. Non molto diversa sembra essere la situazione nelle legazioni di Romagna e di Ferrara dal XVI al XVIII sec. All’indomani del recupero della Romagna da parte di Giulio II le varie comunità, dopo lunghe trattative, videro riconfermati i propri statuti con le relative autonomie amministrative. Il sovrapporsi del governo papale alle realtà locali non fu sempre felice e alla fine del 1500 il potere pontificio innescava anche in molte città romagnole quel processo di decadenza rafforzato dalla recessione nel secolo successivo. Il ritmo della vita nella Romagna pontificia era rallentato da una parte dalle famiglie nobili, che si garantivano ovunque il predominio della vita cittadina, e dall’altra dalla corruzione dei ministri vicini al legato. Una grossa parte della popolazione che lavorava (contadini, operai urbani e salariati) faceva i conti quotidianamente con problemi di sussistenza, mentre una grossa fetta di forza-lavoro inutilizzata, cioè il mondo degli oziosi, dei vagabondi, degli emarginati (vedove, zitelle, orfani, esposti ecc.), sopravviveva grazie ai numerosi istituti assistenziali pubblici e privati. L’ampia proprietà ecclesiastica, la pesante fiscalità di Roma, la generale invadenza del clero nella vita civile e il controllo capillare dell’Inquisizione segnava la stagnazione economica della Romagna e un forte anticlericalismo nella cultura e nella mentalità del romagnolo. Anche carestie, epidemie, alluvioni e guerre attraversavano tutta la regione. In favore dei ceti meno abbienti si diffondevano forme di credito, come i «monti di pietà» e i «monti frumentari». Alcune di queste forme di credito erano sorte anche per contrastare i banchieri e i mercanti ebrei, molto organizzati, ancor prima della ghettizzazione, a Rimini, Forlì, Ferrara, Lugo, Imola, Bologna, Reggio. La crisi religiosa che attraversò l’Europa nei primi decenni del 1500 si avverte tempestivamente in Emilia e Romagna. Predicatori itineranti infiammavano le piazze: Mariano da Genazzano riscuoteva consensi enormi alla corte degli Este di Ferrara, Bernardino Ochino seduceva Faenza e altre piazze romagnole ed emiliane, prima di passare nelle file del calvinismo; tutti denunciavano la corruzione ecclesiastica e desideravano la riforma. La crisi delle istituzioni ecclesiastiche, e in particolare delle gerarchie, era particolarmente evidente in quelle diocesi dove i casati nobiliari si passavano l’episcopato di zio in nipote: a Piacenza i Trivulzio (1519-1559), a Bologna i Campeggi (1523-1563), a Parma i Farnese e gli Sforza di Santa Fiora (1509-1606). In Romagna venivano inviati uomini di fiducia del papa: nobili fiorentini, senesi e romani si spartivano le diocesi dello Stato pontificio. La cura pastorale delle diocesi era per lo più affidata in questi anni a vicari; tentativi di riprendere il controllo delle diocesi attraverso le visite pastorali e i sinodi tuttavia non mancarono. Diversa la situazione del clero regolare: esso si distingueva per la preparazione culturale e, pur con le sue contraddizioni, costituiva una delle forze più attive della società religiosa; innegabile l’azione di supplenza e il grande fascino esercitato sul popolo: predicazione, direzione spirituale, organizzazione di confraternite, introduzione di nuove devozioni (rosario), diffusione di libri di pietà e di - stribuzione di immagini sacre miracolose erano una loro prerogativa. Economicamente il clero regolare poteva fare affidamento su donazioni e lasciti, che permettevano chiese monumentali e nuovi conventi. Le idee luterane e calviniste si diffondevano più o meno in tutta la regione, in alcuni stati con il consenso e l’appoggio dei principi. A Ferrara si distingueva Renata di Francia, che in quella città favoriva la penetrazione del calvinismo: nel 1536 ella aveva ospitato lo stesso Calvino. A Modena si facevano processioni (1530) per scongiurare «il pericolo di luterani e turchi». Anche nello Stato pontificio, nono stante l’azione preventiva e repressiva del tribunale dell’Inquisizione, giunsero le nuove idee religiose: Bologna, Bagnacavallo, Imola, Faenza, Rimini «pullulavano di eretici». Ben presto la diffusione delle dottrine luterane venne contrastata dai gesuiti presenti a Parma, a Bologna, a Ferrara e a Faenza. Le voci del dissenso si facevano rare o prendevano la via dell’esilio (cfr. F. Lanzoni, La Controriforma nella città e diocesi di Faenza, Faenza 1925). La fine del concilio di Trento avviava anche in regione una più articolata riorganizzazione ecclesiastica. Da Piacenza a Rimini i vescovi operavano per una ristrutturazione delle diocesi e applicavano i decreti del Tridentino. Le nuove parole d’ordine erano: residenza, eliminazione degli abusi, formazione del clero, riforma liturgica, riorganizzazione del patrimonio ecclesiastico. I vescovi ripresero regolarmente le visite pastorali e i sinodi. I sacerdoti si impegnarono nella dottrina cristiana per i fanciulli. Dopo qualche tempo tutte le diocesi fondarono i loro seminari, alcuni dei quali ricevettero anche la visita dello stesso Borromeo. L’accentuazione controriformistica dell’azione pastorale era ben visibile nelle confraternite che sorgevano con lo scopo dichiarato di lottare contro «l’eresia» (confraternite dei crocesegnati), che inculcavano l’adorazione eucaristica (Compagnie del Santissimo Sacramento), che raccomandavano la venerazione mariana (Confraternite del Rosario), la lotta contro la bestemmia e gli spergiuri (Compagnia del Nome di Dio). Di grande rilievo fu, a Piacenza, l’opera del cardinale Giulio Alberoni (1664-1752), sacerdote, diplomatico, primo ministro di Filippo V re di Spagna, fondatore del prestigioso collegio che da lui prese il nome, aperto a seminaristi poveri e dotati di vivace intelligenza (1751). Dalla parte opposta della regione, nel Montefeltro, nel 1621 si era costituita la Congregazione dei cento parroci, una innovativa fondazione clericale che perdura tuttora, ispirata a impegni di mutua carità fra i sacerdoti viventi e di preghiera a suffragio delle anime di quelli defunti. Non va dimenticata la quantità di ecclesiastici colti presenti da Piacenza a Rimini durante il XVII e XVIII sec.: le loro «memorie storiche», giudicate per lo più «mediocri» per le consuete angustie della storiografia locale, hanno in realtà contribuito a conservare un repertorio di notizie religiose, politiche, sociali, economiche e artistiche altrimenti irreperibili. Un discorso a parte merita il contributo di «respiro europeo» del sacerdote modenese Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), di cui ricordiamo almeno i due tomi dei Rerum Italicarum Scriptores (1723) e le Antiquitates Italicae (terminate nel 1732), considerate l’opera più grande della storiografia italiana del secolo. La Romagna di fine Settecento, con le due legazioni di Forlì e di Ravenna, contava circa 240 mila abitanti, mentre Ferrara ne aveva circa 216 mila e Bologna circa 70 mila. Le condizioni dello Stato pontificio (e in particolare della Romagna), alla vigilia dell’arrivo delle truppe napoleoniche, appaiono agli storici quelle di uno stato retrogrado e ostile a ogni idea innovatrice. Un ricordo lontano paiono le tante bonifiche del territorio ravennate-ferrarese: la «bonifica clementina» del 1531, quella «gregoriana» del 1578 e quella generale del 1604 voluta da papa Clemente VIII. Gli stessi cantieri del Sei-Settecento, che segnano la rinascita del porto di Ravenna e le deviazioni dei fiumi Ronco e Montone per impedire le loro di sastrose inondazioni, sono appena ricordate dagli storici. Le quattro legazioni erano guidate da tre cardinali legati, che reggevano le loro province come tanti governi separati. Il legato in teoria gestiva il governo politico della legazione, ma non mancava di ingerirsi nelle questioni religiose: «faceva tutto – annota il ravennate Santi Muratori –, disponeva tutto, regolava meticolosamente dalle provvigioni ai costumi, dalle foggie del vestire all’ora di rincasare, dai libri e dalle gazzette al mangiar di grasso e di magro secondo il calendario. Gli ordini e i proclami prendevano un’intonazione tra lusinga e minaccia, recavano ciascuno l’impronta di quel patriarcalismo ostentato col quale s’amava intrecciare o ricoprire un assolutismo inflessibile» (cfr. S. Muratori, I tempi, la vita e l’opera letteraria di Jacopo Landoni [1772-1855], Ravenna 1907). L’amministrazione di ciascun comune era nelle mani della nobiltà e del clero, la giustizia si faceva in modo «del tutto caotico, parziale e arbitrario», le condizioni economiche «erano tristissime », i latifondi ecclesiastici e laici non permettevano un regolare sviluppo dell’agricoltura, il commercio era minato per il sistema proibizionistico e la severa vigilanza doganale. Gran parte del popolo viveva nella miseria e anche nel più ampio analfabetismo.IV - Dall’epoca napoleonica ai nostri giorni
L’esperienza rivoluzionaria e napoleonica nell’Emilia-Romagna fu il punto di partenza di un attivo movimento giacobino, coinvolto nelle diverse fasi della lotta politica e nelle trasformazioni istituzionali (la Repubblica cispadana, la cisalpina, la Repubblica italiana e, nel 1805, il Regno d’Italia). Il periodo napoleonico trova impreparati molti vescovi, i quali sembrano assumere – come ha dimostrato Menozzi – una posizione omogenea. Nel rapido succedersi di diversi regimi, raccomandano di accettare il mutamento, manifestando nei confronti dei governi l’obbedienza all’autorità insegnata nelle lettere di Paolo (Rm 13,1-6) e di Pietro (1Pt 2,13-17). Al di sotto di questa richiesta di obbedienza si possono però facilmente individuare diverse concezioni. I vescovi non mancano di ritrovare sul piano del pubblico riscontro liturgico un’evidente compattezza: tutti i cambiamenti di regime sono infatti festeggiati nelle cattedrali con riti, preghiere, processioni. Ma quando venne meno la promessa del «conquistatore» di mantenere «intatta» la religione cattolica – le nuove autorità determinano la fine delle forme tradizionali con la secolarizzazione dei beni, la soppressione di ordini, l’abolizione della costrizione legale alla pratica religiosa – alcuni vescovi assunsero un atteggiamento di opposizione nei confronti dell’ordinamento democratico. Francesco Maria d’Este, vescovo di Reggio Emilia, lo manifestava con la fuga dalla città; gli anziani vescovi Mercuriale Prati a Forlì e Domenico Manciforti a Faenza esprimevano il rifiuto delle nuove istituzioni con il privato incoraggiamento alle insorgenze; altri ordinari fecero una scelta di campo assai più esplicita, pagando l’aperta opzione antirepubblicana anche con la prigione, come il vescovo di Sarsina, Nicola Casali, o il cardinal Mattei, arcivescovo di Ferrara. All’opposto, un certo numero di vescovi accettano di orientare i fedeli nel senso richiesto dai governi rivoluzionari; i loro interventi assumono tuttavia forme assai articolate. La lettera pastorale che le autorità repubblicane presentano all’episcopato come modello da seguire ricorda che il «vero spirito repubblicano ottimamente si compone coi dettami del Vangelo» e che «si può essere perfetti cristiani e santi nella democrazia». Questa valutazione la ritroviamo sostanzialmente ripresa, anche se con accenti diversi, dall’arcivescovo di Ravenna, Antonio Codronchi, e dal vescovo di Cervia, Bonaventura Gazzola. Essi tuttavia, pur proclamando la conciliabilità tra religione e democrazia, ne lasciano indeterminati i modi concreti (non a caso questi vescovi inneggiarono alla sconfitta dei francesi: A. Codronchi, Omelia detta nella sua chiesa metropolitana il dì solenne di s. Apollinare, s.l. 1799; B. Gazzola, Risposta del vescovo di Cervia alla lettera della cesarea regia reggenza di Ravenna, s.l. 1799): si limitano infatti all’affermazione che nel nuovo regime non sono precluse quelle pratiche religiose che conducono alla santificazione. Ben più esplicita la dichiarazione di compatibilità tra principi rivoluzionari e cattolicesimo in Gregorio Barnaba Chiaramonti (futuro Pio VII) a Imola (Omelia del cittadino cardinal Chiaramonti vescovo d’Imola diretta al popolo della sua diocesi nel giorno del santissimo Natale, Imola, anno VI). Questo presule non solo nel Natale 1897 afferma che la libertà e l’uguaglianza s’accordano col cristianesimo, ma soprattutto sostiene che esse potranno mantenersi nella misura in cui si radicheranno nella società come virtù cristiane. Afferma però che la laicizzazione dello Stato non comporta la fine del ruolo centrale del cristianesimo nella società. Anzi, a suo avviso, solo il mantenimento di una società cristiana, cioè di un consorzio umano in cui alla Chiesa si riconosca il compito di definire le ragioni ultime del vivere collettivo, può consentire la vita del secolarizzato stato democratico. La normalizzazione napoleonica implicava anche il tentativo di omogeneizzare l’orientamento politico dei vescovi; lo sforzo tuttavia ebbe risultati modesti. È noto che quando si delineò il contrasto tra l’imperatore e la Santa Sede buona parte degli ordinari anche in Emilia-Romagna preferì la fedeltà a Roma rispetto a quella imperiale. In particolare, in seguito all’annessione dello Stato pontificio, la maggioranza dei suoi vescovi accettò la direttiva romana di rifiutare il giuramento, subendo per questo l’esilio (Antonio dei conti Begni, vescovo di Montefeltro, ad esempio, fu deportato nel 1808 e tenuto in prigione e in esilio per sei anni in varie città della Lombardia; il cardinale Carlo Opizzoni arcivescovo di Bologna fu imprigionato e trattenuto con la forza in Francia – assieme al papa – fino al 1814). Il vescovo di Comacchio, invece, al momento in cui la Chiesa di Cesare sembrava compattamente celebrare i trionfi militari, civili e religiosi dell’«unto del Signore», non esitava a paragonare Napoleone a Ciro, a Costantino e a Carlo Magno (G. Boari, Lettera circolare, Comacchio 1806, 8-12). Crollato l’impero napoleonico, Pio VII voleva tutto indietro. Le legazioni al congresso di Vienna non vengono né «donate » né «restituite», ma semplicemente «consegnate» al papa, mutilate però dell’Oltrepò ferrarese, che farà da frontiera al Regno di Lombardia. All’indomani della Restaurazione si può cogliere la soddisfazione di diversi vescovi per il ritorno a una situazione in cui, come afferma l’arcivescovo di Bologna, «non saranno più in contrasto le leggi di Dio e della Chiesa colle costituzioni e le leggi dello Stato» (C. Opizzoni, Raccolta delle notificazioni e cir colari, Bologna 1828, 1-5). Alla base di tale atteggiamento sta il ricomporsi di un’unità politico-religiosa che sembra allontanare l’episcopato dalle difficoltà e dai problemi posti dalla secolarizzazione della società. È vero che gli ordinari non mancano di esprimere preoccupazioni sociali: la carestia degli anni 1815-1816, a cui fa seguito l’epidemia di tifo petecchiale, non è solo occasione per ricordare il persistere di quel castigo divino sugli uomini che si era già manifestato con la rivoluzione e le guerre, ma anche, almeno per alcuni, per sollecitare una migliore organizzazione della beneficenza e dell’assistenza, almeno al fine di evitare il riaprirsi della protesta popolare (C. Semeraro, Restaurazione chiesa e società, Roma 1982, 228-239). Generalizzato sembra l’invito ai fedeli a ringraziare la Provvidenza per il ricostituirsi di una società ufficialmente cristiana; eppure, al di sotto di questo elemento, si muovono orientamenti diversi. Alcuni vescovi, come il Gazzola, trasferito da Comacchio a Montefiascone, manifestano infatti opposizione al mantenimento dell’autonomia del potere politico: a loro avviso solo una totale su bordinazione dello Stato all’autorità ecclesiastica può garantire la definitiva sconfitta delle idee rivoluzionarie. Il fenomeno della decristianizzazione negli anni Venti si faceva più acuto e venne denunciato con preoccupazione dai vescovi delle Romagne e dell’Emilia: Codronchi e Falconieri a Ravenna lo fecero fin da allora. Dopo i moti del 1831, alle preoccupazioni religiose si accostavano quelle politiche. Laddove il processo di soppressione era stato più massiccio, ivi si registrò una ripresa più lenta, problematica e al limite del fallimento. La riapertura delle case religiose restò notevolmente al di sotto del livello precedente: un fenomeno che finirà per caratterizzare tutto il periodo della Restaurazione e oltre. Le nuove strutture parrocchiali, il seminario, il clero, l’assistenza sanitaria, l’istruzione, le opere caritativo-assistenziali rappresentano le componenti essenziali di tale improrogabile disegno di ricostruzione e di riorganizzazione della vita ecclesiastica e religiosa. Contemporaneamente però è proprio questa stessa carenza di comunità religiose che spinge i vescovi a sollecitare il clero secolare a prendere coscienza di settori e di compiti pastorali cui prima s’era mostrato estraneo: le missioni, che caratterizzarono il periodo maturo della Restaurazione e che certamente svolsero un ruolo prezioso nel rinnovamento spirituale sia del clero che del popolo, trovarono le loro radici nell’humus preparato dalla rinascita degli ordini religiosi nelle diocesi. Nel corso del Risorgimento, l’Emilia- Romagna fu coinvolta in un’intensa attività patriottica, culminata nei moti del 1831, nelle insurrezioni del 1848 e infine nei plebisciti del 1859, con cui fu sancita l’annessione al Piemonte. Il Risorgimento vide l’attiva partecipazione di mazziniani e carbonari alla lotta di emancipazione contro il potere pontificio. Anche in Emilia i presuli del ducato di Modena invitano clero e popolo ad astenersi dal moto del 1831, ne salutano con soddisfazione la repressione e festeggiano il ritorno del potere assoluto, sottolineando l’equivalenza tra empietà e sovversione: non a caso il concordato del 1841 tradurrà in un accrescimento della giurisdizione episcopale sul temporale questa piena sintonia tra autorità ecclesiastica e civile. Su questa linea rimase attestato anche Gaetano Maria Cattani (1850-1863) di Carpi, dopo i sommovimenti del 1848, che vennero letti all’interno della genealogia dei mali tesi a dissolvere il primato della Chiesa all’interno della società, secondo il tradizionale schema della cristianità (F. Cattani, Agli abitanti della città e diocesi, Reggio Emilia 1831 e Agli abitanti della città e diocesi, Reggio Emilia 1834; A. Caleffi, Al clero d’ambedue le sue diocesi, Modena 1831 e A tutti li fedeli d’ambedue le diocesi, Modena 1831; A. Ceracchi, vescovo di Massa Carrara, Al clero e popolo, Modena 1831; C. M. Bassetti, Agli abitanti della sua diocesi, Carpi 1832, e Al diletto popolo della sua diocesi, Carpi 1832). Al di fuori dei confini emiliani pastori prestigiosi (come Chiarissimo Falconieri Mellini a Ravenna) insistono a presentare la sovranità popolare e i regimi costituzionali come un’eredità di quella Rivoluzione francese che, togliendo il fondamento religioso alla vita politica, ha portato alla rovina della società (C. Falconieri Mellini, Pastorale intorno ai tempi correnti, Ravenna 1832, e Al Venerabile clero e al popolo amatissimo, Ravenna 1835). Nel ducato di Reggio, Francesco IV mandò molti in esilio e alcuni alla pena capitale. Tra questi don Giuseppe Andreoli, insegnante nel collegio di Correggio, «per essere stato seduttore della gioventù e più reo per la sua qualità di professore e sacerdote». Invano il vescovo Angelo Maria Ficarelli (1822-1825) ne chiese la grazia e si rifiutò di sconsacrare il giovane prete (33 anni), che fu decapitato a Rubiera il 17 ottobre 1822. Il fatto urtò così profondamente il popolo e il clero che il duca cercò di riparare al malcontento generale favorendo l’apertura di un nuovo seminario a Marola per la montagna reggiana. A Bologna altrettanto dolorosa fu la fucilazione, per mano degli austriaci, di Ugo Bassi (1849), il barnabita noto per le sue idee liberali che aveva combattuto in difesa di Venezia e poi della Repubblica romana. A Parma l’insediamento, su sollecitazione di Maria Luisa, di un «vescovo austriaco » – come venne ribattezzato l’ungherese Giovanni Neuschel (1843-1852) – al governo della diocesi innescò uno strisciante clima di ostilità nel clero locale, culminato nei moti del 1848, durante i quali il presule fu indotto ad abbandonare la città, dopo la destituzione dei Borbone. Il passaggio dalla «seconda» restaurazione del potere ducale all’unità nazionale venne gestito dal cappuccino Felice Cantimorri (1854-1870), primo vescovo nominato da papa Pio IX. Nel conflitto tra Stato e Chiesa si aprì a Parma una crepa vistosa, paradigmaticamente restituita dagli avvenimenti del 1866: dopo l’invio in domicilio coatto del vescovo e dei suoi più diretti collaboratori, il capitolo della cattedrale levò un proclama in appoggio alla terza guerra d’indipendenza. Nei primi mesi del rivolgimento i vescovi seguono generalmente con simpatia il tentativo di unificazione nazionale, anche sull’onda del neoguelfismo e degli equivoci ingenerati dalla politica di Pio IX. A Reggio il vescovo Filippo Cattani celebra con solenni cerimonie religiose le vittorie nella guerra di liberazione dallo straniero e asseconda le richieste dei governi provvisori, emanando circolari in cui si invitano i parroci a presentare ai fedeli la «rigenerazione» dell’Italia come dono della Provvidenza, a indire pubbliche preghiere per una vittoriosa conclusione del conflitto, a rafforzare nei parrocchiani «l’ardore bellicoso» (la pastorale di F. Cattani, vescovo di Reggio Emilia, Agli abitanti della sua diocesi, Reggio Emilia 1848). Dalla parte opposta il vescovo di Rimini, Salvatore Leziroli, elogia lo statuto di Pio IX scrivendo: «Varie forme di legittimo governo si danno e niuna di esse è incompatibile o riprovata dalla cattolica chiesa: [...] il cambiamento di esse forme adottato dal principe a rispettosa domanda de’ sudditi tornerà certo a miglioramento della condizione de’ governati quando la religione e la morale dirigano i pensieri loro, le loro volontà» (S. Leziroli, Lettera pastorale, Rimini 1848). Le conferenze episcopali che su sollecitazione della Santa Sede si tennero tra l’ottobre e il novembre del 1849 in diverse province ecclesiastiche procedevano comunque alla condanna della rivoluzione. Così la conferenza romagnola attribuisce la responsabilità della corrente cospirazione contro l’altare e il trono a una «filosofia profanatrice di questo nome [...], figlia multiforme del protestantesimo e seco lui federata», che attacca la Chiesa per sovvertire l’ordine politico e sociale (Lettera pastorale del cardinale arcivescovo e dei vescovi dell’ecclesiastica provincia di Ravenna ai loro diocesani, Bologna 1849, 5-6). Ed è proprio questo uno dei temi centrali dell’enciclica Nostris et nobiscum che, nel dicembre 1849, Pio IX emana dall’esilio di Portici. Il papa presenta le recenti vicende come il frutto di una «scelleratissima macchinazione», diretta alla distruzione dell’autorità nata con la riforma protestante, sviluppata nell’Illuminismo, portata avanti dalla Rivoluzione francese: il liberalismo e il socialismo. L’enciclica interpretava tutta la storia moderna come una catena di errori che portava l’uomo al progressivo allontanamento dalla Chiesa, facendo così precipitare la società nel baratro della barbarie del comunismo ateo. Il nuovo periodico dei gesuiti, «La Civiltà cattolica», presentando una lettera pastorale del vescovo di Imola, Gaetano Baluffi, intitolata Intorno alla Riforma ed ai tentativi per introdurla in Italia (1850), ricordava che la voce unanime dei pastori «sorge dall’un capo all’altro della penisola a far eco alle parole del sommo pontefice: concili, encicliche, pastorali, avvertimenti, tutto è posto in opera dalle vigili vedette del santuario per preservarci dall’abisso che ci minaccia ». L’argomento è presente anche nei decreti emanati dal concilio provinciale di Ravenna (1855). Dalle Lettere pastorali dei vescovi dell’Emilia-Romagna si desume che sostanzialmente aderiscono a questa prospettiva Pietro Buffetti a Bertinoro, Gaetano Maria Cattani a Carpi, Luigi Vannicelli Casoni a Ferrara, Pietro Rota a Guastalla, Gaetano Baluffi a Imola, Francesco Emilio Cugini a Modena, Felice Cantimorri a Parma, Salvatore Leziroli a Rimini. I documenti collettivi emanati tra il 1860 e il 1861 dai vescovi delle ex legazioni e degli ex ducati non sono molto diversi da quelli degli altri vescovi italiani. Esprimono, infatti, una forte protesta contro la legislazione giudicata antiecclesiastica, che abolisce i privilegi del clero, che introduce il placet e l’exequatur sulle nomine ai benefici e sugli atti ecclesiastici, che favorisce la libertà religiosa e di stampa a scapito del cattolicesimo, la sola religione dello Stato: «Non emerge direttamente da questi documenti la manifestazione di una posizione anti-unitaria; anzi, i vescovi respingono l’accusa, contenuta in una circolare del guardasigilli Miglietti, di mirare al sovvertimento della nuova situazione politica, affermando la piena sottomissione loro e del loro clero alle leggi. Evidente è tuttavia la rivendicazione della necessità del ritorno alla condizione giuridica in cui si trovava in precedenza la Chiesa» (Menozzi, 1997, 423). Nel clima che così si andava delineando, non mancò tuttavia anche nella nostra regione il tentativo di mantenere aperta una via di conciliazione con lo Stato unitario. In questa prospettiva si muove, con posizioni assai interessanti, il vescovo di Piacenza, Giovanni Battista Scalabrini, solo però dopo la fine del pontificato di Pio IX; una posizione di conciliazione la sua, sempre collocata all’interno di un’ideologia di cristianità. Nel 1889 erano istituite in Italia le conferenze episcopali regionali. Anche quella emiliano-romagnola risale a tale data, anche se i suoi lavori cominciarono effettivamente solo nel 1897. Essa manteneva un residuo della geografia politica pre-unitaria: ne facevano parte i vescovi da Piacenza a Rimini (venti diocesi compresa quella di Massa, suffraganea di Modena, ed escluse Bobbio e Modigliana). Le differenze culturali e politiche rendevano difficile il lavoro dei vescovi. Così, nel 1908, Pio X accolse la richiesta di definire due conferenze episcopali: quella emiliana, che comprendeva le diocesi degli ex ducati (Massa nel 1910 era stata aggregata alla Toscana), e quella flaminia, composta dai vescovi delle ex legazioni, esclusa ancora Modigliana. Nel 1976, con la nuova ristrutturazione, alla provincia ecclesiastica emiliana, oltre alle diocesi di Reggio Emilia, Carpi e Guastalla, vennero aggregate le diocesi di Piacenza, Fidenza e Parma. La divisione rimase fino all’8 dicembre 1976, quando papa Paolo VI riunì in un’unica conferenza i vescovi dell’Emilia-Romagna. Questa volta, oltre a Modigliana, si aggiungeva anche San Marino-Montefeltro. Bobbio ancora rimaneva collegata alla Liguria; nel 1986 fu unita all’arcidiocesi di Genova, e infine, nel 1989, alcune parrocchie del suo territorio furono separate dall’arcidiocesi di Genova-Bobbio e aggregate alla diocesi di Piacenza. Sulla scia dell’attività collettiva dei vescovi emiliano-romagnoli, si sviluppa una vivace mobilitazione del laicato. Fin dalle prime lettere pastorali pubblicate nel 1898, i vescovi chiedono ai fedeli un fattivo impegno per arginare l’avanzata socialista, in vista della riedificazione cristiana della società. In quasi tutte le diocesi si diffonde l’Opera dei congressi. Con l’ultimo decennio del XIX sec. – poco dopo la pubblicazione della Rerum Novarum – il mondo cattolico regionale si riorganizzò sotto le proposte della Democrazia cristiana di Romolo Murri. Si formarono associazioni di mutuo soccorso e si tentarono di arginare le agitazioni. In molte diocesi il movimento murriano, nella sua pur breve esistenza, fu intenso, ricco di opere culturali e sociali, sostenuto da alcuni vescovi (in particolare i cardinali Domenico Svampa a Bologna e Antonio Riboldi a Ravenna) e da quella nuova generazione di preti sostenitori delle idee democratiche, più o meno tutti schedati per presunte simpatie modernistiche, legati a un certo tipo di pietà biblica e liturgica. Si trattava di don Francesco Lanzoni e don Antonio Guerra a Faenza, don Giovanni Genocchi e don Girolamo Zattoni a Ravenna, don Giovanni Ravaglia a Cesena, don Adamo Pasini a Forlì, don Domenico Conti a Imola, don Giulio Belvederi a Bologna, don Girolamo Mauri a Rimini, don Angelo Ferrari a Ferrara. L’area romagnola (più di quella emiliana), che creava al papa inquietudine per la diffusione delle idee murriane e del modernismo, fu più attentamente sorvegliata. Quasi tutti i vescovi concentrarono l’attività svolta dai seminari diocesani nel seminario regionale di Bologna (1919), costituendo un corpo docente più in linea con le direttive di allora. La grande guerra vedeva i vescovi emiliano- romagnoli su una linea di moderato patriottismo (Alberto Monticone): nelle loro lettere si ribadisce la richiesta di «ricondurre Dio e il suo Cristo ad occupare il posto che loro compete nelle leggi, nei parlamenti, nei tribunali, nelle scuole»; al contempo si presenta la guerra in corso come la punizione di Dio per «le colpe pubbliche e sociali» del mondo contemporaneo (Menozzi, 1997, 431). In una situazione ove vivo era il ricordo delle persecuzioni socialiste e repubblicane, la risposta al fascismo appare complessa. I vescovi, nelle diocesi o in assemblee, apprezzano le disposizioni del governo che reintroducono il crocifisso nelle scuole, e qua e là qualcuno inclina al nazionalismo cattolico, anche se non mancano tentativi di palesare l’esistenza di una certa autonomia della Chiesa. Gli accordi del 1929 portano a un generale clima di consenso, anche se restarono vivaci gli attriti per l’Azione cattolica; il concilio plenario emiliano-romagnolo del 1932 rende pubblica la «perfetta armonia» tra Chiesa e governo. Nel 1937, La risposta dei vescovi della regione flaminia all’episcopato spagnolo difende l’insurrezione franchista come giusta rivolta nazionale e religiosa per la tutela della civiltà cristiana contro la cospirazione mondiale dei bolscevichi. Nel 1938 le leggi razziali fasciste vengono messe in discussione, ma sul piano generale resta «una complessiva adesione al fascismo » (Menozzi, 1997, 436). Nel corso della seconda guerra mondiale la regione fu l’epicentro dei violenti scontri tra tedeschi e alleati nell’ultima fase del conflitto, culminati nei combattimenti lungo la linea gotica; fu teatro altresì del movimento antifascista, le cui azioni militari furono contrastate dai nazifascisti con ogni mezzo, non ultimo le rappresaglie, delle quali la strage di Marzabotto costituisce l’episodio più drammatico. Non si possono comunque dimenticare i vari preti uccisi in Emilia dai militanti comunisti, nel cosiddetto «triangolo rosso», pochissimi dei quali avevano un passato di adesione diretta al fascismo (si vedano in questo senso i libri denuncia di L. Bergonzoni- C. Patelli, Preti nella tormenta, Bologna 1946; L. Bedeschi, L’Emilia ammazza i preti, Bologna 1951 e Martirologio del Clero italiano 1940-1946, Roma 1963). Nel dopoguerra riprese a vivere la tradizione socialista, a cui i partiti operai diedero un orientamento riformistico espresso nella gestione di molti enti locali, divenuti punto di forza di una regione governata da «maggioranze di sinistra». La presenza della Chiesa nell’Emilia-Romagna dopo la fine della seconda guerra mondiale è ancora significativa. Tuttora fiorenti sono gli ordini religiosi: le religiose sono presenti con 1032 case e 9135 suore, distribuite in ogni diocesi; i religiosi sono presenti in 159 case, con 1003 sacerdoti e 335 fratelli laici. Negli anni prima del concilio Vaticano II i vescovi (fra tutti il cardinal Lercaro con iniziative quali A Messa, figlioli, l’arrivo in città dei Magi per l’Epifania, la processione festante dei bambini per la domenica delle Palme) promuovono una pastorale inflessibile, fatta di «mobilitazione» e «presenza » nella società, ma anche di lotta contro l’ideologia socialcomunista e l’incipiente consumismo e materialismo tecnologico. In regione non sono mancate figure sacerdotali significative: a Fossoli don Zeno Saltini, a Reggio don Dino Torreggiani e don Mario Prandi (il creatore di un geniale modo di «Casa della Carità«), a Bologna il sacerdote mendicante Olinto Marella, a Ravenna don Angelo Lolli con l’Opera Santa Teresa. Non meno significativa l’attività di don Giuseppe Dossetti. Negli anni del concilio e del post concilio si distinsero alcune figure di vescovi: Giacomo Lercaro e Luigi Bettazzi a Bologna, Salvatore Baldassarri a Ravenna (rimosso nel 1975), Emilio Biancheri a Rimini, Gilberto Baroni a Reggio Emilia. Gli anni della contestazione ebbero numerose defezioni sacerdotali. Negli stessi anni tuttavia si affermava il diaconato permanente, che raggiunge oggi un numero superiore a 400 diaconi. Ancora vivace in Emilia Romagna la stampa periodica: nel 1903 si contavano 39 periodici, nel 1950 erano 22, senza considerare quelli di varie comunità religiose, rinomati a livello nazionale: «Il Regno » (1956) dei dehoniani a Bologna, «Divus Thomas» del collegio Alberoni di Piacenza, il «Bollettino liturgico» dei benedettini di Parma. Tra i giornali cattolici, il quotidiano «L’Avvenire d’Italia» (sorto nel 1896) stampato a Bologna con il contributo di una banca cattolica e distribuito in quarantamila copie. Oggi settimanali diocesani sono presenti in ogni diocesi: a Piacenza «Il Nuovo Giornale», a Bobbio «La Trebbia», a Fidenza «Il Risveglio», a Parma «Vita Nuova», a Reggio Emilia-Guastalla «La Libertà», a Modena-Nonantola il «Nostro Tempo», a Carpi «Notizie», a Bologna «BolognaSette», a Ferrara «La Voce», a Imola «Il Nuovo Diario Messaggero», a Faenza «Il Piccolo», a Ravenna «Risveglio Duemila», a Forlì «Il Momento» e «L’Eco della Diocesi», a Cesena il «Corriere Cesenate », a Rimini «Il Ponte», a San Marino- Montefeltro il «Montefeltro». È tornata di grande interesse la rete di santuari (oltre 300 sul territorio emiliano romagnolo; a dire il vero alcuni solo onorifici, altri in disuso o non riusciti), formatasi in vario modo in tutti gli angoli della regione. La devozione è evidentemente segnata dai riti di pellegrinaggio e dagli ex voto. Ben conservati i dipinti votivi del santuario di Fiorano Modenese, della Madonna della Salute di Solarolo, della Madonna del Monticino di Brisighella e di Santa Maria delle Grazie di Faenza, della Madonna della Rocca di Cento, del Piratello a Imola, dell’Oliveto ad Albinea di Montericco e gli ex voto della montagna bolognese e della Madonna di San Luca. La tradizione storica dello studio della teologia, che in regione aveva già conosciuto strutture di particolare valore – lo «Studio generale e solenne» domenicano (istituito nel 1248), la facoltà teologica di Bologna (eretta nel 1360) e gli «studi» di ordini religiosi –, dal 29 marzo 2005 trova la sua matura realizzazione nell’eretta facoltà teologica dell’Emilia-Romagna con sede a Bologna presso il seminario regionale. Negli ultimi decenni ha preso un rilievo che supera i confini della regione ecclesiastica l’incontro annuale organizzato dal movimento di Comunione e Liberazione a Rimini. Da ultimo un accenno a quel fenomeno, ancora tutto da studiare, delle visite pastorali di papa Giovanni Paolo II in Emilia-Romagna. Il pontefice è venuto, tra il 1982 e il 1997, varie volte: a Bologna nel 1982, 1986, 1988, 1997; a Rimini nel 1982 in occasione del Meeting di Comunione e Liberazione; nel resto delle diocesi romagnole nel maggio 1986 (a Forlì, Cesena, Imola, Faenza e Brisighella, Ravenna, Cervia), in quelle emiliane nel giugno 1988 (a Carpi, Modena e Fiorano, Fidenza, Piacenza, Castel San Giovanni, Reggio Emilia, Parma), nel settembre 1990 a Ferrara (insieme a Pomposa, Comacchio e Argenta).Bibliografia
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A. Samaritani, Nuove emergenze del medioevo religioso in Emilia-Romagna da indagare, «Ravennatensia», XIX, Imola 2002, 155- 164;
M. Tagliaferri (a c. di), Santuari locali e religiosità popolare nelle diocesi di «Ravennatensia», Imola 2003;
Storia dell’Emilia Romagna, 1. Dalle origini al Seicento, a c. di M. Montanari-M. Ridolfi-R. Zangheri, Roma-Bari 2004 (spec. i saggi di P. Golinelli, G. Tocci, G. P. Briz zi);
2. Dal Seicento a oggi, Roma-Bari 2004 (spec. i saggi di A. Varni, R. Balzani).
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FONTE
Le diocesi d'Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, Torino, San Paolo edizioni, 2007-2008, 3 volumi.